Il dolore e il ricordo nei versi per Zeichen

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LAURA D’ANGELO

Cosa resta di una vita, chi può dire quello che una vita è stata. È uno degli interrogativi che Gabriella Sica in Tu io e Montale a cena (Interno Poesia, 2019), dedica alla memoria del poeta e amico Valentino Zeichen, in un nuovo libro di poesie che la poetessa compone quale canto di amicizia e dolore. Si tratta di quaranta poesie, precedute da due liriche In limine e seguite da altre due in chiusura di volume, corredate da due prose, e da una nota dell’autore, in cui la Sica si abbandona al ricordo commosso dell’amico Zeichen, il poeta coriaceo al vetriolo («l’eccentrico, l’originale il poeta») dalla malattia, alla scomparsa, dai frammenti di un’amicizia mutuata dal comune amore per la poesia, al periodo definito, al pari di Dante e Petrarca, della «tristezza»: in un canto intimo e intenso, prende forma la figura dell’uomo di tutti i giorni, in un tono ora scanzonatorio e affettuoso, ora doloroso e accorato, ma sempre permeato da una verità disarmante, una fragilità ora troppo umana, una fratellanza che si imprime nel senso di un destino comune, nel senso di un’assenza, nel vuoto che una vita lascia con sé.

È nella dimensione di una grande umanità che la poesia della Sica trova la sua realizzazione: è poesia colta, padrona della tradizione, documento di una stagione poetica che attorno al convivio del verseggiare ha Pagliarani, Guglielmi, Bollea, Spaziani, i simposi di Montale, Ungaretti, Moravia, un alto tempo di sognatori; è poesia vera, poesia di dolore e di amore, poesia di quieta armonia, di congedo e consolazione, se è vero che è proprio la poesia a colmare presenza e assenza, a dare il senso di una verità («come ah ci muta il tempo/ io stanca a fatica tra la vita/ tu sempre un signore e più sottile») mitigando la pena della perdita, nell’affetto consolatorio della parola poetica, nel ricordo.

L’epicedio della tradizione diventa così un viaggio della vita e della scrittura: dallo sgomento del vuoto all’affettuoso banchetto, dalla trama di sogno ad una tessitura di «volti fatti d’aria», ecco che prende forma a poco a poco, come i pezzi di un puzzle, sublimata dalla poesia, la risposta ad un’esistenza, che è poi quella dimensione umana che riconduce all’io i poeti di ogni tempo.

Valentino, dal nome pascoliano ribattezzato quasi a voler scaldarsi nel nido di una nuova identità, il poeta che tanto ama gli orologi e che si fa ritrarre dalla Rai nell’atto dello stirare una camicia («lui apprezza le camicie ben stirate […] a sera il poeta spiantato è pronto / con destrezza/ a interpretare il personaggio»), perché il pubblico vuole aneddotica più che pensiero, è raccontato, nel libro, nella sua umanità. Si intrecciano al personaggio i rimandi mitici, come quelli riconducibili ad Enea (Anche tu sei dall’est in fiamme sceso/ dall’Adriatico agitato […] dal vecchio Oriente/ al periglioso Occidente) venuto da lontano, dall’epico andare, all’Hermes «figlio di un dio minore», o all’uomo che dalla sua zona di rigore, avvezzo ad incollare il mastice a porte per proteggersi dal freddo, perennemente in esilio, è adesso in un letto d’ospedale (Valentino è in un letto d’ospedale/ nel mese più crudele), al pari di un moderno Ulisse, nella rilettura del regista sudafricano Kentridge, che tratteggia la fragilità dell’io quando il mito si rompe, si frattura all’improvviso. Una chiave di lettura dei nostri tempi, ma anche una verità dell’esistenza. Gabriella Sica nel convivio della poesia non dimentica nessuno, lì dove s’intravedono le verità di un’età mutevole, che segnano un’età di transizione, la realizzazione di un tempo concluso.

Eppure, Zeichen è ancora uomo nella casa-baracca («è una leggenda la baracca a Roma […] sta nella sua officina il fabbro romano»), quale muto eroe di una Roma senza tempo, scandita dai ritmi degli autobus e dai tramonti, la Roma di Villa Borghese e Piazza del Popolo e di Via Flaminia, su cui pure restano le vestigia di un’Arcadia Immortale («Quel colle si era impresso/ sulle sue pupille spalancate/ lì a Piazza del Popolo e a pochi metri/ c’era da scollinare salire/ l’incantato verde colle/ la somma acropoli da espugnare/ raggiungere la vetta ombrosa/ e verde dei pini e dell’arte/ lì nell’Arcadia di Via Flaminia»). È un’immagine che resta e illanguidisce nel tema dell’esilio, ancora del distacco dalla terra, dalla madre, nella dicotomia dell’assenza e della presenza, nel vento all’improvviso (Valentino nel vento): una vita che si risciacqua nell’Arno, nei duplici doppi bauli, chiusi per il congedo, l’eredità ricevuta, l’eredità da trasmettere. In un abbraccio di mani vuote, ci dice la Sica, è il sogno che ancora una volta, ritorna. Il sogno della scrittura e il sogno della vita, che sa farsi poesia, poesia per ricreare l’incanto, poesia non svanire: «non è diverso dalla veglia il sogno/ accordare presenza e assenza».