7 poemetti di Franca Alaimo

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Dalla prefazione di Giovanna Rosadini

La vita ci viene incontro, nei versi di Franca Alaimo, in tutte le sue sfumature e contraddizioni, e, se «Il mondo comincia capovolto / nelle camere degli occhi», e «nel mare immenso di galassie e stelle, / scrive il fisico Rovelli, / fra gli arabeschi infiniti di forme, / non siamo che un ghirigoro»; «Nulla ha riparo / se non nella vita stessa», troviamo questo distico, che suona compiutamente come una dichiarazione di poetica, nel secondo dei sette pometti che danno il titolo al libro e ne declinano la prima parte, essendo la seconda composta da “frammenti” di natura diaristico-aforistica che riprendono e continuano sostanzialmente lo spirito della voce poetica, con un andamento più riflessivo-meditativo rispetto alla predominanza immaginifica e visionaria di quest’ultima. Che, ricchissima, attinge agli elementi della natura sconfinando nel sogno, in un implicito invito alla comunione fra celeste e terrestre, sacro e profano, spirituale e fisico [...]. Sette poemetti che sono altrettante stazioni di una meditazione esistenziale nel segno di una circolarità che tutto lega e trasporta in un flusso senza tempo: «E come brillano le stelle ormai spente, / per insegnarci che la morte / abita altrove e non muore»; e «ogni morte è solo un minimo strappo, / un niente caduto in uno spazio largo». Un sentimento di pietas (che è, insieme, acuta consapevolezza del male e profonda compassione per chi vi soggiace) percorre questi versi, che hanno in questo senso una connotazione religiosa nel senso più largo del termine: «Cosa c’è di più sacro di un corpo offeso? / Cosa c’è di più umano di quel suo giacere / disumanamente sconciato sulla terra?». [...]

Da 7 poemetti (Interno Libri 2022)

Epifanie di gioia

Basta scuotere la testa
e fare scivolare le nuvole lontano,
mentre la barca scompare
con le sue vele nere
sul filo dell’orizzonte.
Resto nuda su una tavoletta d’argilla
cosparsa di sinuose investigazioni
dopo essermi tolta la benda,
la cintura irta di chiodi,
la corona di spine dal capo.
O Dio – grido – dell’Olimpo,
o Dio morto sul legno del dolore,
assorta serenità del Buddha,
o carità della vita!
Vengono sempre gli dei se invocati,
talvolta sotto forma di animali miti,
che annusano con i musi umidi e pietosi
i pochi centimetri tra la gola e il coltello.
Oh, Isacco, Isacco, timore e tremore!
Vengono con le parole
di un angelo onirico
come testimoni di verginità.
Una volta – ricordo – Lui,
il ragazzo dell’amore mistico,
guidava un tram rosso fiammante
ed io ero una ragazza
sfatta di pioggia e di lacrime.
Lui mi chiese: dove stai andando?
Portami – gli dissi – in quel giardino
dove crescono more giganti.
E ci andammo davvero.
E là non pioveva.
Vengono sempre gli dei sciolti nell’aria,
nel sole, cadendo tra le dita, soffiando gioie
con i venti d’Oriente ed Occidente.
Oggi, invece, Lui ha preso l’aspetto
di uno zingaro con i piedi nudi
e una camicina di tela bianca,
le rotule rotonde come due pesche,
i capelli ubbidienti alla bellezza dell’oro.
Tiene la testa teneramente inclinata
come le fanciulle del Botticelli
ed ha un cavallino bardato di rose chiare
come la pelle di una neonata
con i fiumi celesti della sorgente della vita.
Sali – mi dice – seminando chicchi
sul dorso delle mani
come in appezzamenti da coltivare
con il sole e la luna e la fame
e soprattutto con un azzurro senza fine.
Mi porta silenzioso:
il cavallino è di cristallo, le redini di seta,
finché il silenzio mi scoppia nel cuore
come la più alta felicità.
O madre, nella tua lingua sconosciuta,
nella tua scomparsa gentile è il segreto:
amore della memoria,
ti ascolto mentre parli
con la voce luccicante della pioggia
e mi aspergi con l’acqua del battesimo,
mio girasole sempre volto alla luce.

Altrove
La luce snida, improvvisa, la stanza dell’occhio. Ogni voce è andata. Tu, visitatrice di una casa già disabitata, dove polvere antica dorme sugli stipiti, e niente vive oltre il respiro, i passi e l’infinita eco del passato. Talvolta folgora il ricordo, un balenio di colori sovrapposti in fuga. Ma manca quella parola straziata dal non sapere quando e dove. Tutto il non detto, l’oblio, lo splendore tradito, finché dalla superficie dello specchio nasce la stasi, la sospesa meraviglia: siamo qui e siamo sempre altrove.

Franca Alaimo vive e opera a Palermo, dove ha insegnato materie letterarie. Esordisce nel 1991 con la silloge poetica Impossibile luna. Successivamente ha pubblicato altre venti raccolte poetiche, due delle quali in forma di e-book. Tra le più recenti: Elogi (Ladolfi), sacro cuore (Ladolfi), Oltre il bordo (Macabor). È autrice anche di tre romanzi e di un epistolario. Ha lavorato nella redazione della rivista L’involucro di P. Terminelli, e, successivamente, in quella di Spiritualità & Letteratura, diretta da T. Romano e ha collaborato con La recherche, rivista on-line diretta da Maggiani e Brenna. Ha tradotto dall’inglese due brevi sillogi di Peter Russell. Ha pubblicato saggi sulla poesia di D. Cara, T. Romano, G. Rescigno, L. Luisi, F. Loi, V. Fabra e sui poeti dell’Antigruppo. Molto interessata alla letteratura contemporanea, ha firmato centinaia di recensioni, prefazioni e post-fazioni. È presente in molte antologie, blog nazionali e internazionali. Alcuni suoi testi sono stata pubblicati su riviste (tra le quali Poesia di Crocetti, e Atelier di Ladolfi) e quotidiani italiani. Molti i riconoscimenti ricevuti nel corso degli anni. Nel 2020 è uscita con la casa editrice Macabor un’auto-antologia di testi poetici scelti dalle sillogi pubblicate fra il 1991 e il 2019.

(A cura di Silvia Rosa)