Scurau di Giuseppe Nibali

scurau-copertina

Dalla postfazione di Tommaso Di Dio

Questo libro parla di noi. Qui ci troviamo tutti, «tutti sono convocati»: nessuno è escluso. Siamo noi qui, in Occidente, adesso, anno domini 2021. Raramente ho letto un linguaggio più immerso nella contemporaneità: ed è orribile. È l’orrore. La scrittura di Giuseppe Nibali ci mostra il fondo più oscuro della nostra epoca e lo fa senza fare menzione alcuna della nostra più triste cronaca. Nibali non ha bisogno di referenti espliciti, di nomi-totem tratti squallidamente a forza dagli schermi e dalle voci rauche delle varie pasture mediatiche. No: qui è la materia stessa del linguaggio, la sua natura congestionata ed eteroclita, che ci immette senza indugio in una zona infera, crepuscolare, che ci è terribilmente prossima e familiare. La riconosciamo dalla ferocia che ogni verso trasuda, dalla pornografia di ogni immagine, dalla latente ossessione necrofila per i resti, siano essi feticci, schegge di mitologia, di storia, di scienza: siamo nella nostra epoca, epoca fecale, e Scurau è il nome di questa esplorazione.
Dal dialetto siciliano possiamo tradurre variamente questo strano verbo. Scurau: verbo impersonale, terza persona singolare, passato remoto. Per trovare un’equivalenza semantica, possiamo affidarci alle espressioni italiane “abbiamo finito”, “viene buio”, “fa notte”, “è tardi”; ma in ultimo è, come ogni espressione idiomatica, intraducibile. A guidarne la forza evocatrice è il valore perfetto di un evento (la tenebra) che si annuncia come remoto ed è già qui, tutto presentificato nel suo approssimarsi inesorabile.

da Scurau (Arcipelago Itaca 2021)

Ultima voce chiama il sangue.
Campo cruento gli uomini, altro sangue per le donne:
è il giorno. Tutti sono convocati, vecchi e nuovi
viventi aspettano un gesto per sbranarsi. Il rivolo
aspettano, verticale sullo sterno, il morituri stabilito
dalla nascita, nella nascita futura rivelato. È tempo
adesso per il sesso tra gli attori, gambe nude, lividi
dai piedi fino all’ano serpi, piaghe fili lo sfondo fuori
anche case, molte, come in cerca vergognosa della luce.
Altro mai, nemmeno nella voce, nella voce ultima

*
Vi seguirà il male dietro l’edera e di sopra
sul balcone in lamiera che avete per rifugio.
Non è il tempo delle corse alla ringhiera
mentre lo sfondo si disossa, passa dall’arco delle vie
per la montagna. È morto anche il vecchio prete
di Ragalna, per la fine del suo giorno una domenica.

Chissà che luce vi assale lì dai tetti, dove il sole si
inurba coi pastori fra i negozi e che fatica morire
anche voi nella chiesa col barrito alto della fiera.
Qui nel lontano la nebbia muove la pianura
sopra i ponti, dalla miseria di colline, altre volte
fuori alla finestra si alza lo scheletro di un albero

*

nel notturno si muove il tessuto della terra,
le case, i resti d’osso, ombre nell’ombra una
sull’altra e alla via nuove bambine imparano
il dolore: sul porto, dentro la ritirata del treno,
Gheta ha sfiorato la scritta sul muro: se hai
paura urla e grida sempre nel seguire
la serpentina di cemento per le cave.

*

Scurau, u senti stu scuru ca ni pigghia? Statti ccà. Resta,
è longa a nuttata, e non chianciri, basta. I casi ‘i spunnaru.
‘I spunnau n’ventu chinu e’ jorna. Trasi e talìa a me vesti,
a morsi a morsi ppi ttia, ppi quannu nascisti e ppi to patri
ca u chiamai tutt’u tempu e non m’arrispunniu ancora.
Veni cà, non chianciri. Intra’a chiesa parravanu ro nfernu,
u parrinu s’infucau e avìa l’occh’i fora; ppi lu scantu
t’incaccau l’ogghiu supr’a testa. Sulucà, pri thri ghiorna,
lucìu a festa.

Ha fatto buio, la senti questa oscurità che ci prende? Rimani qui.
Resta/ la notte è lunga, e non piangere, basta. Hanno sfondato le
case./ Le ha sfondate un vento pieno di giorni. Entra e guarda la
mia veste, fatta a brani per te, quando sei nato e per tuo padre/
che ho chiamato tutto il tempo e non ha risposto ancora.// Vieni
qua, non piangere. Dentro la chiesa parlavano dell’inferno, il
prete si è infuocato e aveva gli occhi di fuori; per lo spavento/ ti
ha premuto l’olio sulla testa. Solo qui, per tre giorni,/ si è
illuminata la festa.

*
U generi umanu. Ju n’haiu scantu.
Nuatri semu pronti ppa tunnara
e fossi nuddu rumpìu l’acqualoru,
fici chiaja a so matri.

Il genere umano. Io ne ho paura./ Noi siamo pronti per il
massacro/ e forse nessuno ha rotto la placenta,/ ha ferito la
madre.

Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Si è laureato in Lettere Moderne e in Italianistica a Bologna dove è stato membro del Consiglio Direttivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università. Giornalista Pubblicista, è direttore responsabile di ”Poesia del nostro tempo” e curatore del progetto Ultima. Collabora con ”Le Parole e le cose”, ”La Balena bianca” e con il magazine ”Treccani”. Ha pubblicato i libri di poesia: Come dio su tre croci (Edizioni AE 2013) e La voce di Cassandra – Studi sul corpo di una vergine.

(A cura di Silvia Rosa)