In memoria di Sylvia Plath

Marilena Morano

dipinto di Marilena Morano

Ricorre nel 2013 il cinquantesimo anniversario della morte di Sylvia Plath, poetessa americana di origini tedesche. Nata a Boston nel 1932, perde il padre a otto anni, subendone un profondo trauma. Dopo la laurea, vince una borsa di studio a Cambridge, dove conosce e poi sposa il poeta inglese Ted Hughes, a cui darà due figli. Dopo pochi anni di insegnamento (in America e a Londra) rinuncia alla carriera universitaria per dedicarsi interamente alla poesia. Nel 1963, poco dopo la separazione dal marito, si suicida.

Per ricordarla, Margutte ne propone due poesie.

Specchio

Sono d’argento e sono preciso. Non ho pregiudizi.
Tutto ciò che vedi immediatamente lo ingoio
Così com’è, non offuscato da amore o avversione.
Non sono crudele, solo sincero –
L’occhio di un piccolo dio, con quattro angoli.
Passo il tempo a meditare sul muro davanti.
È rosa, a chiazze. L’ho guardato così tanto
Che penso sia una parte del mio cuore. Ma vacilla.
Facce e buio ci separano ripetutamente.

Ora sono un lago. Una donna si piega sopra di me,
Cercando nei miei fondali ciò che lei è veramente.
Poi si volge verso quelle bugiarde, le candele e la luna.
Vedo la sua schiena e la rifletto con cura.
Lei mi premia con lacrime e un’agitazione di mani.
Sono importante per lei. Viene e va.
Ogni mattina è la sua faccia che sostituisce il buio.
In me ha annegato una ragazzina, e in me una donna vecchia
Si erge contro di lei giorno dopo giorno, come un pesce terribile.

(traduzione di Silvano Gregoli)

Tulipani

I tulipani sono troppo eccitabili, è inverno qui.
Guarda come tutto è bianco, quieto, fermo nella neve.
Sto imparando la quiete, distesa tranquilla vicino a me stessa
Come la luce giace su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; non ho nulla a che vedere con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e i miei abiti da giorno alle infermiere
E la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.

Hanno appoggiato la mia testa tra i cuscini e il risvolto del lenzuolo
Come un occhio tra due palpebre bianche che non vogliono chiudersi.
Stupida pupilla, deve per forza assorbire tutto.
Le infermiere passano e ripassano, non sono un problema,
Passano come passano sulla terra i gabbiani con le loro cuffie bianche,
Facendo le cose con le mani, una uguale all’altra,
Ed è impossibile capire quante siano.

Il mio corpo è per loro un ciottolo, lo curano come l’acqua
Fa con i ciottoli che deve superare, lisciandoli dolcemente.
Mi danno torpore nei loro aghi lucidi, mi danno sonno.
Ora ho perso me stessa e sono nauseata dal bagaglio –
La mia valigetta di finta pelle come una scatola da medicine nera,
Mio marito e mio figlio che sorridono dalla foto di famiglia;
I loro sorrisi si appigliano alla mia pelle, piccoli uncini sorridenti.

Ho lasciato andare le cose, una nave da carico di trent’anni
Che si aggrappa caparbia al mio nome e indirizzo.
Mi hanno ripulito delle mie associazioni amorose.
Spaventata e spoglia sul carrello col cuscino di plastica verde
Ho guardato il mio servizio da tè, le cassettiere di biancheria, i libri
Affondare lontano dalla vista, e l’acqua m’è passata sul capo.
Sono una suora adesso, mai stata più pura.

Non volevo fiori, volevo solo
Giacere con le mani girate in su e assolutamente vuote.
Che libertà, non avete idea quanta libertà –
La quiete è così grande che ti abbaglia,
E non chiede nulla, una targhetta col nome, qualche ninnolo.
È ciò che i morti portano a termine, infine; li immagino
Che serrano la bocca su di essa, come la pasticca della Comunione.

I tulipani sono per cominciare troppo rossi, mi fanno male.
Anche attraverso la carta da regalo li sento respirare
Leggeri, attraverso le fasce bianche, come un infante orribile.
Il rosso parla alla mia ferita, corrisponde con essa.
Sono subdoli: sembrano galleggiare, sebbene mi schiaccino,
Mi sconvolgano con le loro lingue repentine e il loro colore,
Una dozzina di pesi di piombo intorno al mio collo,

Nessuno mi ha guardato prima, ora sono guardata.
I tulipani si girano a me, e la finestra dietro di me
Dove una volta al giorno la luce lenta si allarga e lenta s’assottiglia,
e mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra ritagliata nella carta
Tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
E non ho volto, ho voluto cancellarmi.
I tulipani vividi mangiano il mio ossigeno.

Prima che arrivassero l’aria era abbastanza calma,
Veniva e andava, respiro dopo respiro, senza seccature.
Poi i tulipani l’hanno riempita come un rumore intenso.
Ora l’aria spinge e vortica loro intorno come un fiume
Spinge e vortica intorno ad un motore sommerso rosso di ruggine.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
Di giocare e riposare senza impegno.

I muri, anch’essi, sembrano scaldarsi.
I tulipani dovrebbero stare dietro le sbarre come animali pericolosi;
Si aprono come la bocca di un qualche grande gatto africano,
E mi accorgo del mio cuore: si apre e chiude,
La sua ciotola di rosso fiorisce per puro e semplice amore di me.
L’acqua che assaggio è tiepida e salata, come il mare,
E viene da un paese lontano come la salute.

(traduzione di Silvia Pio)

foto di Bruna Bonino

foto di Bruna Bonino