Nazario Pardini, Hoc mihi contingat

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NAZARIO PARDINI

Melanconico autunno

Melanconico autunno, non dirò
delle foglie morte che stamani
tu dissemini sopra il mio sentiero,
e nemmeno dei colori moribondi
di cui ti impreziosisci; ma stamani
mi piace ricordarti quell’autunno
che tanto melanconico non era,
anzi sprizzava gioia tutto attorno:
c’era lei, ti ricordi, e le tue foglie
si facevano verdi e verde il mare
e verde pure il cielo, come verde
l’animo mio che sapeva tanto
di una primavera, e le tue foglie
non erano morte sopra il mio viale,
c’erano i suoi piedi nudi a carezzarle
per dare luce e rendermi felice.

Laura e il bosco degli ulivi

La vita di campagna l’arricchiva:
si fermava estasiata ad ammirare
il sole che diviso in semicerchi
per metà si dava alle acque
e l’altra continuava a illuminare
le spiagge circostanti ed i poderi,
dove la luna poi sarebbe scesa
a sfarinarsi sull’argine del fiume.
Là si gustava le scene che il vespero
combinava con la sua malinconia;
era allora che la nuvola dei passeri
rientrava dai voli giornalieri, e lei
ci si mischiava con la mente ed il cuore.
Fingeva di andare lontano, in alto,
indossando le ali degli uccelli.
Le dispiaceva persino strappare
il filo dell’erba,
cosciente di togliergli la vita.
Ne respirava il selvaggio profumo
accostando l’olfatto al prunaio
che arzillo vibrava al vento del mare.
Laura. I suoi occhi di un celeste marino
traevano la profondità
dagli abissi del cielo che, trafitto
dal passo degli uccelli, si spargeva
tra i raccolti; fu proprio dal padre
che aveva ereditato l’amore per i campi,
e il simbolico tratto dei colori:
il rosso del tramonto, il rosa dell’alba,
il buio delle giornate di pioggia.
Chiedeva spesso al padre
perché la natura creasse tante gradazioni:
l’uva rossa, l’uva bianca, l’erba verde,
la luce brillante del sole.
Un giorno il padre le si posò di fianco
con la vanga a tracolla e il viso stanco.
Fece appena a dire: “Mi sento male”
che s’accasciò senz’anima vicino
alla figlia che sbalordita vide
il genitore tramortito a terra.
Pianse e spaventata, chiamò ad alta voce
la madre che in cucina preparava la cena.
Ma tutto fu superfluo; fu la fine.
Toccò a Laura prenderne le veci:
preparare la stalla, mungere, seminare,
raccogliere, pulire, essiccare,
fare conserve e preparare fichi
in zucchero al caramello, la sua specialità.
In certi momenti,
quando il sole si poggiava sulle viti,
vedeva la figura del padre che arcigno
e silenzioso annaffiava i raccolti
col sudore; un sudore che spesso asciugava
alla vecchia maniera,
strusciando il braccio sulla fronte. Allora
Laura si metteva seduta a dialogare
con l’immagine del padre. Piangeva,
e piangeva non tanto per la fatica,
quanto per la solitudine che provava
in mezzo alle distese, senza poter gridare
il suo nome. Sì, un po’ si distraeva
quando una tortora o una garzetta le
gironzolavano attorno. Che meraviglia!
Forse era il padre, che, trasferitosi
nei piumaggi degli uccelli, in licenza,
veniva a trovare la figlia: “Laura,
sono qui”, sembrava dicesse, e lei
si accostava ai volatili con l’intenzione
di accarezzarli, ma le sfuggivano di mano
e schioccando le ali sparivano nel cielo.
Un giorno Laura si mise a rincorrere
la luna che bella rotonda e luminosa
si sfarinava tra le viti come
latte munto da poco dalle capre.
Corri e corri si trovò vicina al monte
dove non era mai stata; i tanti impegni
non le permettevano di viaggiare.
E sul monte cominciò a camminare:
prese una stradetta tra gli ulivi
e in breve si trovò sulla cima.
Da là vedeva il mondo: il lago, il podere,
gli uccelli che piccoli
svolazzavano in cielo ora assiepandosi
e ora dividendosi in tanti rigagnoli.
Udì una voce, sembrava venisse
dall’altro mondo: “Laura come stai?
Sono la voce di tuo padre che abita
nel regno del cielo. Qui in alto,
sul monte vicino alle nubi; figlia
sei giunta, non volendo, nel mio regno,
ed io ti vedo e ti sento; come vorrei abbracciarti,
ma non posso, posso soltanto parlarti:
non ti perdere sul monte, torna a casa,
le capre hanno bisogno di te.
La cosa che più mi fa triste
è quella di non poterti dare
l’aiuto dei giorni in cui vivevo
accanto al tuo respiro. Vai là,
io ti sono vicino, sempre, con te,
in ogni momento della vita.”.
Si mise in marcia Laura e attraversò
il bosco degli ulivi; qui si presentò
un personaggio strano, disumano,
a forma di albero nodoso: “Laura,
non ti perdere in questa strada folta,
segui la scia che io ti segnerò; e torna presto
a casa dove tua madre stanca e senza forze
non potrà sopperire a lungo al gran lavoro.
Altri gnomi le si affollarono attorno
e tutti ripetevano le stesse parole.
Laura camminò più spedita, ma non riusciva
a trovare la strada di casa; a questo punto
l’amica più cara la affiancò,
facendo con lei la strada del ritorno.
Il lago brillava dei raggi della luna,
la natura era bella, mai come allora,
bevve, si rinfrescò, e chiese ad un passero
di accompagnarla alla sua terra.
Le svolazzava attorno, e cinguettava,
guidandola coi frulli delle ali.
Finché vide sua madre che spargeva
il granoturco alle galline sul cortile.
Abbracciò la madre, e felice, imbracciò
la vanga. Lo sguardo di suo padre
dal monte osservava la figlia
non più sola, ma in compagnia di un suono
che il vento di monte le portava.

