Inferno, canto V: l’occhio dei romantici

FULVIA GIACOSA

Come ha argomentato Paolo Lamberti nel suo intervento su Margutte, l’Ottocento rilegge e spesso distorce il senso dantesco del V canto dell’Inferno. Scrive infatti che È il Romanticismo a leggere la vicenda dei due amanti come una storia basata sul binomio Amore-Morte, quintessenza della visione romantica della vita.
Alle fonti letterarie citate e alle acute riflessioni personali di Lamberti mi permetto di unire, a mo’ di piccola stampella visiva, alcune opere artistiche d’epoca romantica la cui scia pervade ancora il Simbolismo di fine secolo e sfiora l’inizio del Novecento, un lungo periodo che ha amato il canto in questione e in particolare le figure di Paolo e Francesca, prendendosi fin troppe libertà interpretative. Non dunque un discorso intorno alla poesia d’amore che Dante ha coltivato in gioventù – dal che deriva il coinvolgimento emotivo del poeta nell’ascoltare le parole di Francesca – ma storia di trasporto tragico che la passionalità romantica esalta oltre misura.

Coloro che nel XIX secolo hanno scelto la vicenda terrena di Paolo e Francesca l’hanno spesso condensata nel momento del bacio, spiato o meno dal marito di Francesca, oppure nel triste epilogo dell’uccisone dei due cognati l’una nelle braccia dell’altro; in questi casi gli artisti rispondono al gusto del loro pubblico con una ambientazione storica medievalistica abbondante di particolari architettonici e di costume. Il destino ultraterreno di Paolo e Francesca viene reso sia isolando le due figure sia allargando lo sguardo alla scena infernale descritta dal poeta: il colloquio con Dante, dal taglio narrativo e illustrativo, e la marea dei lussuriosi nello sfondo vago della bufera che mai non resta.
Vediamo alcuni esempi assai noti.
W. Blake (1757-1827), poeta e pittore visionario inglese, interprete del sublime romantico, illustrò la Commedia a partire dal 1817; nella scena del V canto cita espressamente la bufera …  che mena li spirti con la sua rapina e di qua, di là, di giù, di sù li mena , un turbine affollato che si snoda come spire di una serpe di cui le anime sono squame; non dimentica inoltre di rappresentare lo svenimento di Dante a sottolineare il personale rapporto empatico del poeta con il racconto di Francesca (sì che di pietade io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade). Il tutto è immerso in un ambiente cupo, dai toni bluastri del fondo e terrosi dei corpi a contrasto con il biancore freddo della luce che proviene dall’alto. Tra le illustrazioni del 1861-68 di Gustave Doré (1832-1883) la maggior parte è concentrate sui soli due amanti, mentre “Il Cerchio dei lussuriosi” ha una inquadratura larga sui tanti corpi avvolti in un turbinio che tuttavia risulta più “ordinato” di quello blakeiano; trascinati dalla bufera essi sono figure scultoree ed enfatiche secondo criteri rappresentativi tipici del Romanticismo storico “alla Delacroix”, cui molto deve l’autore le cui incisioni, quasi cinematografiche, ebbero grande fortuna per decenni. Stilisticamente si nota, nelle pose audaci e avvitate su se stesse, l’aggiornamento ottocentesco sulla lunga tradizione manieristica e barocca. Scenografica è anche un’altra incisione dei due amanti racchiusi in una sorta di contorno a forma di cuore, immagine da romanzo d’appendice. D’altro genere sono, dello stesso Doré, le ambientazioni medievali ricostruite secondo il gusto eclettico e neogotico tipico di tanta architettura ottocentesca (tanto per fare un esempio, il Cimitero di Schellino a Dogliani). Così è in “Quel giorno più non vi leggemmo avante” una carta ad inchiostro e guazzo del 1861, per la quale l’artista sceglie il momento, indicato nel verso del titolo, in cui i due cedono alla passione, con Francesca che lascia cadere il libro “galeotto” mentre da una tenda giunge Gianciotto armato di uno stocco: amore e morte indissolubilmente uniti nella stessa scena, come si diceva in apertura.

