Gloria e divismo: per una lettura della manifestazione e del modello nella scansione antica, cristiana e contemporanea

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Fra gli anni ’80 e ’90, parallelamente alla mia attività di insegnante, iniziai una attività giornalistica che mi portò a contattare e intervistare i maggiori esponenti dello spettacolo italiano, fra canzone, televisione, teatro e cinema, e mi appassionò al tema e ai luoghi del divismo contemporaneo, collocato grossomodo entro i confini di quella cultura pop che, da allora ad oggi, ha risucchiato entro la propria area e dimensione anche i nomi della comunicazione e del sapere, dell’arte, della politica e, probabilmente del tutto involontariamente, quelli della religione e del sacro (vedi il successo pop-mediatico di Papa Francesco).

Provo quindi a domandarmi che cosa avesse appassionato me giornalista nell’89, quando iniziai con una intervista a un idolo della mia infanzia, Rita Pavone, una attività giornalistica nel mondo del pop, essendo peraltro già reduce da una analoga attività nel campo della valorizzazione del territorio e del mondo del volontariato, su cui scrivevo per una testata locale.

E mi rispondo: mi appassionava il plus di energia, genio o creatività che intravedevo in molti di quei personaggi che si esprimevano attraverso la musica, la recitazione, la conduzione televisiva, la danza o il giornalismo, e quella che pensavo essere la loro capacità di dominare le circostanze piegandole al riconoscimento della propria grandezza, del proprio valore, del proprio talento, fino a diventare icone, paradigmi, archetipi di una condizione umana o modalità dell’essere (in certo qual modo sovrana nella propria area di riferimento). E non a caso un artista visivo da me molto amato in quegli anni, e di cui scrissi, fu Andy Warhol, cantore del divismo pop e per il quale sarebbe venuto un giorno in cui “tutti sarebbero stati famosi, almeno per quindici minuti”. I suoi bizantini e inquietanti ritratti, con quel freddo senso di un assoluto immanente totalmente risucchiato dalla iconicità brillante del “qui ed ora” della star, sono quasi un atto liturgico che, attraverso la creazione, la firma, la vendita e l’ostensione, realizza un culto verso idoli emanatori di sacralità feticistica e pagana rigorosa e affascinante.

È interessante osservare come il mondo contemporaneo, riluttante esito di una modernità sorta al confluire di razionalismo cartesiano ed empirismo anglosassone, abbia, per ragioni gnoseologiche complesse, scisso l’essere dall’apparire (presupponendo di poter confinare la lettura del primo al contesto e agli strumenti fisico-matematici, con conseguente priorità dell’approccio scientifico-tecnico su quello ermeneutico e umanistico). Ma è anche vero che in tal modo l’essere, destituito di quel fondamento ontologico che aveva nel mondo classico, si riduce, al di fuori di ormai desuete pretese scientiste all’esaustività, proprio e solo al suo mero apparire.

E questo spiega l’esplodere dei media quale orizzonte interpretativo cui oggi assistiamo, con le sue pretese di esaustività e normatività, come conseguente alla riduzione fenomenicistica della realtà, la cui consistenza diviene quella di un ologramma. Il valore ontologico, il costituirsi nell’essere, il radicarsi nel fondamento, ha luogo, paradossalmente,  sempre e solo nel suo mero apparire, nella superficie segnica incurante della sostanza che la supporta. è infinitamente malinconico vedere che Facebook e i social network pullulano di individui anonimi che assumono anacronistiche pose da modelli, pop star, atleti e top manager, che l’ostensione di status symbol quali auto, cellulari e accessori di tendenza intenziona nei molti la ricerca di una intensità di vita inseguita magicamente, identificando il possesso di un oggetto con le condizioni di gloria che ingannevolmente la pubblicità vi associa (per esempio, la libertà o la potenza si acquisiscono con una nuova macchina  o un nuovo modello di smartphone).