Babbo

Non mi ricordo più se sei esistito,
babbo. Ho soltanto l’immagine sfuocata,
che vedo ogni giornata al cimitero,
quando vengo a trovarti. Questo tempo
mi toglie ogni brandello
della vita che insieme trascorremmo.
Solo memorie vaghe mi contornano
di te sulla tua terra, in mezzo ai campi,
a testa scoperta a sfrascare
tra i butti della vigna, e qualche gesto.
Mi rimane di quando ti fuggì
il morellino. Io e mio fratello più piccino
ti aspettammo davanti al cimitero,
mentre tu corresti infreddolito
a ricuperare il cavallo. Venne notte,
ed un signore che abitava vicino,
passando da lì, ci vide e ci portò
in casa sua a riscaldarci al camino.
Ogni cosa mi riporta il tuo volto,
ma sono memorie ed il terrore
mi assale che il tempo me le levi.
Vorrei il tuo corpo,
il tuo odore acuto dei tant’anni,
la tua infaticabile presenza,
il tuo spirito pronto a dare gioia.
Domani, come al solito, verrò
a far visita a ciò che mi rimane
chiuso in quel cumulo di marmo.
Non abbiamo più tempo, babbo,
tutto è finito, piano piano
si avvicina la fine anche per noi
che abbiamo l’età di quando
tu dicevi di sentirti stanco.
Spero solo che le memorie di te
restino per sempre oltre la morte,
almeno quelle, con me. Sì almeno quelle,
di quando ci prendevi con la forza
e ci gettavi in aria fino al cielo.

Mamma

Ma tu sei stata giovane?
Hai baciato mio padre nel tempo dell’amore?
Oppure hai conosciuto solo la miseria
senza poter distrarti dai giochi della vita.
Le memorie fanno male,
ora che vorrei averti qui per riparare.
Ricordo quel giorno che arruffavi nella mota
con tre balle di spinaci
per raccattare i bicci per il pane.
Ma ricordo anche
il giorno di San Ranieri,
la tua mattata di portarci a Pisa.
Si mangiò torrone e cioccolata.
Come eri felice quel giorno sul prato!
Eravamo piccoli noi figli,
ma tu inventavi la forza del coraggio,
lo spirito del nulla, e ci ridevi sopra.
Guardo una tua foto, da giovane,
ma l’hai avuto il tempo di pettinarti?
Di farti bella per mio padre?
Hai indossato il vestito nuovo della festa?
Sei andata in città a vedere le vetrine?
Hai mai acquistato il vestito che sognavi?
Ho solo il rimorso più grande, sai,
quello di non averti baciato assai
e di non avere spento la tua gelosia
verso la donna che mi volle accanto.
Quella gelosia che ora capisco:
il bene più grande di una madre.
Quanto fanno male le memorie!

Una vita

Cogli nell’animo
momenti essenziali,
costruisci una storia
senza inutile scoria,
pacato rivivi
decisivi tratti
unisci dolori, tormenti,
gioie superbe;
ti serve poco
a fare una vita
e quel poco che resta
serve a pensare,
a respirare aria di mare
fra le voci indistinte
di un’ultima sera.

Giorni scorciati

I filari nascondono i corpi
densi di pampini vecchi;
sibilano arie di monte,
di mare, confuse
tra i tabacchi dei vitigni;
ritorti usciti da terre infuocate,
mille volte rinate,
parlano ai venti, alle brezze
di vite passate, di foglie seccate.
Biondeggiano i chicchi per poco,
ormai fioco appare il cammino
di giorni scorciati dall’ombre dei filari.