Nel 1845 Jean-Dominique Ingres (1780–1867) aveva inscenato lo stesso passo con una vena più da commedia che da tragedia. Niente pathos infatti, anzi un’insistenza sull’eleganza di lei (si guardi la mano che posa il libro degna di una Madonna di Lorenzetti) e l’adolescenziale trasporto di lui, sbilanciato e quasi cascante; il bacio, quanto di meno erotico si possa immaginare, è cinematograficamente finto; il terzo attore, Gianciotto, entra in scena dall’ombra di una quinta, tagliato a metà.

Quasi contemporaneo (1855) è un trittico ad acquerello di Dante Gabriele Rossetti (1828-1882), fondatore della inglese Confraternita Pre-Raffaellita. L’opera riassumere in tre scene l’episodio, in vita e nell’aldilà: il primo riquadro mostra i due amanti che, alla lettura della storia arturiana di LancIllotto e Ginevra, si baciano (il verso quanti dolci pensier, quanto disio è inciso sullo scalino); al centro Virgilio e Dante con la scritta o lasso; il pannello sinistro presenta il volo dei due amanti abbracciati su un fondo da tappezzeria di morrisiana memoria con astratte anime-fiammelle e il verso riportato in basso menò costoro al doloroso passo. I costumi castigati, le chiome rossicce e fluenti, gli occhi chiusi e sognanti creano un’ambiguità emotiva tra passione e sublimazione stilnovistica, sigla di tutta l’opera rossettiana; l’ispirazione all’arte essenziale del proto-rinascimento e il tema medievale generano una arcana oscillazione tra naturalezza, quasi intima familiarità, e tensione idealizzante delle figure dall’eleganza “cortese”.

S’usa dire che il Neoclassicismo avesse raggelato l’erotismo in forme perfette, ma basterebbe guardare il disegno dello scultore danese Bertel Thorvaldsen (1770–1844), Paolo e Francesca sorpresi da Gianciotto, (1802-05 c.) per dimostrare il fuoco che brucia sotto la cenere, fuoco che si fa esplosivo in Auguste Rodin (1840-1917) tanto nel Bacio del 1886/88 e nel battente sinistro della Porta dell’Inferno progettata per il Museo delle Arti Decorative di Parigi e dalle vicende assai travagliate, quanto in un’opera meno famosa e decisamente più carica d’erotismo, Paolo e Francesca tra le nuvole (1904-1905), più baudeleriana che dantesca. I temi infernali danteschi diventano, nella Porta, il “diario scolpito” della vita di Rodin, come la definì l’allieva-amante Camille Mauclair nel 1918. Nel Bacio la concentrazione su un’istante consente allo scultore di raggiungere l’acme emotivo nella sovrapposizione degli arti, l’avvitamento dei busti, le torsioni posturali, come avviene peraltro nelle tante figure della Porta, plasmata per via di porre nonostante i richiami a Michelangelo che però operava per via di levare. Rodin aveva definito Dante “scultore della parola” così come lo scultore lo è della materia; egli infatti era innanzitutto un modellatore, non un intagliatore, in questo assai diverso da Michelangelo cui tanto spesso è stato accostato.

Sul finire del XIX secolo e alle soglie del successivo il pathos romantico non ha perso mordente, tuttavia si traduce in scelte pittoriche più evanescenti tipiche del dominante simbolismo. Ne sono dimostrazione gli esiti del concorso bandito dalla ditta Alinari di Firenze, eccellenza europea in campo fotografico, per una raffinata edizione illustrata dell’opera dantesca dal titolo La Divina Commedia nuovamente illustrata da artisti italiani. L’opera, stampata tra 1902/03, presenta ben 388 incisioni e costituisce testimonianza di un’arte italiana ancora divisa tra afflato tardo-romantico, descrittivismo veristico e modernità simbolista. Cito per tutti Giovanni Costetti (1874-1949), incisore emiliano che dà al nostro tema una versione decadentista chiudendo i volti degli amanti in una forma a cuore creata dai capelli di Francesca, memore tanto di D. G. Rossetti quanto di G. Doré ma ormai più decisamente simbolista.

