Bene

C.Sottocornola, Il giardino di mia madre

C.Sottocornola, Il giardino di mia madre

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Il bene e l’ente si identificano secondo la realtà, ma differiscono secondo il concetto. Eccone la dimostrazione. La ragione di bene consiste in questo, che una cosa sia desiderabile. Infatti Aristotele dice che “il bene è ciò che tutti desiderano”. Ora è chiaro che una cosa è desiderabile nella misura in cui è perfetta, infatti ogni cosa tende alla propria perfezione. Ma una cosa è perfetta in quanto è in atto, e così è evidente che una cosa tanto è buona quanto è ente; l’essere infatti è l’attualità d’ogni cosa. E così si dimostra che il bene e l’ente si identificano realmente; ma il bene esprime il concetto di appetibilità, non espressa dalla nozione di ente”.

Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I, q. 5, a. 1 co.

 

Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.

Genesi, 1,31

 

A che servono i valori se non ho da mangiare?

Sofia Vanni Rovighi, nel suo corso di Istituzioni di Filosofia all’Università Cattolica di Milano (era il 1978-79), amava ripetere: “Chi rinuncerebbe ad avere un Leopardi, nella Storia dell’umanità, a favore di un sia pur bravissimo calciatore?”. La trovavo – quella donna sapiente e totalmente dedita alla sua missione – un po’ dura in questa affermazione, ma era una provocazione con cui lei voleva sottolineare i valori “dello spirito” su quelli “del corpo”. Era una semplificazione – e lei stessa lo riconosceva – che ovviamente non teneva conto del fatto che anche un calciatore è un essere “spirituale” e che, magari, l’arte e la tecnica del calcio sono per lui e per il suo pubblico uno strumento di elevazione, per l’appunto, anche “spirituale”.

E tuttavia ciò serve a porre il problema di che cosa è bene o, anche, meglio.

Intanto, a rigore, anche un pugno sferrato è, in qualche modo, un “bene”, in quanto indicatore di energia, forse, probabilmente, salute e vigoria fisica, magari, lucidità e dinamismo intellettuale. Può essere un “bene” anche maggiore se, in condizioni di autodifesa, ci salva la vita o la salva a qualcun altro. Appare un “bene” assai minore se è frutto di intemperanza o esito della collera. In tal caso è un “bene” talmente relativo e minimo, da configurarsi nel più ampio assetto dei dati o comportamenti possibili come un “male”, cioè come un bene talmente irrisorio nella scala dei possibili valori correlati, da apparire più vicino al nulla, o meglio, a quel non-essere che Agostino vedeva nel male come forma di privazione, come carenza d’essere. Alla collera sarebbe preferibile la riflessione, la mediazione, il dialogo, il perdono.

Faccio sempre osservare ai miei alunni, quando intendo sottrarli al comodo alibi intellettuale che tutto si equivale (moralmente, esteticamente, gnoseologicamente, ontologicamente…), che è l’esperienza stessa, la fenomenologia del vivere, che ci dichiara essere migliore la cura all’indifferenza e al cinismo, la benevolenza all’aggressività e alla maldicenza, la solidarietà al più gretto egoismo. E dico: “Se uscendo da quest’aula al suono della campana, trovaste chi vi insulta e percuote, al posto di chi vi saluta cordialmente, e se invece di trovare i corridoi puliti e gli autobus ad aspettarvi, trovaste i luoghi imbrattati e i servizi pubblici fuori servizio, vi accorgereste subito di come non ogni dato, non ogni comportamento, non ogni evento si equivalga!”. No, non è la stessa cosa “condurre i popoli o ubriacarsi in solitudine” (come voleva provocatoriamente Sartre), anche se non ci è dato sapere del cuore di chi si ubriaca e di chi conduce (il Regno dei cieli è dei più piccoli…).

Dunque, da un lato il bene è dovunque: anche in un sacco della spazzatura, che può essere riciclato e produrre altri beni. Ma vi sono priorità fra i beni, riconoscendo le quali (basta affinare lo sguardo fenomenologico) è possibile condurre una vita karmicamente positiva (direbbero gli orientali) o “buona”, come diciamo noi.

