Vivere il declino

C. Sottocornola, Eighties

C. Sottocornola, Eighties, 1981

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Ci sono epoche di tramonto e declino, o di trapasso, in cui tutta una serie di paradigmi e riferimenti si eclissano, lasciano il posto ad altro, semplicemente dissolvono o trasmutano in un indifferenziato indeterminismo – morale, estetico, valoriale, sociale (e persino politico-economico) –, ove i singoli fatalmente si perdono o tendono a perdersi. Lo fu per le popolazioni autoctone, la deportazione e il genocidio di massa degli indios del Centro e Sud America, ad opera dei conquistadores “cristiani” nel XVI secolo, che ne distrussero culture, società e convinzioni; lo fu la Prima Rivoluzione industriale con i connessi fenomeni di abbruttimento delle masse proletarizzate in cui si diffondevano alcolismo, prostituzione e malattie; lo è, senza ombra di dubbio, l’attuale contesto della globalizzazione, dove un mix di crisi economica, fenomeni migratori, mediatizzazione e internazionalizzazione della cultura (che diventa sempre più “pop” – nella accezione però degradante del termine – e consumistica – nel senso di una sua omologazione al rango di merce accatastata negli ipermercati), configura sempre di più lo scenario di una “crisi di civiltà” ormai irreversibile e senza ombra di speranza nel tempo breve o medio, e quindi per i suoi attori attuali.

Noi vediamo lo sfacelo estetico, prima di tutto, dai muri imbrattati delle nostre città ai vagoni ferroviari vandalizzati, dalla sporcizia abbandonata per le strade alle toilette pubbliche che nessuno pulisce più, dagli anziani (e anziane) penosamente vestiti (e truccate) come adolescenti alle adolescenti dall’occhio inespressivo e sovrappeso che passeggiano d’estate in slip e canottiera per le strade del  centro al braccio dei loro genitori. Ma soprattutto assistiamo ad una disfatta etica che passa dalle risse televisive (dove si richiedono capacità circensi e cinismo ad impressionare il pubblico)  alle clientele politiche (dove talvolta è premiata la faccia, la pratica sessuale, l’appartenenza sociale e di corrente, addirittura la mediocrità che non fa ombra…), alla demagogia sociale (che non distingue più vittime, carnefici, valori e disvalori) e talvolta anche  ecclesiale, che in virtù dell’attenzione ai molti e ai più  incoraggia la mediocrità e l’omologazione intellettuale ed etica, personale e di gruppo, disinteressandosi di ricerca spirituale e penalizzando eccellenza, nobiltà, un sentire superiore. Si ribadisce calcisticamente un’appartenenza mentre l’autentica ricerca è snobbata, disattesa e solitamente ignorata da un clero, sempre più appiattito al ruolo di animatore di eventi socio-ricreativi o, al più, caritativi. Cioè sociologo e comunicatore, capace di attrarre consenso e legittimazione dalle masse. Non più teologo e spirituale.  Direi quasi ateo o agnostico. Ma rigorosamente confessionale.

Vi risparmio poi considerazioni sull’andamento del nostro sistema scolastico. Qualsiasi docente dotato di dignità personale e professionale non può che sentirsi sminuito dal ruolo e dalle condizioni in cui è costretto il suo insegnamento, a breve oggetto addirittura di misurazione da parte delle giovani utenze. La parodia degli esami di maturità in Italia ne è un triste apologo. Gli alunni, valutati pochi giorni prima nel corso degli scrutini, vengono rivalutati da una Commissione mista di docenti interni ed esterni alla scuola, la cui preoccupazione prevalente finisce con l’essere quella di confermare sostanzialmente il giudizio precedente, che però non sempre la performance sostiene, e ciò produce equilibrismi inverosimili e talvolta ingiusti. Tanto più che dalle massime autorità scolastiche giungono continue raccomandazioni sulla questione della benevolenza da usare, dell’incoraggiamento da offrire, della necessaria valorizzazione dello studente che, alla fine, viene trattato come un bamboccio cui si somministra un test tarato per produrre un risultato. Alla fine tutti bravi, tutti contenti, tutto finto. È triste vedere docenti ridotti a zerbini  dei propri studenti, inclini ad evitare conflitto e direttività, vogliosi solo di facili conferme e consenso, usi ad ogni forma di captatio benevolentiae cui famiglie e ragazzi abboccano in modo direttamente proporzionale alla propria ingenuità culturale.

Ma, del resto, la centralità del bimbo sin dalla sua più tenera età, che viene trattato come un “piccolo principe” nel corso di tutta la sua crescita, da genitori solleciti e darwinianamente proiettati su di lui a riempire un vuoto valoriale assoluto, non può che produrre un mostro di narcisismo, fragile e torbido, ma soprattutto egoista e cinico. E ha ragione il mio parrucchiere, quando dice tristemente che solo una guerra potrebbe raddrizzare una generazione persa come questa e ridarle – a partire dall’abisso – lo stimolo per rialzarsi. Ma chi fra questi esseri gentili e indifferenti sopravviverebbe?

