Il frutteto dei poeti

galina-Chirikova frutta

ATTILIO IANNIELLO

Quando guardando vecchie fotografie della nostra campagna vediamo file di gelsi specchiarsi in gorgoglianti bealere, ergersi fieri a difesa di confini di campi, quando vediamo alberi di frutta dove ora impera solamente il mais, ci chiediamo se forse non abbiamo perso qualcosa non solo nel paesaggio, che rimane comunque tuttora affascinante, ma nel profondo della nostra rurale e ambientale anima comunitaria.

Il rapporto dell’uomo con la frutta è ancestrale. L’Eden primordiale contiene «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» (Genesi 2,9) e la frutta condivisa racconta la pace della vita sobria, come traspare nelle parole che Titiro rivolge a Melibeo per invitarlo a fermarsi da lui nell’ora del tramonto: «Ho mele mature, castagne molli e formaggio abbondante, e già di lontano fumano i tetti delle cascine e più grandi scendono dagli alti monti le ombre» (Virgilio, Bucoliche, Egloga I).

La bellezza dei frutti può diventare metafora come nei seguenti esempi: per descrivere i colori di un dipinto Virginia Wolf scrive che il quadro aveva qualcosa «di roseo e morbido, di splendente e tenero, come le albicocche pendenti da un muretto di mattoni nel sole pomeridiano»; e nella mistica erotica biblica del Cantico dei Cantici il Verbo divino appare
«Come un melo tra gli alberi del bosco,

Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo
e dolce è il suo frutto al mio palato».

Spesso sono i poeti a ricordarci il valore non solo nutraceutico dei frutti. Come non ricordare i limoni di Montale:
«quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità»

o di Neruda:
«un giallo calice
di miracoli,
uno dei capezzoli odorosi
del petto della terra,
raggio di luce convertito in frutto,
il minuscolo fuoco di un pianeta».

Il desiderio del diritto alla vita e alla libertà del susino di Bertold Brecht che vive in un soffocante cortile:
«Che è un susino, appena lo credi
perché di susine non ne fa.
Eppure è un susino e lo vedi
dalla foglia che ha».

Tra le voci poetiche internazionali più conosciute ne troviamo alcune che nei loro versi sembrano aver conosciuto le nostre colline che degradano verso la montagna.
«Mi è cara anche l’uva sui tralci
A filari maturata su un pendio»,
scrive Aleksandr Puskin.
«Bellezza della mia fertile valle,
Gioia d’autunno dorato,
Affusolato e diafano,
Come le dita di una tenera fanciulla».

E tra le vigne gli estesi meleti sembrano ispirare Pablo Neruda che ne “L’Ode alla mela” spera in una fraternità universale:
«Io voglio
un’abbondanza totale,
la moltiplicazione
della tua famiglia,
voglio una città,
una repubblica,
un fiume Mississippi
di mele,
e alle sue rive
voglio vedere
tutta la popolazione
del mondo
unita, riunita,
nell’atto più semplice che ci sia:
mordere una mela».

Ed alla mela renetta Giovanni Papini dedica alcuni versi:
«Mela renetta che mordo,
in questo riposo di festa,
adagio, come un ricordo
di dolcezza manifesta.
Una mi basta: nel gusto
di quell’instante, di quel morso,
rivedo all’ombra oblique del fusto
passare il blu come un chiaro discorso.
[…] Mia tutta, la campagna, in quel sapore
che maturamente si distrugge e si disfa,
mio l’odore, l’afrore
dell’imprecisa immensità» (da “Opera prima” 1917).

L’immagine della mela si colora di quotidianità e d’amore tra i clamori umani del mercato dei contadini:
Davvero, non scordare
quando vai al mercato di comprare mele in abbondanza,
non quelle d’oro delle Esperidi,
ma quelle grosse e rosse che quando affondi
nella polpa croccante i tuoi splendidi denti resta impresso,
come l’eternità sui libri, pieno di vita il tuo sorriso» (Ghiannis Ritsos, “Diotima”).

Sono solo pochi esempi, e nemmeno i più importanti, della presenza della frutta nella poesia, eppure di fronte alla minaccia della cancellazione dei paesaggi tradizionali, di fronte alla perdita della biodiversità, della cultura di una comunità, occorre ribadire la necessità di salvaguardare e promuovere tutto quello che è stata l’identità culturale e rurale dei nostri territori. Salvaguardia e promozione nell’ambito di una agricoltura sostenibile che ha bisogno della scienza ma anche di poesia e, come scrive il poeta monregalese Ezio Briatore, di «arcobaleni dimenticati da riconquistare» (da “Il mondo in una scatola”).

(Foto di Galina Chirikova)