In ambito pittorico interessante è l’opera Paolo e Francesca (1887) di Gaetano Previati (1852-1920), che qui ancora risente della recente esperienza della Scapigliatura lombarda per avvicinarsi, nel giro di pochi anni, al clima simbolista europeo e trovare la sua collocazione nel Divisionismo italiano degli anni Novanta; ne sarà uno dei massimi rappresentanti con Segantini e Pellizza da Volpedo ma anche il più fine teorico col trattato Principi scientifici del Divisionismo (1906). Il dipinto “scapigliato”, ora conservato all’Accademia Carrara di Bergamo, è di intenso pathos: la marcata teatralità della morte pareggia il trasporto amoroso in vita; nuovo è però il taglio compositivo, con le figure proiettate sul lato destro del quadro ed una luce scenica che crea un un’atmosfera densa e satura. Francesca è un’eroina pienamente ottocentesca, trafitta con l’amante dalla grande spada in una macabra unione; non a caso i personaggi sono pari, per importanza nella composizione, al grande letto che occupa oltre metà della scena, da melodramma più che da tragedia, e la bocca socchiusa di Francesca conserva ancora, nel dolore della fine, una carica passionale da femme fatale.

Anni dopo, nel 1909, l’autore ne realizza una seconda versione (visibile al Museo dell’Ottocento di Ferrara) pienamente “ideista”, termine col quale si erano presentati i Divisionisti alla mostra milanese del 1891. I tratti ancora realistici della prima versione scompaiono per privilegiare una lettura altamente evocativa: sono le linee ondulate e filamentose dei due corpi e dello sfondo a smaterializzare l’immagine elevata a idea. La loro direzione obliqua, dal basso verso l’alto, ha un andamento elegante tipico del Secessionismo europeo e ribadisce la posizione ascendente delle figure creando profonda unità compositiva al dipinto immerso in una luminosità flebile, da sogno.

Con Umberto Boccioni (1982-1916) si chiude tutta un’epoca. Pittore, scultore e teorico del Futurismo dagli anni Dieci del nuovo secolo, in data piuttosto avanzata (1908) ci lascia un “Paolo e Francesca” ancora immerso in clima tardo-simbolista, dalla lingua però già asciutta e sintetica. Sappiamo che, proprio in quegli anni, Boccioni studia Munch, la Secessione viennese, Previati e Beardsley. L’opera presenta infatti consonanze con il coevo espressionismo di area tedesca, e anticipa, nella composizione, la “Sposa nel vento” (1914) dell’austriaco Oskar Kokoschka, con i due amanti sospesi a mezz’aria e trasportati dal vento. Nella parte alta del quadro, preceduto da svariati disegni, compaiono tracce di divisionismo, caratterizzante la sua pittura proprio durante il primo decennio del Novecento mentre nella parte bassa una grande macchia scura di tipo informe trasforma la bufera dantesca in una distesa densa ed oleosa; al centro i corpi allungati alla maniera modernista, giacenti su una nuvola infuocata come la loro passione, conservano una forte volumetria pur nel libero ondeggiare nell’aria, immagini del sogno immerso in un sospeso silenzio (non più la musicalità di Previati) che li assurge a dimensioni quasi astratte a contrasto con la sottostante massa, materica e lugubre, dei dannati.

Siamo al canto del cigno dell’arte ottocentesca. Nel giro di pochi anni avviene la prima di tante rivoluzioni estetiche che segnano il secolo breve. Ma questa è ormai tutta un’altra storia.

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