Diffidate sempre di chi spacca il bene – e i valori in genere – con l’accetta. Modelli, valori, princìpi e comportamenti non si assumono come diktat formali e immediati, ma crescono dentro di noi come il tronco, i rami e le radici degli alberi, che cercano luce e sali minerali spingendosi nelle direzioni loro possibili. La storia, documentata da un servizio giornalistico della televisione italiana, di un ragazzino sudamericano che spacciava droga per mantenere il fratellino più piccolo è emblematica: dove è la colpa e dove è la virtù? Quando seguivo negli Stati Uniti un corso di Scienze Comportamentali, mi stupiva che la nostra brava insegnante di origine polacca, Rita Sarnowski, ci invitasse a un “gioco dell’oca” in cui, alla fine, era chiaro che se il punto di partenza fosse stato il “ghetto nero” delle metropoli americane di allora (gli anni ’70), il punto d’arrivo offriva poche alternative fra criminalità e galera, marginalità e violenza, ecc…

È quindi volgare e malinconico lo stereotipo che divide il bene, quello magari dei giovani middle-class, dei papa-boys e degli eterosessuali, dal male degli sbandati, dei senzatetto, degli alcoolisti, dei drogati o degli omosessuali…

Gesù di Nazareth, che continua a ispirare molti di noi, forse sarebbe stato dalla parte dei secondi. Il bene è – come la bellezza – una relazione, e anche se oggi soffriamo proprio della difficoltà a stabilire ordine, gerarchia, diversa intensità del valore, e del bene in particolare, ciò non toglie che tale relazione è – de facto – ermeneutica, non può che essere valida e vera che “per me” ora.

Che cosa mi interessa sapere che i valori più alti sono quelli “dello spirito”, se non ho da mangiare e da bere, se non ho medicine e pulizia, se nessuno mi educa e accudisce? Bene – per me – e sommo bene – è solo il cibo che mi nutrirà, l’acqua che finalmente potrò bere e il gesto fraterno di chi mi accudirà… Kant, Gesù di Nazareth o il Dalai Lama verranno poi…

Dunque – anche se per me è quasi inconcepibile – è bene per il giovane indiano all’angolo della strada vendere le sue rose di stoffa, così come è bene per me scrivere queste righe e per altri scalare una montagna… o fare una passeggiata col bastone.

Evidentemente, ciò che è bene in un dato tempo “per me”, sarebbe male in un momento successivo, come, per esempio, perdere il mio tempo di cinquantenne a giocare con le biglie o a guardare certa televisione.

Allora anche la questione così dicotomica di “salvezza” o “dannazione”, che un certo modo di intendere la tradizione cristiana ci ha abituati a percepire in modo un po’ estrinseco e dualistico, è forse più complessa e insieme semplice, ovvia, scontata. Insomma, noi abbiamo dentro, come i tronchi degli alberi, i cerchi che testimoniano e denunciano il tempo vissuto, e forse ogni cellula del nostro corpo, che materializza la nostra energia, è carica di tale vissuto. Come non pensare che ciascuno di noi si plasma, struttura, scolpisce, dandosi una forma sempre più determinata, una x, un quoziente di valore, che alla fine sarà il suo destino? Certo, è innegabile che – ad ogni momento – conta la direzione che stiamo a prendere: camminare verso un baratro o in direzione contraria non è irrilevante. Ma alla fine la scelta della direzione è pure frutto di un vissuto, e fenomenologicamente possiamo nutrire fiducia (una fiducia, quasi naturalistica, in quel logos che molti hanno rintracciato nell’ordine delle cose – oltre che nel Dio della salvezza) che l’esito del nostro vivere sarà conseguente alla sua qualità, certamente non mondana, ma intrinseca.

Così, io mi auguro l’inferno vuoto, come qualcuno teorizza, e che un po’ tutti siamo “salvati”. Ma la “misura” di tale salvezza, che di per sé è all’origine – come tutto il nostro vivere ed essere – grazia, cerchiamo di fare in modo che sia adeguata alle nostre possibilità, non sprecando il bene che siamo, e che possiamo attuare.

(tratto da Claudio Sottocornola, “I trascendentali traditi”, CLD-Velar, 2011)