Un uomo, una donna, una montagna

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GABRIELLA MONGARDI

Non si deve imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza.

(Antoine de Saint-Exupéry)

La prima cosa che colpisce dell’ultimo romanzo di Silvano Gregoli, Montagne immaginarie. Leggenda cosmica (BBEuropa edizioni 2021) è lo Sguardo, la forza e l’originalità dello sguardo posato sugli uomini e sulle cose. Sguardo indagatore, inquisitore, mosso come quello del protagonista da “una passione tenebrosa che lo attirava verso la faccia nascosta della natura, la faccia nascosta delle montagne, la faccia nascosta degli uomini…”. Sguardo analitico, attento ai minimi dettagli, proteso ad abbracciare il Tutto, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, il vicinissimo e il lontanissimo, perché homo sum, (Universi) nihil a me alienum puto. Solo l’inesauribile tensione alla conoscenza rende l’uomo Uomo, giustifica la sua presenza nel mondo, dà senso al nonsenso dell’esistere. Ma, nonostante l’ammiccamento iniziale al Faust di Goethe, la tensione alla conoscenza che pervade il romanzo non è faustiana, non ha niente di antropocentrico, non è lo strumento per imporre il dominio dell’uomo sulla natura, sia pure finalizzato alla costruzione di una società più giusta. Quello che emerge è piuttosto l’eros della conoscenza, una concezione ‘fusionale’ protesa ad abbattere le barriere tra io e non-io, tra soggetto e oggetto, e a dissolvere il soggetto: in questo senso si può interpretare la montagna ‘cannibale’ del cap.22 e la straordinaria chiusura del cap.27. C’è in questo un’eco di Schopenhauer e del Buddismo e se vogliamo del nostro D’Annunzio, ma soprattutto c’è la posizione del fisico, lucidamente e coerentemente materialista: consapevole di essere “un atomo irrisorio nell’immenso pandemonio dell’Universo”.

Ma perché al vedere, per quanto straordinario, segua lo scrivere – come vuole Saint-Exupéry - allo sguardo dello scienziato si deve unire quello dell’artista, a conferire allo scrittore quella ‘doppia vista’, distaccata e appassionata insieme, che ne guida magistralmente la penna.
Non intendo attribuire d’ufficio allo scienziato il distacco e la passione all’artista: c’è la distanza artistica così come c’è la passione scientifica, entrambe ben presenti in questo romanzo. La differenza fondamentale tra scienza e arte è un’altra, ed è il diverso atteggiamento nei confronti della realtà naturale: la concezione della natura elaborata dalle scienze naturali è quella di una ‘cosa’ oggetto di studio, misurazione, indagine; la scienza sottopone tutto alla sua legge, la verità, e ha con la visione estetica un rapporto puramente negativo, di rifiuto. L’arte invece ha carattere recettivo, accogliente; non seleziona, non rifiuta, non ignora nulla, ma al contrario riprende, arricchisce, completa la preesistente realtà della conoscenza: colloca l’uomo nella natura intesa come suo ambiente estetico, umanizza la natura e naturalizza l’uomo. (M. BACHTIN, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001 pp.23 ss).
Si tratta di due sguardi profondamente diversi, che in Montagne immaginarie sono simultaneamente compresenti, si intersecano, si sovrappongono, generando appunto una particolarissima doppia vista, il cui primo frutto è lo ‘spessore’ stratigrafico del romanzo – che si può leggere come una ‘storia fantastica’, leggera e… spiritosa, o studiare come un libro di scienza, di antropologia, di sociologia, o assaporare come un’opera d’arte, un grandioso gioco di specchi e rispecchiamenti.

Il tema del ‘vedere doppio’ attraversa tutto il romanzo, caricandosi di valenze sempre più perturbanti: lo ritroviamo nelle allucinazioni visive del protagonista in montagna (capp.10 e 12), nel cannocchiale (cap.11), nella scena del guardare in due dentro il telescopio (cap.16) – un capolavoro assoluto per originalità e commistione di motivi.
A questo tema si ricollega quello dei doppi, dei ‘gemelli’, e quello degli sdoppiamenti, ma anche – e contrario – quello della fusione, dei due che diventano uno, dell’androgino (capp.16, 18, 25, 28).
Il movimento profondo del romanzo è dato da questo dualismo, da questo andirivieni oscillante dello sguardo tra polarità opposte: su-giù, trionfo-catastrofe, maschile-femminile, vicino-lontano, scienza-superstizione, luce-ombra, reale-immaginario…  La doppia vista permette allo sguardo di focalizzarsi sempre a tutto tondo su ciascuna polarità, senza dimenticare l’altra: di qui deriva il risalto incisivo, la nitidezza ‘in alta definizione’ delle immagini e delle idee, mentre l’oscillazione genera il ritmo ondulatorio, binario, cullante, ipnotico del testo.

