Sì dolce è il tormento

(da Wikipedia)

Claudio Monteverdi (da Wikipedia)

GABRIELLA MONGARDI

Grazie a un amico ho scoperto tempo fa su YouTube il madrigale Sì dolce è il tormento, un gioiello di Monteverdi-Milanuzzi nell’interpretazione del tenore Rolando Villazòn – che si mette al servizio del testo rivivendolo da dentro, ne sottolinea potentemente la drammaticità, le tensioni interne, e non prevarica su di esso per esibire il proprio virtuosismo…

Prima che dal testo, sono rimasta colpita dalla musica (qui lo spartito): una melodia in ritmo ternario di una semplicità e linearità assoluta, che prima s’innalza e poi discende in modo estremamente graduale, ribattendo spesso la stessa nota. La melodia introduce le parole, poi accompagna il canto evidenziando la suddivisione delle strofe in due parti (4 versi a rima a-b-a-b + 6 a rima c-c-b-d-d-b, tutti senari) e obbligando a ripetere ogni parte due volte; l’intermezzo strumentale dopo la seconda strofa mette in risalto la scansione del testo in due tempi; quello dopo la terza strofa è un accorato lamento, quasi un compianto sulla morte annunciata. Sublime Claudio Monteverdi!

Ma sublime anche lo sconosciuto frate agostiniano Carlo Milanuzzi, che dimostra come si possa creare un capolavoro così struggente ricombinando insieme le tessere più logore della tradizione letteraria. Per “tessere” intendo sia le singole parole, tutte appartenenti al codice del petrarchismo, sia le metafore, le antitesi, gli ossimori, sia la situazione che viene cantata, cioè l’amore non corrisposto, l’antitesi “madre” di tutte le altre: tutto, tutto risale a Petrarca e ai suoi primi imitatori, i poeti petrarchisti rinascimentali. Ad esempio, il bellissimo verso iniziale Milanuzzi l’ha “rubato” a Baldassar Castiglione (quello del Cortegiano e della “sprezzatura”), mentre le ultime due strofe derivano dalla canzone petrarchesca Chiare, fresche et dolci acque… Ma andiamo con ordine, seguendo passo passo il testo.

Sì dolce è ‘l tormento
Che in seno mi sta,
Ch’io vivo contento

Per cruda beltà.
Nel ciel di bellezza
S’accreschi fierezza
Et manchi pietà,
Che sempre qual scoglio
All’onda d’orgoglio
Mia fede sarà.

La speme fallace
Rivolgami il piè
Diletto né pace

Non scendano a me:
E l’empia ch’adoro
Mi nieghi ristoro
Di buona mercé:
Tra doglia infinita
Tra speme tradita
Vivrà la mia fé.

Per foco e per gelo
Riposo non ho,
Nel porto del Cielo

riposo haverò.
Se colpo mortale
Con rigido strale
Il cor m’impiagò,
Cangiando mia sorte
Col dardo di morte
Il cor sanerò.

Se fiamma d’amore
Giammai non sentì
Quel rigido core

Che ‘l cor mi rapì,
Se niega pietate
La cruda beltate
Che l’alma invaghì,
Ben fia che dolente,
Pentita e languente
Sospirimi un dì.

Nelle prime due strofe l’opposizione uomo innamorato / donna indifferente genera due campi semantici ben precisi, oserei dire due polarità: l’uomo soffre senza speranza, ma con dolcezza e fermezza, si sente uno “scoglio”, irremovibile nella sua “fede”, nella fedeltà al suo amore; la donna è bella, ma fiera, orgogliosa, crudele, senza pietà, addirittura “empia” perché non corrisponde all’amore dell’uomo, non gli concede la desiderata “ricompensa”. Originale l’uso dei congiuntivi presenti con valore concessivo, per ribadire la costanza dell’uomo nel suo amore (“per quanto la donna, cielo di bellezza, sia sempre più fiera e meno pietosa…, per quanto gioia, pace e speranza fuggano via da me… io sarò fedele ad oltranza, sarò una roccia…”); molto originale anche la metafora “cielo di bellezza”: barocca ma non troppo.

Qualcosa succede tra la seconda e la terza strofa, una svolta, un brusco cambio di direzione, da eros a thanatos – diremmo oggi. Forse la “doglia infinita” è diventata intollerabile, ha perso la dolcezza che la rendeva vitale, è diventata mortale. Sembra che il poeta si ripieghi su se stesso, tutto concentrato sulla sua sofferenza che non conosce tregua (“riposo non ho”), sulla “piaga” che il “rigido strale” d’amor gli ha procurato; potrebbe addirittura meditare il suicidio, cercando nel “riposo” della morte e nel suo “dardo” l’unico modo per “sanare il core” lacerato da irriducibili contraddizioni. E diventa in un certo senso vendicativo: sulle orme di Petrarca, annuncia che la donna, “dolente, pentita e languente”, piangerà sulla sua tomba, proiettando in un futuro impossibile la soddisfazione (postuma) del desiderio di reciprocità, la fine dell’antitesi, della contrapposizione amante/amata.

Dal punto di vista ritmico-fonico, il pregio di questo testo è la musicalità che Milanuzzi, lui stesso compositore e organista, conferisce alle strofe grazie ai versi tronchi, cambiando a ogni strofa la vocale del troncamento. La prima strofa è dominata dal suono aperto della a, la seconda da quello intermedio e chiaro della e, la terza dal suono più scuro della o e l’ultima da quello acuto, straziante della i, con una perfetta corrispondenza tra forma e contenuto.

E così ritorniamo alla Musica – che è tutto, abbraccia tutto, dà senso a tutto, rende “dolce” qualunque “tormento”…