Il partigiano Piero Cosa – Seconda puntata

La tomba del Partigiano Gino Ghibaudo

La tomba del Partigiano Gino Ghibaudo

GIUSEPPE PRIALE

L’umile e piemontese Bastiàn, nome di battaglia del partigiano Cosa, rivela già da solo la modestia e l’attaccamento del personaggio alle sue origini terragne e richiama nello stesso tempo alla mente il piemontese soprannome Cuntrari, ma in senso buono. Infatti, Cosa era sempre contrario alle cose sbagliate, anzi “ribelle” a tutto ciò che andava contro la giustizia, la libertà e la verità. In questo era sicuramente il più ribelle dei ribelli. Era il più onesto e coraggioso dei partigiani, da lui considerati come figli che le mamme e la Patria avevano messo ai suoi ordini in qualità di Capitano Comandante di partigiani votati ai più alti ideali della Resistenza, i cui gradi erano autentici e il carisma più che meritato. Era un comandante sui generis, fuori del comune. Preferiva mettere a repentaglio la propria vita piuttosto che quella di un altro. Era coraggioso, ma non temerario. Nei suoi piani strategici calcolava sempre che il rischio non superasse mai i benefici. Preferiva la ritirata al massacro, anche se poi ricordato da una lapide con su scritte belle parole. Era consapevole che le sue formazioni, in campo aperto e negli scontri frontali, non potevano di certo competere con un nemico superiore in uomini e mezzi. La sua era la tattica del guerrigliero, del “mordi e fuggi”, senza però mai dar tregua al nemico. Un suo partigiano, Mario Baudino, disse di lui: “Combatteva per senso morale; anteponeva l’etica al furore della guerra. La sua Banda rappresentava un modello di lotta partigiana molto raffinato, duttile, elastico. Piero Cosa era in grado di radunare velocemente i suoi uomini e disperderli con altrettanta rapidità”. Non era un combattente assetato del sangue nemico e di gloria. Si sentiva responsabile della vita dei suoi partigiani. Preferiva restituire alle mamme i loro figli sani e salvi, piuttosto che offrire alla Patria dei figli straziati, lasciati a terra per spregio o impiccati e lasciati appesi ad un palo per monito, senza un Deprofundis dei parenti, senza una spruzzata d’Acqua Santa del prete, né il triste canto di un Miserere.

Solo i poeti riescono ad esprimere tutta l’angoscia che si può provare di fronte allo sfacelo fisico e morale prodotto dalla guerra, come fa Salvatore Quasimodo, ispirandosi al salmo 137:

Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

Ma Giuseppe Ungaretti più ottimisticamente dice: “Solo la poesia può recuperare l’uomo”, quello che, durante le pause della Prima Guerra Mondiale, scriveva brevi e luminose poesie su pezzi di carta di recupero per ritrovare se stesso, ma anche per sentire l’ “essere uomo” dei suoi commilitoni, che in una poesia chiama “fratelli”, usando una  parola nuova, pronunciata per la prima volta in una notte sul Carso e percepita come una “fragile foglia” mentre esce dal suo involucro nell’aria “spasimante”, che avvolge scenari di sofferenza e di morte, in cui l’essere vivente per eccellenza non sa  più “Se questo è un uomo”, come si chiede Primo Levi, quando esce devastato dal lager di Auschwitz. Ci viene, però, da pensare che lo scrittore ebreo-torinese non sia più riuscito a recuperare il suo “essere uomo”, se nel 1987 si toglie la vita, dopo aver scritto I sommersi e i salvati, quasi in risposta alla domanda espressa nel suo primo libro. Ci viene ancora da pensare che Primo Levi si sia messo nella categoria dei “sommersi”, affondato dall’esperienza distruttiva del lager e dal suo dichiarato ateismo (“C’è Auschwitz, quindi non può esistere Dio”, asserisce in modo perentorio). Al contrario ci viene da credere che Giuseppe Ungaretti sia da mettere nella categoria dei “salvati”, rigenerati dalla poesia, sollevati dalla speranza in Qualcosa che aiuta a sopportare il “male di vivere”, per non naufragare ed essere sommersi dai flutti neri della vita.