Nel capitolo 2 il protagonista, il sindaco di Augusta Fausto Majorana, è presentato dapprima attraverso il suo avversario politico e poi con un autoritratto allo specchio – due ‘trovate’ una più originale dell’altra, in questa prospettiva ‘gemellare’; tutte le figure che gli ruotano intorno sono un suo ‘doppio’, un suo alter-ego: dal misterioso “aiutante” Althanòr Barabàk alla moglie Luisa Angeletti, dall’amico in politica Pietro Zumstein all’amico in fisica Giovanni Segre. Attraverso questi sdoppiamenti e rispecchiamenti, nei 28 capitoli del romanzo Fausto percorre le tappe di un Bildungsroman ‘alla rovescia’ (come quello di Hans Castorp nella Montagna magica di Mann), fino a diventare definitivamente ‘doppio’, due-in-uno, dopo il “passaggio” – come annunciato dal titolo dell’ultimo capitolo, anch’esso bipartito, bipolare: Angel-Major.

Bipartizioni e raddoppiamenti caratterizzano anche la struttura del romanzo: molti capitoli sono dicotomici in maniera evidente, per bipartizioni ora temporali (capp. 3-4-6-10) ora spaziali (capp.5-15-23-24) ora tematiche (capp.11-16-17-19-21); tecnica costante della narrazione è il doppio racconto – il doppio mandato elettorale di Fausto, la doppia salita sulla Becca e sul Kant, il doppio sogno nel cap.3, la doppia notte bianca… ma anche la ripresa, il rimando, o le vere e proprie ripetizioni realizzate con la tecnica dell’autocitazione. Il culmine si ha nel cap. 24, quando al racconto che il dottor Nol, leader degli spiritisti augustani, fa dell’incontro tra il sindaco e uno “spirito” cui aveva senza volere assistito (incontro già narrato nel cap. 22) si intreccia il commento scritto da parte del sindaco.
C’è sotto, certo, il procedimento musicale dei leitmotiv – e il modello di Thomas Mann che nel trasferirlo in letteratura è stato maestro, e c’è anche il piacere dei bambini di riascoltare la stessa storia per familiarizzarsi con essa… Ma in Gregoli direi che questo procedimento è soprattutto la conseguenza, la trasposizione sul piano narrativo della doppia vista e del perpetuo oscillare del suo sguardo da un polo all’altro, dal noto all’ignoto, dal quotidiano più familiare al mistero più profondo e inquietante, dalla scienza all’arte: nella mano dello scrittore la penna si trasforma in un sismografo sensibilissimo, che registra quelle oscillazioni e le trascrive sulla carta.

Il risultato è appunto una scrittura ipertestuale, a loop, che per avanzare ritorna continuamente su se stessa: e il testo più che obbedire alla linearità della progressione dell’informazione si dilata, divaga, rallenta, salta, si avvolge su se stesso in una musicalità rapinosa e obliosa. Come se volesse dimenticare il corpo a corpo con la lingua, la lotta spossante con le parole e i linguaggi da cui è nato. Se infatti la scrittura è adeguamento allo sguardo, se scrivere è conseguenza del vedere – come vuole Saint-Exupéry -  per adeguarsi a questo doppio sguardo la scrittura ha dovuto crearsi una lingua “non parlata da nessuno”: una lingua continuamente oscillante tra le sue due coppie di polarità, la lingua d’uso e quella letteraria, la lingua tecnica e quella espressiva, una lingua al tempo stesso molto semplice, quasi fiabesca a tratti, a tratti ricercata e specialistica fino a includere i simboli e le formule della matematica e della fisica. Anche la lingua è ‘raddoppiata’, perché l’italiano è potenziato da altre lingue  – straniere, dialettali, settoriali: una lingua sola non basta, per l’immanità del compito che si è dato il narratore: abbozzare “la nuova fisica, la fisica delle montagne, la fisica degli uomini immaginari, la fisica degli spiriti”.

Per quanto la teoria letteraria (Genette) imponga di tenere ben distinte la voce del narratore da quella dell’autore, la pratica della lettura è invece quella di un incontro e di un desiderio (Barthes): nel testo il lettore ‘desidera’ l’autore e tende istintivamente a identificare il narratore che parla in terza persona con l’autore, sia pure con l’autore implicito, immanente al testo. Nel linguaggio comune i due significati sono intercambiabili (l’autore di un testo di narrativa è un narratore), e d’ora in avanti anche qui i due termini saranno utilizzati per così dire promiscuamente.

