Canto a Grisélidis

Griselidis

Griselidis

ENZA SIRIANNI

Leggere delle lettere raccolte dal destinatario e avere voglia di comporre un canto, elevare un inno, una preghiera alla donna che le ha scritte, con sincera commozione e ammirazione: questo è stato il bisogno che si è sprigionato in me via via che Grisélidis Réal si raccontava con la forza dirompente del suo animo, fonte scrosciante, trasparente, non incanalabile, fuori dagli alvei in cui il flusso indecifrabile della nostra vita viene usualmente imbrigliato fin da quando veniamo al mondo. Collocati nelle caselle della vita associata con un nome e cognome, sesso, genitorialità, data e luogo di nascita, andiamo incontro via via ad altre codificazioni più stringenti e cogenti che ci identificano socialmente e ci danno lo status di cittadini con precisi obblighi. Grisélidis, spirito fortemente indipendente e anticonformista, mal li sopportava e, per quel che poteva, si sottraeva a tutto ciò che sapeva di controllo, di sorveglianza, di monitoraggio, foss’anche per la salute, negli anni in cui l’Aids era considerato la peste assoluta per chi aveva comportamenti sessuali a rischio.

Peripatetica di professione, all’amico Jean-Luc Hennig a cui sono indirizzate le lettere confluite nel libro “Con tanto dolore e tanto amore” (Keller Editore, 2021), confessava di usare raramente il preservativo e gli annunciava trionfante, ogni volta che lo eseguiva, il test negativo alla Sida, come si dice nella sua lingua madre. Una sorta di rivincita contro i bacchettoni che associavano la malattia alla depravazione morale. Visse ed esercitò nel suo piccolo appartamento nei Pâquis di Ginevra, in cui usando i mezzi che aveva a disposizione tra cui la sua instancabile fotocopiatrice, fu in prima linea per realizzare la Rivoluzione, ossia il suo sogno di liberare la prostituzione da tabù e cliché ipocriti, ridendosela di Calvino, dei preti, della Lega abolizionista, delle signore perbene e di tutti gli  indovini delle nostre esistenze, quelli che si arrogano la pretesa di annientare la nostra irripetibilità puntandoci un faro addosso per impedirci di trovare un qualsiasi “varco” (Montale) nella muraglia. «Quando cesseranno di esistere la “giustizia”, le leggi, i giudici, la polizia, le prigioni e i tribunali? E sarà semplicemente possibile vivere e amare? Non se ne può più di tutte queste manipolazioni. Di tutte queste messinscene.»

Grisélidis Réal, nata da una famiglia borghese, divenuta prostituta per bisogno e per sfamare i suoi quattro figli che ha adorato e cresciuto con premura e libertà, all’inizio subisce con vergogna il meretricio, acquisendo via via la consapevolezza che non è un mestiere come gli altri, ma una vera e propria arte in cui la componente filantropica, la vocazione missionaria sono fondamentali per alleviare solitudini e combattere la miseria umana dall’interno della sua stessa miseria. Del resto chi non sta ai margini, non può capire gli esclusi, gli espulsi dal circo del benessere. Solo dal basso si comprendono i bisogni di chi non ha niente se non le famose braccia proletarie con cui guadagnarsi il pane ingrassando i padroni.

I clienti di Grisélidis, puttana popolare, sono dei poveri diavoli, più che altro operai immigrati turchi, arabi, spagnoli, portoghesi, qualche italiano, che, a differenza di uomini facoltosi, dispongono di poche banconote stropicciate per appagare i loro desideri sessuali, spesso accompagnati da fantasie erotiche disparate che non sempre è disposta ad assecondare, quale il sadismo del Berbero ricordato con affetto, ma da lei respinto ad un ennesimo tentativo di approccio a distanza di anni, perché «bisogna sapere dire di no all’Inferno, caro Jean-Luc». C’è inferno e inferno. Lo sa bene Grisélidis che mette via i risparmi delle sue faticose giornate di lavoro, usando una tenerezza compenetrante verso le vite aspre e dimenticate dei suoi clienti del sabato sera. Il giorno in cui gli affari vanno meglio per le paghe e il riposo che spettano agli oppressi della calvinista, ordinata, linda società svizzera.

