La musica perduta di Alessandro Scarlatti

20211106-scarlattiGABRIELLA MONGARDI

L’ensemble “Musica perduta” (Vincenzo Bianco violino primo, Giuseppe Grieco violino secondo, Renato Criscuolo violoncello barocco, Dario Landi arciliuto e tiorba, Alessandro Rispoli clavicembalo), insieme con il tenore di origine messicana Baltazar Zúñiga, ha proposto nel concerto tenutosi sabato 6 novembre scorso a Mondovì Piazza i risultati del lavoro di ricerca, in biblioteche e archivi, di manoscritti inediti di compositori in prevalenza dei secoli XVII e XVIII che meritano di essere rivalutati: in questo caso le cantate per tenore del musicista palermitano, ma attivo tra Napoli e Roma, Alessandro Scarlatti (1660-1725).

Prima del concerto, nei locali dell’Academia Montis Regalis, il musicologo Giovani Tasso, il tenore Zúñiga e il violoncellista Renato Criscuolo, hanno illustrato le caratteristiche della cantata barocca e della musica di Scarlatti padre.
Scarlatti fu un autore molto prolifico di cantate profane (era legato alla corte romana di Cristina di Svezia e all’accademia dell’Arcadia), ma destinate per lo più alle voci acute del soprano, del contralto o del castrato, perché la voce del tenore era considerata troppo “concreta” e “realistica” per esprimere il sogno di evasione idillica e pastorale che l’Arcadia inseguiva, in poesia e in musica. Le cantate eseguite rappresentano quindi una vera rarità e mettono a dura prova sia gli strumentisti che il cantante, perché non hanno ancora una struttura regolare, né rispettano il ritmo rigoroso della battuta ma piuttosto il tactus, legato all’ “affetto”.
Quella di Scarlatti è una musica di transizione, tra Monteverdi e Porpora, influenzata dall’oratorio romano: il linguaggio è estremamente denso ed elegante, molto “ricamato” armonicamente; pur conservando la struttura contrappuntistica sa essere patetico e malinconico ma anche tenero, brillante e ironico; ogni nota ha un’esigenza di colore, vibrato ed emozione che genera continue sorprese nell’interprete e nell’ascoltatore. Le sue arie avrebbero potuto far parte di un melodramma, data la loro complessità drammatica ben evidenziata dall’interpretazione, davvero al “servizio” del compositore.

Il concerto è stato aperto e chiuso da due cantate per tenore con violini e basso continuo, Lagrime dolorose agli occhi miei e Mi contento così, in netta antitesi tra loro: il protagonista della prima soffre per un amore infelice, l’atmosfera armonica è cupa e luttuosa, mentre quello della seconda è pieno di buon senso e senza troppe pretese. Al centro, quattro cantate per tenore e basso continuo (Due guance vezzose, A placar la mia bella, Larve e fantasmi orribili, Per destin d’ingrato amore) incastonate tra due sonate per violoncello e basso continuo, dove il violoncello, strumento appena derivato dal violone in area bolognese, ma molto apprezzato a Napoli, sostituisce la voce umana, è una “voce finta”.  Anche qui domina l’antitesi: alle prime due cantate, leggere e ironiche, si oppone nelle due successive la disperazione per l’amore non ricambiato, espressa con toni cupi e ritmi franti.

Un concerto filologico da ogni punto di vista, che ha permesso di riscoprire sonorità dimenticate.