Dunque cosa possiamo fare noi, ultracinquantenni che vediamo e viviamo il declino, avendo sperimentato altra età, altro mondo possibile, altre speranze?  Io dico: parliamone. Additarlo, il declino, significa non darlo per scontato. Significa dire che il dente duole. Significa dire che non lo sopportiamo, che non sopportiamo di annegare nella banalità, nella volgarità, nel cinismo, nell’appiattimento di civiltà che ci attraversa, nella bruttezza dello spirito e della mente ottusa. Quando ne parlo ai miei alunni, quando ne scrivo o me ne lamento con le persone care e gli amici, capisco che non sono solo un uomo maturo e malcontento, ma uno spirito che non si è arreso all’oblio della bellezza, alla possibilità del bene, alla speranza per il futuro. E fustigando, e magari suscitando anche qualche odio o incomprensione proprio in quanti vorrei accompagnare ad una consapevolezza più aperta e più alta, adempio al mio compito di testimone di un’età e di una crisi che dobbiamo attraversare a testa alta e con la determinazione di chi sa che un giorno – lontanissimo – la traversata sarà compiuta, noi non ci saremo, ma il mondo sarà – è possibile – migliore.

Certamente non basta stigmatizzare, certamente non basta essere testimoni dell’accusa. Occorre  traghettare il valore. Se Agostino di Ippona non avesse elaborato la sua angosciata, e per certi aspetti angosciante, riflessione spirituale, e se non avesse promosso il passaggio della cultura antica, classica e pagana, al Medioevo cristiano, la nostra civiltà sarebbe stata meno bella e meno intensa, meno ricca la sua arte, più povera la sua filosofia e cultura. Ma lui c’è stato. Non ha tradito la sua missione, il suo tarlo. E noi non dobbiamo tradire il nostro. In un mondo multiculturale, che tendenzialmente rischia, forse per la prima volta, di diventare aculturale sotto un profluvio di merci e messaggi che se non azzerano, senz’altro impoveriscono e ottundono la lucidità e la coscienza, la sensibilità e la volontà degli individui, non dobbiamo lasciarci tentare da una presunta e indifferenziata universalità, che ci trasformerebbe in ibridi senz’anima e senza cuore, ma coltivare la memoria della nostra identità, sviluppare un senso di affinità con quanto di bello e di buono, con quanto di vero hanno prodotto coloro che ci hanno preceduto, dobbiamo coltivare il nostro giardino e, quindi, custodire il nostro territorio. Frequentiamo i grandi poeti del nostro passato, conserviamo e promuoviamo la musica e l’arte, appropriamoci dei tesori della riflessione spirituale dell’Europa cristiana, del suo diritto e della sua civiltà. Ma custodiamo soprattutto l’affetto e la memoria di chi ci ha accompagnato e preceduto (il culto dei “Sepolcri” di foscoliana memoria è quanto di più vitale ed espansivo possiamo immaginare, nel solco che unisce le generazioni e alimenta la crescita in valore e virtù), non consideriamo soltanto il potenziale materiale delle persone care che muoiono, ma l’immensa eredità che ci lasciano in termini di orizzonti spirituali e morali. E trasmettiamola, a nostra volta, a quanti vengono dopo di noi.

La memoria però, facoltà dell’interiorità, non può essere disgiunta dall’amore, facoltà espansiva, che sa muoversi nel tempo e nello spazio, all’insegna della affinità e della simpatia, della condivisione e dell’appartenenza. Consideriamo cioè proprio bello il  mondo che i nostri cari hanno costituito per noi, e quanto ci viene trasmesso, consideriamo quanto in termini di  sforzi e dolore e sapienza è costato, consideriamo quanta dedizione ha comportato il crescerci e consegnarci un patrimonio affettivo e culturale, e forse anche quanta delusione abbiamo potuto generare mancando talvolta le aspettative, e ringraziamo per il dono, per l’esserci trovati qui, in questa intersezione dello spazio e del tempo, in questa isola di senso in cui si esprime l’intelligenza e la benevolenza del tutto… Amiamo questa musica e questa patria, queste case e questi monti, questa gente con questo lavoro, queste possibilità e questi limiti, e così, guardando alla nostra vita come a un immenso tesoro di opportunità, non disprezziamo mai il compito affidatoci, il mondo che anche attraverso di noi viene – ogni giorno – alla luce.

Inaugurazione Mostra “Il giardino di mia madre e altri luoghi”, Hotel Parco Conte, Casamicciola Terme-Ischia (NA), 24 luglio 2014

(tratto da Claudio Sottocornola, “Effatà”, CLD- Marna, 2015)