La poesia di Quasimodo, oltre che richiamare alla memoria scene realmente vissute da me bambino (la visione di mio padre attaccato al frassino, al posto del palo, per un’intera notte; l’urlo di nonna Caterina di fronte al corpo del figlio riportato alla casa paterna disteso su un carro, un urlo devastante che, per fortuna, io non ho sentito, ma solo raccontatomi da lei, quando una volta le chiesi da quanto tempo soffriva del malanno all’arteria aorta vicino al cuore), mi fa ricordare molti episodi cruenti, tutt’altro che romanzeschi, vissuti in prima persona da Beppe Fenoglio e raccontati in terza con il partigiano Johnny. Questi, nonostante il cambio di formazione (dalla rossa all’azzurra) stenta ancora a trovare quella più a lui soddisfacente. Intanto, come molti altri, da soli o a gruppi, continua a fare la “sua” Resistenza, in modo spesse volte casuale, giorno per giorno, minuto per minuto, senza la visione di un piano strategico generale, senza coordinamento tra le varie forze in campo. Sovente lo vediamo combattere da solo, dopo aver perso uno dopo l’altro i suoi compagni. L’unico scopo è sempre quello di salvarsi la pelle, senza prospettive, quasi sempre alla cieca, senza voglia, però, di passare alla storia con un atto di inutile eroismo. Nonostante tutto, Johnny continua a lottare, anche se scoraggiato, ma mai disperato. Continua a combattere da solo o insieme a pochi altri scarsamente armati come lui, con poche munizioni, con fucili che si inceppano ad ogni momento. Spesso lo vediamo combattere allo scoperto sulle colline prive di vegetazione, disteso nell’erba gelata o in mezzo alla neve. Quando preme inutilmente il grilletto, allora impreca e fa amare riflessioni sulla guerra partigiana fatta in quel modo. Cammina per giornate e notti intere su e giù per le colline delle Langhe con le piaghe ai piedi e lo stomaco vuoto da giorni. A volte si salva per miracolo lasciandosi rotolare a precipizio in un rittano scosceso e cespuglioso o immergendosi nelle acque fredde del Tanaro in periodi tutt’altro che favorevoli ai bagni. Si rifugia in casolari sperduti e aperti ai quattro venti dell’inverno per concedersi qualche ora di sonno che non viene. Anche Biondo, il tenente partigiano che aveva convinto la commissione esaminatrice un po’ perplessa sulla fede politica di Johnny per poterlo ammettere nella formazione dei fazzoletti rossi, la lascerà per quella dei fazzoletti azzurri di Giustizia e Libertà. Ben presto, però, il Biondo, rimasto solo dopo uno scontro con i Nazifascisti, invece di tentare di mettersi in salvo in qualche modo, li affronta faccia a faccia, alla disperata, con ciò che resta nell’ultimo caricatore del fucile mitragliatore e cade crivellato di colpi come uno di quei giovani mazziniani caduti sul Gianicolo nella disperata e vana difesa della Repubblica Romana nel 1849.

La fine del tenente Biondo non è un episodio inventato da Beppe Fenoglio per dare sostanza al suo romanzo, dal momento che le spoglie di un partigiano, con lo stesso nome di battaglia, riposano nel cimitero di Roccadebaldi con il nome di Gino Ghibaudo, morto il 3 marzo 1944 nelle Langhe di Murazzano.

Il romanzo s’interrompe improvvisamente. Johnny sparisce come fosse stato “crivellato” da tutti i suoi dubbi, dalle delusioni per una guerra partigiana che sta volgendo ormai alla fine, ma fra mille incertezze, senza prospettive, né speranze per il futuro dell’Italia. Sparisce all’improvviso, come se non volesse partecipare alla festa finale, agli osanna del 25 aprile. Fenoglio interrompe bruscamente il romanzo forse per non esprimere qualche giudizio negativo molto più esplicito e veritiero di quanto aveva già espresso nella prima stesura del romanzo, lasciato senza la parte conclusiva, che in quei tempi sicuramente non sarebbe stata accetta dall’opinione pubblica dominante. La morte prematura dell’Autore a 41 anni nel 1963, gli evitò probabilmente l’ostracismo letterario e politico, allora di moda, sempre pronto a calare su chi avesse osato dire la verità o esprimere critiche su quel periodo della nostra storia, sicuramente costellata di tante fulgide luci, ma anche di molte luci fatue e da tante ombre. Per fortuna che i vivi non amano rimestare nelle ceneri dei morti, anzi qualcuno arriva anche a mettere ipocritamente qualche fiorellino sul “cenere muto”, già messo, però, a tacere da vivo. Comunque sia, oggi possiamo tranquillamente dire che la guerra del partigiano Johnny non è sicuramente quella condotta dal suo Capo di Divisione, “sempre abbigliato in sobria splendidezza, corretto e gentile”, che durante un periodo di tregua della guerra partigiana, vede passare scortato da una magnifica autocolonna, in posa statuaria e in piedi dentro una nera Alfa Romeo decappottata con una mitragliatrice (magari già rottamata), posizionata minacciosamente sul cofano. Quel Capo non è certo paragonabile a Johnny o a Bastiàn (anche lui Comandante di Divisione, ma ritto sempre sui suoi scarponi militari consumati per il continuo andare per valli e monti delle nostre Alpi), che una volta, per non essere visto dai tedeschi, rimase in pieno inverno per ore incollato ad una rupe con l’acqua gelida che gli scendeva giù per la schiena, beccandosi una lunga e debilitante bronchite, superata però stoicamente sul campo di battaglia, non certo con brodini caldi e calde coperte presso la mamma Maddalena in quel di Cussanio.

Bastiàn e Johnny non erano partigiani da parate, da guerre psicologiche fatte con l’ostentazione di forza e sicurezza solo apparenti. In questo si assomigliavano come fratelli gemelli. Se si fossero trovati insieme a fare la Resistenza sulle Alpi, penso che si sarebbero intesi a meraviglia e che si sarebbero sicuramente stimati. Magari Fenoglio avrebbe dato un altro taglio al suo romanzo e forse avrebbe anche trovato una conclusione adeguata al suo romanzo autobiografico, senza pretendere di fare un’opera storica, ma solo la ricerca di un nuovo percorso letterario costruito su un evento epocale non ancora ben definito dagli storici, rimasti per molto tempo come accecati dalla luce abbagliante proiettata da una certa parte politica sulla Resistenza.

(Continua)

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