Si ha così che, se spesso la celebrità ha significato fascino, carisma e, soprattutto, talento reale in qualche ambito (quello che avevano la Garbo, Elvis, Fellini, Modugno o la Magnani), essa, con il moltiplicarsi delle possibilità, anche di contraffazione, offerte dai media, ha finito con l’essere un valore in sé, del tutto autonomo ed anzi fondativo ontologicamente, per cui, se un tempo la fama certificava un valore e grazie ad esso si giustificava, oggi è la fama a fondare il valore, così come un sovrano assoluto stabilisce cosa sia legge nel suo regno. Ecco allora che la spregiudicatezza morale, il cinismo o la semplice, incoltivata avvenenza fisica (magari connessa a un’età adolescenziale), che facilitano l’accesso ai media (cioè al pubblico apparire, aureolato dallo status nobilitante che tale accesso garantisce), sono le doti che si impongono e al contempo impongono il carosello delle personalità pubbliche prevalenti nella scena contemporanea: politici ignoranti, venali e divistici, venditori di sentimenti e sofferenze private, amanti e clienti piazzati a mostrare la propria povertà interiore, intellettuali sloganistici o di semplice appartenenza (aziendale o ideologica) spacciati per maîtres à penser del momento e, sempre più spesso, criminali condannati per efferati delitti trattati come star che vendono a caro prezzo le proprie memorie e, purtroppo, divengono modelli da emulare.

La mia attività nel mondo del pop mi interroga allora su cosa io abbia trovato e continui a trovare in tale ambito, che non sia desolante immondizia o corruzione acre nella scia dell’odierna deriva economica e sociale dell’Occidente. Se si leggono le mie interviste e articoli, ma ancor di più se si assiste alle mie lezioni concerto sulla canzone pop, rock e d’autore, si vede che il mio tentativo di lettura dell’universo pop (inteso nel suo senso più estensivo, come orizzonte socio-culturale della contemporaneità), va in una direzione diametralmente opposta a quella della maggior parte dei “filosofi pop” sempre più pullulanti sulla scena nazionale e non solo (perché anche questo fa tendenza…). Io cerco nel pop, come cercherei nel romanticismo o nel barocco, se fossi vissuto in altre epoche storiche, gli elementi di valore, che non credo orizzontali, cioè omologabili gli uni agli altri  in nome di una presunta ed accessoria equivalenza di qualsivoglia espressione artistica, culturale o esistenziale, ma verticali, e cioè dotati di diversa intensità, qualità, insomma gerarchia e pregnanza, e quindi mi comporto forse (e pericolosamente fuori tendenza) un po’ crocianamente, distinguendo continuamente e faticosamente ciò che è arte, politica, cultura, o meglio ciò che può ambire ai piani alti di tali attività, e ciò che è spazzatura, slogan, luogo comune, piaggeria, o mera commerciale pornografia. Ciò non deve ingannare: amo per esempio la canzone popolare e la preferisco a certa scontata canzone d’autore, ma a condizione che, nel suo genere specifico, essa sia intelligente e appunto “bella”, congruente nel rapporto tra la sua forma e ciò che essa vuole significare, e non mero espediente commerciale o cliché. Certo, rispetto ad altre epoche storiche, data la mole di produzione e la pervasività commerciale e mediatica, affidata al gusto di masse spesso incolte e imbarbarite dalle esigenze di un tardo capitalismo selvaggio e immorale, il compito del discernimento è oggi più che mai arduo, complesso, impegnativo, ma chi ne ha l’onere non deve demordere.

