Fra nichilismo e rivelazione, il sogno del linguaggio come ‘spectaculum’ e manifestazione

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

La filosofia sofistica, sostanzialmente scettica e perciò catturata quasi per compensazione dalla capacità affabulatoria dell’uomo, era affascinata dalle infinite possibilità che il linguaggio sembra dischiudere alla condizione umana. Elena è colpevole o non lo è per lo scoppio della guerra di Troia? Era bello poter ribaltare il luogo comune e dimostrare, per esempio, che ne era la prima vittima, e perciò innocente, evidenziando che le cose, a seconda di come si guardano, offrono una diversa ermeneutica di sé, si prestano alle più contrastanti interpretazioni. Ma alla base della loro gnoseologia non c’era, in realtà, la convinzione che la realtà fosse troppo ricca di senso per restituirne uno in modo univoco, posizione se mai più vicina a quella di Socrate, quanto piuttosto il dubbio che essa non implicasse una dotazione di senso precostituita, e quindi comportasse la fatica dell’inventio, della costruzione di un senso affidata all’ingegno e all’operosità dell’essere umano. Un po’ come canta Vasco Rossi nella celeberrima “Un senso”: “Voglio trovare un senso a questa vita,/ anche se questa vita un senso non ce l’ha”. Ove il conferire senso corrisponde al viverlo, e quindi assume un compito non solo esistenziale, ma anche rivelativo, in quanto, stabilito un senso, esso si costituisce come ordine o piano di realtà che ci coinvolge e a sua volta determina. E qui pare di cogliere qualche affinità con quel pragmatismo americano che ritiene la verità “si faccia”, e cioè, in ultimo, dipenda dall’ordine che instauriamo e in cui quindi poi ci muoviamo. Si accennava a Socrate che, forse più ottimisticamente, non negava un senso alle cose, ma solo che noi potessimo coglierlo in modo univoco, e quindi si era assunto il compito di “tafano” della città, di uno cioè che pungolava i suoi concittadini ad andare oltre le presunte certezze acquisite per inoltrarsi nei territori dell’indagine, della ricerca, della sperimentazione di nuove vie, stante la complessità di una realtà che si presentava multipla, sfaccettata, poliedrica e incommensurabile.

In tutti i casi, sia nel nichilismo attivistico dei sofisti o del pragmatismo americano quanto nell’approccio dialogante e maieutico socratico, se ne ha che la realtà o non ha un senso precostituito o è come se non l’avesse, in quanto è la nostra indagine a stabilirne o coglierne una forma, una modalità o aspetto che soltanto quando dato alla luce esiste come rivelazione dell’essere (fondato o trovato che sia: cambia l’accentazione, sul soggetto o sull’oggetto, o anche, nel caso di una mediazione, su di una relazione, come nel caso degli stoici, che affermano un Logos originario, una sua attuazione nella Natura, ma anche una presenza nella Mente umana, e quindi un incontro fra ambiti).

Colui che, nell’ambito della sofistica, ha espresso la sintesi forse più affascinante in proposito è Gorgia, il quale, probabilmente in scherzosa polemica con Parmenide, ha così schematizzato il proprio pensiero: “Nulla è; se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”. Insomma: non c’è un senso dato al fondo delle cose; se anche ci fosse, non potremmo conoscerlo; se anche potessimo conoscerlo, non potremmo comunicarlo, e pertanto resteremmo chiusi ciascuno entro un claustrofobico solipsismo, con il proprio presunto coglimento di verità, a questo punto, opinabili e frammentate, al limite  entro un soggettivistico delirio. Se non che questa non è l’ultima parola di Gorgia, ma la premessa alla sua celebrazione del linguaggio e della retorica, metafore evidenti di una più generica capacità affabulatoria, che coincide con il fare ordine, con il creare armonia, con il plasmare un cosmo dal caos. Insomma, se il regista trova un set ove regna sovrano il disordine più assoluto, sarà lui a dover trasformare il caos in narrazione, visione e poesia. è ovvio quindi che sono le arti ad assumere in una siffatta concezione il compito ermeneutico e salvifico di trarre ordine e armonia dal caos, di conferire un senso che è un senso bello, e che alla maggior solerzia e fantasia del regista/ retore/ artista corrisponderà un grado più intenso di bellezza, suggestione, ordine.

Mediante le ragioni della retorica, dell’arte, della letteratura, del canto, della danza, del cinema e di tutte le forme espressive che ci è dato immaginare, allora, è possibile esprimere o cogliere un senso che coincide con la sua realizzazione, magari parziale e temporanea, con il vivere tale senso, con l’esperirlo e configurarlo. Il senso dell’arte diviene allora quello di attuare, portare a compimento il destino dell’esistenza, conducendolo alla sua perfezione, alla sua completezza, alla sua concludenza, realizzando il trascendimento del sé empirico o, con linguaggio sartriano, del “pratico inerte”, a favore di una rivelazione che assume le caratteristiche di una trasfigurazione, e pertanto conduce dai piani della Natura e della Storia a quello della Gloria.

