Spaccapietre, un film italiano

spaccapietre

Un’auto-intervista a Gianluca De Serio, regista insieme al fratello Massimiliano del film Spaccapietre, uscito nel 2020 e presentato alla Biennale di Venezia.

GIULIANA MANFREDI (a cura)

Cosa davvero, nel profondo, vi ha spinto a realizzare Spaccapietre?

Credo, a conti fatti – e guardando indietro ai momenti in cui è nata l’idea della sceneggiatura -, che il motivo vero, intimo, che ci ha spinto a scrivere la storia di Giuseppe e Antò sia stato di ordine più spirituale.

Era il settembre del 2015 e ci trovavamo in Ucraina, nella penisola di Biruchiy, a fare una residenza d’artista. Dovevamo semplicemente stare lì, mangiare, bere, dormire e pensare a un nuovo lavoro. Insomma, quella condizione di ozio creativo assoluto, ideale per gli artisti in crisi di ispirazione. Camminavamo lungo la bellissima spiaggia vuota, attraversata solo dal volo di stormi di gabbiani, quando abbiamo letto la notizia della morte di Paola Clemente, giovane bracciante pugliese che lavorava sotto caporale.

La memoria è andata subito a nostra nonna Rosa, bracciante pugliese come Paola Clemente, e morta anche lei in seguito al lavoro nei campi, ma nel 1958. Paola e la nonna, due figure uguali ma distanti nel tempo, ci parlavano di un’Italia che non è cambiata, che conosciamo, ma che non abbiamo mai “visto” davvero. Per questo ci è nata l’idea di scrivere una storia che potesse essere un modo per (ri)conoscere finalmente nostra nonna, che aveva 35 anni quando è mancata, per compiere, insomma, una specie di viaggio sciamanico alla ricerca dei pezzi esplosi della sua anima, per poi ricomporli, guardarla finalmente negli occhi e inchinarci a lei.

Ci sono degli elementi nascosti nel film che ci parlano della vostra vicenda familiare?

Sì, pur non essendo il centro del lavoro, ma l’ispirazione e la guida, la storia della morte di nostra nonna entra sotto pelle e riaffiora in piccoli indizi, dettagli, che compongono una sorta di costellazione di riferimenti. È un modo per noi molto personale e segreto per ancorarci maggiormente al film, per sentirlo “nostro”.

Il bambino protagonista, figlio di Angela e Giuseppe, si chiama Antò, diminutivo di Antonio, il nome di nostro padre. E ha la sua stessa età che aveva quando è morta sua mamma: dieci anni. La protagonista femminile si chiama Rosa, come nostra nonna. La scelta di questo nome naturalmente è un tentativo di dare un’immagine a una donna di cui non abbiamo niente, se non una piccola foto, degli anni ’50, in bianco e nero, ma ridisegnata un poco sopra, come si usava all’epoca. Forse anche per questo abbiamo scelto un’attrice molto “fisica”,che potesse comunicare col corpo, come Licia Lanera. Avevamo bisogno di dare un corpo a un’anima.

Nostro nonno paterno si chiamava Giuseppe, proprio come il padre di Antò, e faceva anche lui lo spaccapietre nel paese da cui provenivano, Ascoli Satriano, in provincia di Foggia. Alla morte della moglie, poi, è emigrato a Torino con i suoi cinque figli, dove ha fatto l’operaio alla Fiat. Siccome era comunista, fu schedato e messo nel reparto zero, dove venivano parcheggiati gli operai più pericolosi, per essere neutralizzati politicamente. Sulla tomba del nonno di Antò, invece, nel cimitero del paese, c’è la foto di nostro nonno Giuseppe. Quella preghiera laica che padre e figlio fanno in quella scena fondamentale, è per noi un omaggio a nostro nonno e alla sua storia, ai valori di lotta e dignità che ci ha tramandato.

Parlaci meglio di questa eredità e di come ha influenzato il vostro lavoro.

Nostra nonna Rosa era una giovane lottatrice. Bracciante, aveva occupato le terre e fondato la camera del lavoro del paese. Era comunista e anche cristiana. Al funerale, suo marito e i suoi compagni di lotta si stavano dirigendo verso la cattedrale con le bandiere del Partito Comunista, quando il vescovo del paese li fermò e disse alla famiglia di scegliere: o le bandiere rosse, o il funerale cristiano. La famiglia decise per le bandiere e nostra nonna fu scomunicata. Uccisa nel corpo dallo sfruttamento nel lavoro, e nell’anima da una Chiesa lontana dalla sua gente. Per i suoi figli, però, rimase un esempio, anzi agli occhi di nostro padre divenne quasi un’icona. Fin da quando eravamo piccoli, ci raccontava la sua storia, le sue lotte, l’attenzione ai più deboli. Anche lui, nel suo piccolo, ha fatto sempre del volontariato e si è battuto nel quartiere di Torino dove abbiamo sempre vissuto – una zona periferica piena di problematiche – nella lotta al disagio, sopratutto giovanile. Tutto ciò ci ha influenzato tantissimo, tanto che quasi inconsciamente ci siamo messi a fare film che, a bene vedere, sono tutti ritratti di persone che vivono ai margini della società, o di comunità interstiziali che lottano per la propria sopravvivenza. Dai bambini di strada di Ouagadogou (nel documentario Bakroman), agli immigrati clandestini a Torino (nei corti Maria Jesus, Mio fratello Yang, Zakaria), dalle famiglie di rom sbaraccate (ne I ricordi del fiume), ai rifugiati politici somali (il film-installazione Stanze, poi diventato spettacolo di teatro e anche libro) o i profughi tamil vittime del genocidio in Sri Lanka (la mostra di video-installazioni No fire zone), per citarne alcuni. In generale il nostro sguardo è sempre stato puntato su queste identità sradicate, in cui ci riflettiamo e in cui riconosciamo la crisi della società contemporanea. In Spaccapietre questo sguardo se vogliamo politico si mescola a una dimensione più spirituale, come era già in Sette opere di misericordia, il nostro primo film di finzione.