«Questo mi tocchi in sorte: sia ricco, a ragione, chi può sopportare la rabbia del mare e le tristi piogge…» (dalla prima Elegia di Albio Tibullo). Un sogno agreste è scrivere del Poeta che ho seguito su Alla volta di Lèucade, il blog di poesia più importante d’Italia. Il viaggio si divide in cinque tappe: Elegie; Dalla vita dei campi; Alla ricerca di voci; Attorno al focolare; Massime.

Con Melanconico autunno, nella sezione Elegie il Poeta conduce nell’apparente tristezza dei colori autunnali: è tipico cedere alla saudade solo in apparenza e soprattutto associare alla melanconia quella che Victor Hugo definiva «la felicità di essere tristi», che è la dimostrazione che la malinconia non sarebbe possibile senza memoria. I versi composti con l’inchiostro e con il sangue per il Babbo e per la Mamma rompono gli stampi, ci presentano un Poeta nudo, che ci insegna il coraggio del dolore. In effetti dimenticare la sofferenza è difficilissimo, ma ricordare la dolcezza lo è ancora di più. La felicità non lascia cicatrici da mostrare. Com’è difficile chiedere a una madre se ha baciato il padre, eppure da ragazzi ce lo siamo domandato tutti. A stemperare l’atmosfera tinta dello spleen di Baudelaire, esplode la musica; il poeta rivede le sue donne; Delia non poteva mancare, è figura del mito e le sono concesse molte vite a differenza dei personaggi del romanzo, vincolati a una sola esistenza; incarna l’amore del Poeta, poco importa darle il vero nome: Delia, l’estasi eterna, torna a trovarci in prosa, figura umilissima e sovrana.

Albio Tibullo e il poeta de I fiori del male sono il filo conduttore di quest’avventura attraverso i ricordi, la malinconica nostalgia, l’idealizzazione dell’amore e il rapporto empatico con la Natura. Il prosimetro non è un genere nuovo al Nostro: definito la forma informe per eccellenza, si accorda benissimo, come strofa di una sinfonia musicale, con le poesie in metrica, conferendo all’andamento della versificazione carattere altalenante, tipico di una metricità intenzionalmente interrotta, spezzata. Grazie al prosimetro è possibile dare un profondo senso di svolgimento e interiorità a una vicenda personale. Alle poesie lunghe, immaginifiche, se ne accostano altre, aforismi o distici, esempi luminosi dell’arte della brevità: «Siamo sperduti nel cielo / su un corpo / senza luce» (Solitudine); «E tutti attendiamo su spazi ristretti, / respiri di cieli lontani» (Cieli lontani).

La seconda tappa del viaggio Dalla vita dei campi è introdotta, in esergo, da alcuni versi della prima Elegia di Tibullo. Pardini ritrova le fatiche dei campi, l’attesa dei frutti, dimostra come amare la vita attraverso il sacrificio significhi penetrarne il segreto più profondo. «Guardavo la mia terra / al tramonto / quando la fatica del mio corpo / equivaleva ad un campo rimosso…» (Stanco mi riposo). I quadri che si susseguono in questa sezione sono un grande tributo al poeta latino, che lasciava che le immagini si succedessero per evocazione e per analogia una dopo l’altra. La terza tappa è Alla ricerca di voci, raccolta di detti toscani e bucolici in genere, che mettono in luce l’uomo eterno fanciullo che non si lascia intrappolare dalla rete degli anni. Ne menziono un paio: «Se la botte non gruma / in tuo vino sa di spuma»; «Se il tosto è nel campo / per ora non c’è scampo». Con Attorno al focolare si trovano struggenti racconti brevi, come Lettera a mio figlio, un lascito testamentario di altissimo valore morale e di profondo impegno civile. Altri racconti come Sulla groppa di un delfino mettono in rilievo l’aspetto dicotomico del Poeta, legato al mondo bucolico, ma con le ali spalancate sul mare, e la sua creatività narrativa. Attinge al realismo magico perché coniuga magistralmente elementi astratti, quasi legati alla favola, ad altri veritieri. L’ultima tappa del prosimetro è dedicata alle Massime, aforismi che inducono a spunti di riflessione sulle verità dell’esistenza. «Della morte accetto la fine, ma non accetto il nulla»; «La solitudine è una compagnia troppo rumorosa»; «L’assenza di noi è noia, la nostra coscienza è il malessere di esistere».

Maria Rizzi

NAZARIO PARDINI, HOC MIHI CONTINGAT, prefazione Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 184, isbn 978-88-31497-79-4, mianoposta@gmail.com.