Ecco perché mi hanno sempre affascinato i cantanti, i poeti, gli attori, i visionari…

Ma una poesia è tale quando è concepita. In linea teorica, come affermava Jacques Maritain, non ha bisogno di essere scritta per essere sublime, talvolta le poesie migliori sono quelle che non sono state mai scritte. La scrittura è l’atto contingente che traduce nel mondo segnico e materico il sublime dell’anima… Dunque i poeti della vita sono molti di più dei premi Nobel e affini… E la danza della vita è senz’altro il luogo dove si celano discretamente forse gli artisti migliori.

Lo hanno capito le grandi religioni, i mistici, gli uomini  spirituali, gli illuminati.

La charitas cristiana, la compassione buddistica, la sottomissione a Dio dell’islam, la consapevolezza nelle religioni del potenziale umano, la ricerca della vera giustizia… sono modalità con cui la vita intende diventare armonia, danza, canto, capolavoro quotidiano.

Noi spesso però, integralmente assorbiti dall’ego individuale e biologico, guardiamo nella direzione sbagliata. Ricordo una bella foto di gruppo dal singolare effetto straniante: in quella immagine tutti avevano guardato nell’obiettivo sbagliato e solo una persona al centro del gruppo si era concentrata sull’obiettivo che poi aveva scattato la foto prescelta, risultando quindi l’unica il cui sguardo era in asse. Così, nella dimensione egotica, ci vediamo riflessi in uno specchio, che ci rinvia continuamente la nostra immagine, e manchiamo tutto il resto, eludiamo la possibilità e il compito di trascenderci, restando confinati entro una esperienza angusta e fuorviante della realtà, peraltro purtroppo in sintonia con i modelli e valori di questa società individualistica e in declino. Rientrando in metafora, la nostra arte, la nostra danza, il nostro canto risultano compromessi da una prospettiva di esecuzione sbagliata mentre, se guardiamo oltre la nostra immagine, oltre lo specchio, scopriamo un orizzonte infinitamente più vasto, che ci relativizza e al tempo stesso gratifica di un’esperienza decisamente più ampia e salutare, più manifestativa e rivelativa, ed esistenzialmente avvertiamo di abitare in un orizzonte di maggiore e più intensa autenticità. Scopriamo allora – come direbbe Platone – una bellezza più alta, che non ci lascia più.

Ecco perché la grande arte, la grande poesia, la grande musica, diventano addirittura impersonali, e autori come Omero e Shakespeare si perdono nei meandri della leggenda e della inconoscibilità: quanto più cioè si procede nella espressione dell’universale, tanto più si finisce col trascendere la propria soggettività empirica, a favore di una iconicità in qualche modo totale, che fa quasi dell’uomo un dio o, meglio, una manifestazione del dio.

Lo spectaculum di “Varietà”, allora, la mia raccolta di ritratti e interviste ai divi della cultura pop italiana del ’900, diviene a sua volta testimonianza e metafora – parziale, imperfetta, talvolta povera – della Gloria, intesa come risplendere dell’essenza. Ciascuno degli artisti proposti, nello sforzo di restituire un’esperienza strutturante del valore, si configura come maschera, icona, feticcio, da cui traspare l’emozione della trascendenza, che si rivela nell’immanenza di questo mondo e di questa Storia. Non dimenticherò mai una acuta osservazione che mi formulò Georges Moustaki, il grande chansonnier francese, durante una intervista che gli feci: egli sottolineò come non vi siano canzoni stupide, ma come ogni anche piccolo sforzo per dare ordine alle note, alle parole e alla musica, alla voce e al corpo, fossero da apprezzare anche se il risultato poteva essere limitato e circoscritto. Nicola di Bari, un interprete-simbolo della canzone italiana anni ’70, ebbe invece a dichiararmi la sua stima per tutti coloro che hanno il coraggio di salire su un palcoscenico per cantare, sottolineando che già quel gesto implica l’autenticità e l’urgenza di una espressione che merita pertanto attenzione, rispetto e ammirazione. Perché l’arte, qualsiasi abbozzo, sforzo o tentativo di essa, aiuta a trascendere comunque il proprio sé verso un perfezionamento, quello possibile hic et nunc, date certe condizioni storiche e ambientali.

