Ancora due parole sull’Urbex

Melissa Ghezzo

Melissa Ghezzo

LAURA BONFIGLIO

L’urban exploration (spesso abbreviata in urbex) consiste nell’esplorazione di strutture artificiali, spesso rovine abbandonate, che vengono immortalate in vari modi (solitamente tramite foto e/o video); questo può comportare una serie di pericoli come lo sconfinamento su proprietà private in stato di abbandono, in alcuni casi utilizzate dalla malavita come sede per affari loschi, oppure la frana dei calcinacci di muri scrostati dal tempo e dall’incuria.
Questa disciplina, mutandosi col tempo, è divenuta un impegno per segnalare, salvaguardare e proteggere i luoghi urbani abbandonati, sottraendoli così al completo decadimento.

La storia dell’Urban Exploration è abbastanza recente; le sue origini, infatti, vengono fatte risalire al 3 novembre 1793, giorno in cui uno speleologo divenne celebre a causa della sua morte prematura in quella vasta rete di gallerie sotterranee in cui si era smarrito.
Ma cos’è che spinge i fotografi ad addentrarsi in questo tipo di paesaggio? Cosa suscita in loro la vista di edifici fatiscenti invasi dalla natura rigogliosa? Quali emozioni provano entrando in vecchi manicomi abbandonati che rivelano tutto il dolore di chi in quei posti aveva abitato?

Nel corso della Storia, le rovine sono state contemplate dagli uomini con un piacere agrodolce, velato di malinconia: è la cosiddetta “melancholia di Saturno”, che sembra lasciare la propria traccia nell’animo umano.
Ecco cosa scrisse il filosofo illuminista Diderot nella sua celebre enciclopedia alla voce “Rovine e paesaggi”: «Soltanto il mondo resiste. Soltanto il tempo continua a durare. Io cammino tra due eternità. Ovunque io guardi, gli oggetti che mi circondano mi annunciano la fine e mi mettono in guardia rispetto a ciò che mi attende».

Qui non stiamo parlando del gusto per le rovine che si sviluppò fin dal periodo barocco, la cui estetica sostituì al principio dell’armonia quello del contrasto (dal quale scaturiva il concetto e la categoria del bizzarro, che cominciava a introdurre nella pittura paesaggistica la rovina come elemento coprotagonista); il tema è bensì quello ben più antico della meditazione sulla fine di tutte le cose mondane, che sicuramente si rifà alla sensibilità romantica ma che risale a più antiche origini.

Già Properzio si lamentava sulle rovine di Veio e sulla defunta grandezza di questa città: «Ahi antenati di Veio, e voi che un tempo foste re … Ora tra le mura il corno del pastore canta lento, e tra le vostre ossa mietono i campi».
Una tradizione che trovò eco in Leopardi con il tema del rimpianto per lo splendore passato e la meditazione sulla caducità delle cose umane, mentre oggi Pietro Citati ne La luce della notte scrive: «Il corso ruotante del possente Tempo, che atterra l’elevatezza, abbatte la cima dell’olimpo, e innalza l’umile valle. Dov’è la maestà dell’antica Roma? … Tutto è perduto nella solitudine della rovina, l’orribile macello della guerra, la polvere della vana ambizione».

Altra testimonianza emblematica è quella del poeta greco Antipatro di Sidone: «Dov’è la tua mirabile bellezza, o dorica Corinto? E le corone delle tue torri e le antiche ricchezze, i templi degli dei, i tuoi palazzi? Nemmeno un segno rimane di te, infelicissima! Divorò tutto la guerra. Solo noi Nereidi, figlie di Oceano, immortali, come alcioni, siamo rimaste a piangere le tue sventure». Il poeta dedica questi versi a Corinto, polis distrutta dai Romani nel 146 a.C., mentre molti secoli dopo Percy Bysshe Shelley scrisse questo magnifico sonetto:

Incontrai un viandante di una terra dell’antichità,
Che diceva: “Due enormi gambe di pietra stroncate
stanno imponenti nel deserto… Nella sabbia, non lungi di là,
mezzo viso sprofondato e sfranto, e la sua fronte,
e le rugose labbra, e il sogghigno di fredda autorità,
tramandano che lo scultore di ben conoscere quelle passioni rivelava,
che ancor sopravvivono, stampate senza vita su queste pietre,
alla mano che le plasmava, e al sentimento che le alimentava:
e sul piedistallo, queste parole cesellate:
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re,
ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!»
Null’altro rimane. Intorno alle rovine di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine.

(Traduzione di Antonio Taglialatela da Wikipedia)

NdR Questo articolo è stato ispirato dall’iniziativa Fenomenologia della fine, una serata sulla fotografia Urbex. La foto, tratta dal suddetto articolo, è di Melissa Ghezzo.

L’articolo è stato citato dal programma Pagina 3 di Silvia Bencivelli, Rai Radio 3, il 6 aprile 2022.