Nonostante il film sia un’immersione nella cronaca e nei drammi della società italiana di oggi, ci sono riferimenti anche alla mitologia e alla fiaba. Mi puoi parlare di questi aspetti?

C’è in Spaccapietre una tensione che definirei archeologica, nel senso che ci invita a guardare indietro – nel passato – e dentro – in profondità. A partire dal viaggio agli inferi che compiono Giuseppe e Antò, che in un certo senso rimanda al viaggio che fa Orfeo nell’Ade per riprendersi Euridice. La promessa che il padre fa al figlio di riportargli sua madre è naturalmente impossibile da mantenere nel piano della realtà, della logica causa-effetto che governa questo mondo lineare, che non può che andare avanti spesso a discapito di una reale comprensione delle cose. Allo stesso tempo, questa assurda promessa si può realizzare se si compie un percorso con lo sguardo. Un andare dentro per vedere oltre, nell’aldilà: inteso sia come after life, sia come mondo sommerso, e quindi invisibile. Il tema della vista è centrale, proprio come nel mito orfico. Qui è al centro del percorso di consapevolezza, ed è declinato in diversi modi: Giuseppe è cieco da un occhio (come nostro nonno Giuseppe!), mentre suo figlio grazie al suo binocolo giocattolo vede anche là dove sembra impossibile vedere. Il padrone, poi, che è una sintesi della perversione del potere, esercita la sua violenza proprio con lo sguardo, e attraverso lo sguardo gode, ma è un autoerotismo che non arriva mai ad un amplesso. In questo gioco di forze, la palla passa allo spettatore, che vorremmo fosse alla fine capace di vedere – chiaramente – la madre di Antò.

La fiaba è invece per noi il riferimento a un linguaggio “assoluto”, dove le sfumature sono interiori e appartengono al terreno del mistero, mentre fuori è tutto netto: il male esiste ed ha un nome, così come il percorso per sconfiggerlo è chiaro, basta solo riconoscere le tracce. Ecco che così abbiamo l’eroe (e anche una specie di ironico supereroe), gli aiutanti, gli antagonisti. C’è anche l’animale il cagnolino Stella, che come uno spirito-guida porta Antò da un mondo all’altro e lo fa incontrare con Rosa e la realtà della morte di sua mamma. E poi c’è il fantastico, o meglio, l’ostinata credenza in un mondo altro, che solo nel cinema può avere una sua realizzazione.

Cosa vi ha guidato nella scelta degli attori e delle attrici?

Giuseppe doveva essere un gigante fragile, capace di implodere, tenere tutto dentro, per poi esplodere. E Salvatore Esposito era perfetto per questo ruolo, fin da subito abbiamo pensato a lui.

Il bambino invece l’abbiamo cercato a lungo, incontrando centinaia di bambini in tutta la Puglia. Samuele l’abbiamo richiamato ad ogni tornata di casting, e ogni volta era perfetto, la pietra di paragone con la quale giudicavamo gli altri. Alla fine non potevano non scegliere lui. Ha una memoria incredibile e una capacità di gestire il set straordinaria, degna di un attore navigato. Non abbiamo mai rifatto un ciak per colpa sua, ma sempre per errori nostri.

Poi c’è Licia Lanera, che conoscevamo per i suoi lavori di attrice e drammaturga di un teatro contemporaneo molto corporeo e di fortissimo impatto emotivo. Al provino le abbiamo chiesto di raccontarci cos è per lei la morte. Lei si è messa a camminare in circolo per un quarto d’ora nella stanza, raccontandoci la sua prima esperienza di contatto diretto con la morte. Alla fine piangeva. L’abbiamo scelta subito.

Volevamo, inoltre, che il piccolissimo Antò si trovasse un mondo di orchi, come in una fiaba nerissima. Le figure imponenti e distorte di Vito Signorile (il padrone) e Giuseppe Loconsole (il caporale) erano i perfetti cattivi. Alti più di un metro e novanta, tratti espressionistici, assoluti, quasi paradigmatici come lo è il male nell’inferno del caporalato.

Per contro la mamma, Antonella Carone, ha una bellezza iconica ed eterea, che si imprime nella memoria. Ed è la funzione che doveva assumere all’inizio del film: un’immagine-guida.

In genere abbiamo comunque voluto mescolare le carte, con attori presi dal teatro classico e di ricerca, divi della serialità televisiva, attori non professionisti e altri invece con lunga esperienza. Per noi l’incontro con gli attori è una sorta di riscrittura del film, che ha a che fare con la sorpresa di vedere come i loro corpi vestono la sceneggiatura che abbiamo scritto, e rimaniamo sempre aperti ad eventuali strappi nei tessuti, a cuciture e vestizioni inedite, slabbrature. In questo caso il mix è stato esplosivo e ha dato vita a combinazioni mai scontate.

Su cosa state lavorando in questo periodo?

Stiamo scrivendo una sceneggiatura che affronterà il tema della nostra identità, come italiani, guardata però attraverso i buchi neri della nostra stessa storia. In particolare sarà un viaggio in un fatto realmente accaduto all’epoca del colonialismo italiano.

https://www.filmitalia.org/it/film/121335/
http://www.lasarraz.com/spaccapietre/?from=produzioni