E quindi io mi colloco fra coloro (forse pochi, forse vivo in solitudine?) che vogliono non già adeguarsi ai più banali cliché del pop (come fanno appunto certi filosofi pop, che ne assumono le peggiori aberrazioni e sviluppi, come paradigmi attraverso cui leggere poi per estensione la realtà nel suo statuto ontologico), non già fra coloro che disprezzano il pop in nome di una presunta cultura alta o istituzionale da contrapporvisi accademicamente (e sono certi intellettuali istituzionali che il pop non comprendono e che vorrebbero cancellare, probabilmente insieme alla contemporaneità più viva e vitale, che esso rappresenta quando è autentico e sano), ma fra chi cercasse nel pop, come ineludibile orizzonte storico della contemporaneità, elementi di significato e di valore da ricondurre ad una concezione alta ed esigente della cultura, come elaborazione di significati impegnativi e nobilitanti per la condizione umana, e quindi intendo riconciliare il pop con l’ontologia classica e medievale, sia pur filtrata da un approccio ermeneutico, e cioè contemporaneo.

Quel che sappiamo del mondo classico, in parte congettura o supposizione ma alimentata da fondamenti storici attendibili, è che esso si nutriva ad una lettura manifestativa e agonica della gloria, sia che si trattasse degli eroi omerici Ettore, Achille, Ulisse, che avevano nella fierezza e nel coraggio, ma anche nell’astuzia e nell’intelligenza, le loro prerogative caratteriali e morali, e le mettevano al servizio della elevazione personale e della edificazione della comunità in cui e per cui vivevano, sia che, in età più tarda, si affermasse un’idea di valore connessa alla virtù politica, attraverso l’argomentazione, l’orazione pubblica e il dibattito, sulla scia degli insegnamenti dei sofisti e di Socrate, e quindi un modello di riferimento più intellettuale e meno vitalistico. Sta di fatto che la polis greca, l’universo della città come raccordo di un territorio abitato e animato da una comunità umana, aggregava l’idea di gloria all’idea di valore antropologico intrinseco, e subordinava questo alla sua destinazione sociale e universale. In tal modo, come idealizza e nostalgicamente rimpiange Hegel nella sua opera giovanile “Lo spirito del cristianesimo e il suo destino”, nella polis antica vi è completa identificazione fra il cittadino e la comunità, in una unità di intenti che acquisisce la forza di un legame empatico, di una appartenenza felice, di una intensa e struggente circolarità di motivazioni ed energie condivise. Che sia gloria sportiva o militare, politica, filosofica, letteraria o teatrale poco importa: la sua destinazione è la comunità, per la quale ha senso l’elevazione del singolo, la cui gloria, il cui “divismo” è riconoscimento di un afflato profondo, di un impegno indefesso, di un eroismo sovrumano, connesso alla subordinazione del sé a qualcosa di più bello e di più grande che lo trascende: la comunità degli uomini che, come sognava Platone, doveva suonare come una grande sinfonia di animi tesi a dare il meglio della propria musica o essenza. Uno spettacolo grandioso, cui Hegel attribuisce anche la prerogativa di una assoluta unità, causa l’assenza di distinzioni tra la sfera sacrale e quella civile, che nella Grecia classica si compenetravano e identificavano in un’unica sfera pubblica, peraltro indistinta da quella privata.

Se a questo associamo il dato che il pensiero greco si nutriva di una ingenua ma salutare fiducia nella conoscibilità dell’essere, cui ontologia e metafisica avevano accesso, non possiamo non concludere che i modelli di umanità classica erano modelli di salute e vitalità morale, di agonismo e competizione generosa entro un quadro di edificazione relazionale e comunitaria, in cui l’io subordinava sempre le proprie ragioni a più vaste logiche e considerazioni. Gloria, eroismo, successo erano espressione di valore in umanità e nella ricerca del bene.