Anche quando siamo colpiti dalle evidenti banalità di alcuni teen idol di oggi, per esempio dalla epidermicità di certi loro prodotti musicali, tanto da avvertirne una siderale lontananza (“Indifferente gioventù s’allaccia; /sbanda a povere mete. / Ed è il pensiero / della morte che, infine, aiuta a vivere”, U. Saba, Sera di febbraio), non dimentichiamo che essi, in determinate circostanze storiche, biografiche, epocali, offrono comunque un modello di trascendenza del sé, magari povero e limitato, ma forse l’unico possibile a quel pubblico di riferimento in quello spazio-tempo.

Quando si procede in cordata, c’è chi guida. E, con gradi diversi, ciascuno, a seconda del suo ruolo, è responsabile dell’andamento della salita, perché se qualcuno perde l’equilibrio rischia di essere condizionante per tutti gli altri, tanto da pregiudicarne l’integrità. Nella vita poi più che mai tutti guidano e sono guidati perché, a seconda di ruolo e circostanze, stanno di volta in volta dall’una o dall’altra parte del tavolo (es. un padre guida il figlio ma, a sua volta, se malato, è guidato dal medico). Ciò che conta, in ultimo, è però l’essere alla fine guidati dalla ricerca di quel senso che Aristotele chiamava Motore Immobile, e Platone l’Idea del Bene, fondamento e scaturigine del movimento stesso e del suo articolarsi, ma anche suo fine incondizionato. Allora saremo ispirati a produrre una Grande Arte, a cui corrisponderà una Grande Vita, e forse le due cose saranno una sola cosa.

Sono vari gli esempi attraverso cui  lo splendore e la Gloria  dell’essere si rivelano a noi, in genere tutto ciò che può assumere istanza e valore ideali. Per esempio la poesia, lo spectaculum, l’arte, la spiritualità, l’eros, insomma ciò che va a costituire l’ambito del mito, come luogo trasfigurante e rivelativo. Più in generale, tutta la nostra storia, quando diviene sede di una ermeneutica di senso e di salvezza, di valore e di calore, diviene luogo del mito e, quando questo si ricongiunge alle proprie origini, rivelazione di un mythos fondativo, in cui confluiscono paesaggi, affetti, tempi e scansioni esistenziali.

In tutto ciò l’idolo musicale, particolarmente celebrato nella nostra civiltà occidentale, come ogni celebrity e feticcio mediatico, può presentarsi, pur nella sua ambivalenza etica, come espressione dell’elemento idealizzante, mitizzante, che si concentra su una dimensione, non che antropomorfa, antropocentrica e immanente, laddove il santo, per esempio, in altro contesto semantico e culturale, rappresenta la concentrazione e celebrazione della trascendenza come tale e non come presenza al mondo o immanenza. Se la pop star, insomma, si coglie infine come cassa di risonanza dell’essere, allora essa può condurre all’essere, anche perché diventeranno ininfluenti, nella nostra considerazione, gli elementi di contingenza individuale che la appesantissero, a favore di una considerazione prevalentemente segnica e trasfigurante.

Ma poiché l’essere coinvolge ogni essere umano e ogni cosa, quanto più ci convertiamo all’essere, tanto più ogni cosa diventa contingente, ma anche iconica, immagine, metafora dell’essere: un filo d’erba, un coniglio, un mattone, un vicino, uno sconosciuto… San Bonaventura, grande mistico e filosofo medievale, nel suo “Itinerarium mentis in Deum”, proponeva proprio una siffatta lettura dell’universo, dove ogni cosa era in qualche modo segno e simbolo della trascendenza. Ma la stessa teoria dei trascendentali, nel Medioevo, tendeva proprio ad evidenziare la presenza di qualità fondative, come verità, bene e bellezza, in ogni ambito di realtà, anche le più marginali ed apparentemente effimere. E forse l’Oriente, quanto a capacità di cogliere il sottile e illusorio diaframma che distingue o separa trascendenza e immanenza, potrebbe insegnarci molto.

Allora, in tale contesto segnico e rivelativo, attraversato ormai dal fondamento e dal senso, la danza della vita trasforma tutti e tutto in star, in celebrity, e può essere che qui il Nobel non vada ai top manager, agli uomini mediatici, agli uomini di successo, ma a chi non ha diritto di cittadinanza, chi sosta ai margini, chi risplende solo della sua nuda umanità e – per estensione del principio all’universo mondo – della sua creaturalità fragile ma splendida.

Nell’attesa, come ebbe a scrivere Giovanni Paolo II, del grande show, della rivelazione definitiva della Gloria, del tempo cioè “quando cadrà ogni apparenza, e dei nostri atti resterà solo la più pura essenza”.

(tratto da Claudio Sottocornola, “Occhio di bue”, pp. 171-175, Marna, 2021)