Lo statuto del narratore in Montagne immaginarie è quanto meno spiazzante: trattandosi di una leggenda, è – o dovrebbe essere – un narratore onnisciente e impersonale. Il lettore avverte però ben presto nella voce del narratore un’intonazione infantile e reticente, una tendenza all’iperbole e alla canzonatura che lo rendono inaffidabile. Anche qui, è come se il narratore si sdoppiasse e si giudicasse, come se pretendesse dal lettore la fede più cieca e nello stesso tempo lo mettesse in guardia dalle sue imposture. È all’inizio del romanzo, durante i due dialoghi tra il sindaco e lo spirito, che il tema viene esplicitato, purché si riconosca nel sindaco il lettore e nello spirito l’autore: «Althanòr Barabàk è uno spirito accomodante, che possiede un elevato senso dell’humour, ma che va veramente d’accordo solo con chi crede in lui e lo apprezza»; «Se sei un impostore, non potrai darmi la felicità…». Siamo al centro della questione, sfioriamo l’essenza stessa della Letteratura al tempo del suo svanire: essere una forma di felicità interiore, per chi la scrive e per chi la legge. Non credere a se stessa, presentarsi come un gioco, una favoletta puerile e priva di importanza e nello stesso tempo prendersi tanto sul serio da affrontare i massimi problemi fisici e metafisici, additandone la soluzione nella fisica, in una nuova fisica che tenga conto non solo del reale, ma anche dell’‘immaginario’ – come fa la Letteratura.

Si potrebbe senza troppo sforzo riferire a questo narratore ciò che Pascoli dice del suo “fanciullino”: «E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta.»

Questo narratore soprattutto “ingrandisce”, ha un’incontenibile tendenza all’iperbole. Non nel senso retorico dell’iperbole come singola figura isolata: qui è tutta la narrazione a essere iperbolica, esagerata. A partire dal movente del patto del sindaco con lo spirito – un secondo mandato -, per finire – coerentemente – con le sue dimissioni, definite una “catastrofe”. È come se il narratore avesse sempre un telescopio davanti agli occhi, per vedere tutto a distanza ravvicinata: non tanto per ammirare, ma per cogliere i minimi dettagli, per ingigantire, per drammatizzare – e fare così dell’ironia su se stesso innanzitutto, con un ennesimo sdoppiamento…

Ma c’è qualcosa su cui non cade mai l’ironia del narratore: la Montagna e la Donna – oggetti del più profondo Desiderio, che come nel caso della Conoscenza è di nuovo un desiderio di fusione, di ‘assunzione’, di incorporazione. Della montagna si esalta naturalmente la bellezza, ma soprattutto si sottolinea il suo mistero, l’aspetto inquietante, minaccioso, e se ne cerca una spiegazione ‘razionale’. È questo che rende straordinario questo romanzo: la tensione a misurare, a calcolare tutto, a trovare la formula che mondi possa aprirti, salvo avvertire, ripetutamente: “Lo scoprirete tra mille anni, mille anni”. Ma la doppia vista dell’autore non si ferma alle due facce  della montagna, bella e terribile come la natura leopardiana: individua in essa qualcosa di ancor più perturbante. Il rapporto che Fausto/Althanòr ha con la montagna è un rapporto erotico, fusionale, contemporaneamente maschile e femminile, cioè androgino – simbolo di quel desiderio assoluto di pienezza, di conciliazione degli opposti, che solo nell’arte di realizza.

Il tema ‘filosofico’ dell’androgino ovviamente si addensa intorno alla figura femminile e al suo rapporto con il protagonista, dispiegandosi in particolare nei capp.16, 18, 25, 28 dove l’eros diventa oggetto esplicito di narrazione, intensissima e delicatissima, e insieme oggetto di meditazione filosofica. Il romanzo si potrebbe quasi definire una ‘parodia’ dello Stilnovismo, con la figura della donna-angelo (Luisa Angel-etti) aggiornata al 2000, ma non certo un romanzo d’amore nel senso corrente del termine: basti pensare che Fausto e Luisa sono marito e moglie! La loro unione si carica di valori simbolici, alchemici, junghiani, rimanda alla misteriosa compresenza di Anima e Animus nella nostra psiche, e al di sopra di tutta la fisicità, la sensualità dei loro abbracci fluttua la dimensione del doppio, la funzione di emblema: la donna è lo specchio dell’uomo, il suo indispensabile ‘gemello’, il suo complemento esistenziale. Ma tutti e due, uomo e donna, non sono che comparse di un copione scritto altrove, fin dalla notte dei tempi, o meglio da quel momento/movimento che ha dato origine al mondo e al tempo, prima del Big Bang: la fusione di due ‘spiriti staminali’ oniricamente narrata nel cap.27, in una pagina vibrante di poesia cosmica.

Di quel copione scritto “nelle infinite pagine della Matrice, in cui tutto sta scritto” il romanzo non è che un ‘ doppio’, una ‘trascrizione’ in termini comprensibili agli umani – teneri e scherzosi, matematici e lirici, commossi e curiosi: ma in realtà, “tutto era già scritto”…

 

QUI una sinossi del romanzo