Ma che accade in età cristiana? Tale idea di gloria, se possibile, si ontologizza ancora di più, venendosi a identificare come intrinseca al divino, e quindi come partecipazione ad esso dell’anima “gloriosa”. Insomma, la tangenza fra coscienza umana ed essenza divina, teorizzata da Agostino, esprime la sua vitalità in una nuova condizione ontologica, radicata nel soprannaturale, che connota l’anima con le prerogative della gloria divina: splendore, luce, bellezza, nell’orizzonte dell’amore sempiterno. Da un lato, quindi, l’orizzonte agapico evocato finanche dall’eros platonico e senz’altro dalla visione politica del bene comune aristotelico, ed esemplificato dalla vitalità della polis come modello di civiltà, si radicalizza col cristianesimo entro la concezione dell’unità invisibile ma reale fra tutti i credenti e cercatori della verità che, entro il medesimo Corpo Mistico, edificano la comunione universale incentivandone le potenzialità di verità, bene e bellezza. Dall’altro, tale incremento di bene, che ha luogo nell’anima “santa”, in cui risplende la gloria di Dio, è in qualche modo sì già presente nella sua propria manifestazione, ma anche assente nella sua interezza ed evidenza assolute, destinate ad essere rivelate solo nella condizione gloriosa dell’Aldilà, dove fra essenza ed esistenza non sussisteranno più filtri. E questo vale per la vita in genere.

Si capisce allora come il piano naturale della gloria “pagana” venga superato e integrato dalla categoria trascendente della  gloria “cristiana”, agente su di un piano noumenico e intrinseco, che può anche non manifestarsi tangibilmente nell’orizzonte del naturale, ed anzi venire da esso avversato. Se l’efficacia politica di un’azione può costituire infatti il metro di giudizio del suo valore in un ambito puramente naturalistico, e la bontà morale che la ispira ininfluente, nell’orizzonte ontologico spirituale o della Grazia (la vita di Dio, che la Gloria manifesta e cui l’uomo buono partecipa come condizione metanaturale e trascendente), tale efficacia è ininfluente a qualificarne la bontà intrinseca, che viene invece determinata dalla intenzione profonda che la anima, cui potrebbe non corrispondere il successo mondano, proprio in virtù della perversione morale di chi vi si oppone con metodi efficaci anche se cattivi (per esempio, l’assassinio del giusto – l’Uomo di Galilea insegna…). Dunque, si vede bene come nella concezione cristiana, che il Medioevo espliciterà e svilupperà appieno, vi sia, per così dire, un radicale appello alla ricerca e al desiderio di una “gloria intrinseca”, totalmente disgiunta dai valori del successo naturale e mondano, e connessa invece alla ricerca della santità, come aspirazione profonda ad una comunione intima con Dio, che talvolta mali naturali come la povertà o la malattia possono addirittura incentivare contribuendo a riorientare la vita nell’orizzonte del soprannaturale. Ecco perché il medioevo predilige una bellezza spirituale, talvolta deturpata e contorta dalle lacerazioni dello spirito ascetico, piuttosto che una scontata e autocompiaciuta, e perciò cattiva, bellezza naturale.

Abbiamo accennato, a proposito della modernità, che Umanesimo e Rinascimento anticipano, che essa esteriorizza e mondanizza nuovamente la ricerca della “gloria”, senza più le connessioni ingenue e vitali dell’Antichità classica, e di come la filosofia moderna, negando qualsiasi accessibilità all’essere che non sia quella delle sue connessioni quantitative e causali mediante la scienza, finisca con il ridurre l’esperienza del valore a mera apparenza soggettiva e illusoria. Ecco allora che la gloria mondanizzata diviene gradualmente il risplendere segnico senza alcun rinvio a un supporto essenziale che lo fondi e giustifichi. Se questo apparire cerca a lungo supporti nella modernità (lo Spirito romantico ne è una esemplificazione eclatante, ma lo è anche l’inconscio freudiano o l’economia in Marx), nella postmodernità la ricerca è finita e la superficie si riconcilia con se stessa, decretando il proprio trionfo. Vantaggi? Perdita del dogmatismo e di ogni integralismo, a fronte della presunta “debolezza” di qualsiasi “pensiero” e di ogni sua acquisizione. Limiti? Dogma della superficie, per cui i maggiori artefici del pensiero debole e della pop filosofia tendono oggi non già a garantire un approccio prospettico, aperto e inclusivo al sapere, proprio in virtù della parzialità dei punti di vista, ma, al contrario, a sancire l’obbligo di restare alla superficie, muovendosi per così dire nel suo perimetro tra fumetti e nonsense, tacchi a spillo e labbra contraffatte, spread e tangenti, insomma gossip e talk show. Ma anche divismo pop che si premia in virtù dei presupposti citati, per il suo esser congeniale alla superficie e refrattario alla profondità.