La Réal non è mai sdolcinata e scontata nella sua solidarietà verso chi se la passa male, siano donne o siano uomini che per sorte  arrancano sull’erta del vivere quotidiano con maggiore sforzo, meno avvantaggiati rispetto ad altri che, forniti solo di qualche soldo in più e di uno status sociale rassicurante, magari storcono pure il naso davanti ai diseredati e a chi, come le puttane popolari, mettono su pranzo e cena con tanto dolore e tanto amore…

Non si nasconde che gli altri, poveri o ricchi che siano, possono essere inaffidabili e deludere. Generosa, disponibile verso i primi, tuttavia sa difendersi ed essere decisa con gli approfittatori, gli opportunisti, i violenti, i clienti pericolosi. Conosce l’umano e la sua inclinazione per l’ingratitudine e la prepotenza. Non è una ingenua ma una sognatrice di un mondo migliore.

Il dolore di Grisélidis è privo di vittimismo e delle lamentazioni tipiche di chi si sente insultato dalla fortuna. La sua è più una rabbia, senza livore, verso l’ingiustizia eretta a sistema per cui le sue conversazioni con Jean-Luc hanno indubbiamente il sapore della denuncia sociale che, non perdendo di pragmatismo, è smorzata dalla sua graffiante ironia e dal suo schietto umorismo. Ne ha per tutti, anche per il femminismo della borghesia progressista. Che è quello che ancora va per la maggiore. Allora, leggendo le giornate di questa donna, che si sente un po’ zingara e adora la libertà dei gitani (bellissime le pagine in cui parla del funerale del Padre zingaro, suo affettuoso amico), scrittrice, pittrice con raffinatissimi gusti culturali, musicali, gastronomici, enologici, emerge che la sua sofferenza è essenzialmente fisica.

Le fa male letteralmente la passera dopo rapporti con i superdotati, con i turchi, di cui compiange le mogli per l’uso di radersi i peli della zona pubica con tanto di effetto “grattugia” sulla sua delicata pelle, per le cistalgie periodiche che l’affliggono con frequenti visite ginecologiche, per le irritazioni curate con creme costose e lavaggi lenitivi per sfiammare le sue parti intime. Ma poi c’è tanto amore che la ripaga dei suoi sacrifici e di quella sorta di immolazione sociale e umanitaria. E una dolce compassione come quella che trabocca dalla descrizione di uno dei clienti della Réal, tutti con nomignoli da lei inventati per l’aspetto fisico, per l’umore che rivelano, per le preferenze sessuali.

«Rimane ancora l’Obeso-e-pelato-con dente-solo. Dio mio! Questo qui se ne sdraiato sulla schiena…incredibilmente ciccione, ma così gentile…non gli si può volere male. E viene da solo, con la sua mano poverino. Ti strappa il cuore vedere queste solitudini enormi, arenate lì sull’asciugamano, abbandonate a te come balene in agonia, con tanta tenerezza nello sguardo.»

Jean-Luc Hennig, nel risvolto di copertina, definisce la sua amica Grisélidis «una delle donne più rare che abbia mai incontrato». Lei che lo stima incondizionatamente e a cui dedica una mitica, semiseria scopata immaginaria, a suggello del libro con una assoluzione scanzonatamente solenne per tutti quelli vogliono fare l’amore come gli va.

Donna rara: penso proprio di sì, perché non è di tutti essere luminosi e veri in questa vita bardata di stucchevoli teatri e insopportabili rappresentazioni in cui si è di tedio a sé stessi e agli altri con i nostri invadenti moralismi e perenni finzioni. griselidis-copertina