La televisione pullula di opinionisti e politici, conduttrici e dietologi, chef e coiffeur, popstar e maîtres à penser, premiati spesso in virtù della loro ortodossia al culto dell’epidermico e dell’ovvio, che obbedisce all’unico divieto di presumere qualsiasi ulteriorità  a tale livello dell’epidermico e dell’ovvio.  Anzi, tale pubblica abiura a qualsivoglia ulteriore affermazione o ricerca di senso diviene il prerequisito al successo e alla gloria in età postmoderna, che vieta di uscire dalla superficie, pena l’uscire di tendenza. La Rete ne è una esemplificazione raccapricciante: chiunque carichi un video insulso o triviale, o semplicemente banale, su You tube, è fatto oggetto di milioni di visualizzazioni, inaccessibili a qualsiasi contributo più serio o impegnativo. Che dire poi di quelle insulse autocelebrazioni e informazioni che pullulano sui vari profili Facebook, ove ci tocca assistere alle dissertazioni filosofiche di chi ha appena incominciato a ragionare, o peggio, di chi ci informa dell’ultimo acquisto e del dolce assaggiato al bar?

Ecco perché non condivido con gli altri filosofi del pop il dogma della superficie come unico orizzonte praticabile, e quindi non cerco di omologare le acquisizioni della civiltà in cui vivo alla civiltà del pop in cui siamo immersi, ma al contrario, amando il mondo in cui vivo, che è un mondo pop, cerco di contestualizzarlo al più vasto orizzonte dei valori e dei riferimenti elaborati dal processo storico ed esistenziale in cui mi trovo, entro cui scopro diverse gerarchie o intensità, possibilità e strategie per andare “oltre”, alla ricerca di soggettività o essenze a fondamento delle superfici, alla scoperta di anime e vite che sì, giocandosi anche nella rappresentazione di sé, che il pop esalta e celebra, e qualsiasi relazione comporta, non coincidono con essa, ma infinitamente la trascendono nel mistero che le abita, nell’invisibile che evocano, nella ineffabilità che implicano. E che rinvia alla visione della gloria come manifestazione di valore intrinseco del mondo classico e di santità nel mondo cristiano, senz’altro condiviso con le altre grandi religioni monoteiste, fra le quali ebraismo e islam, se possibile, ancor di più esaltano tale dimensione trascendente della gloria.

Così mi accorgo che la mia indagine e le affinità che condivido con il mondo del pop sono in gran parte correlate ad un tentativo che esso esperisce nei suoi momenti più felici, di glorificare il mondo della vita trasfigurandolo all’insegna della fantasia e della immaginazione, in una sorta di infantile meraviglia, che è poi l’atteggiamento di stupore più autentico e originario dell’uomo di fronte al divino e al suo insondabile mistero.

E dunque sono pop o irrimediabilmente fuori moda? Sono certamente classico, al di là e al di sopra di ogni moda. Come ogni spirito che si riconosca tale.

E vedo il divismo come una manifestazione spirituale che può essere solo evocativa del valore, stimolo all’elevazione, rappresentazione il cui senso ha da trascendere la rappresentazione stessa. E culminare in una vita che, alla fine, non avrà più bisogno di divismo, ma solo di amicizia.

(da Claudio Sottocornola, Occhio di bue, Marna 2021, pp.47-53)