Allunaggi e rimpianti

luna-1969

MARCO DANIELE

«Sei venuto, alla fine…»

Gli occhi di Natalie Monroe, spenti dalla lunga malattia, tornarono a risplendere per un attimo alla vista dell’ospite tanto atteso che varcava la soglia.

«Potevo dirti di no, mia cara?»

Dietro il suo tono cordiale e l’abbozzo di sorriso, Richard Bennett era tutt’altro che sereno. Odiava gli ospedali, anche quando si trattava di cliniche private di lusso come quella in cui si trovava in quel momento. Odiava l’atmosfera che vi si respirava, la morte che aleggiava in ogni corridoio, in ogni stanza, su ogni volto, tanto dei malati quanto dei dottori e delle infermiere. Odiava la vista della dignità umana offesa e devastata da mali incurabili, contro cui nemmeno le cure più costose potevano qualcosa. Forse, in fondo, odiava essere messo di fronte a una fragilità che in qualsiasi momento avrebbe potuto colpire anche lui. E soprattutto, odiava dover trascorrere in un luogo del genere “quella” notte, ma quando Natalie l’aveva fatto chiamare aveva capito di non potersi esimere da un’ultima visita.

«Vedo che non sei venuto a mani vuote, Dick.»

Debolmente, la donna fece un cenno col mento, in direzione della Porta-Color che Richard reggeva sotto il braccio destro. Era un piccolo e banale gesto, un nonnulla che chiunque avrebbe compiuto senza il minimo sforzo, eppure a quella donna debilitata costava una smisurata fatica fisica.

L’uomo dovette farsi forza per ignorare la stretta al cuore che quella vista gli stava procurando.

«Ho pensato che potremmo vedere la diretta» rispose «Dovrebbe cominciare tra poco, sulla CBS. Sempre che qui ce lo consentano. La signora della reception mi ha rivolto uno sguardo molto poco amichevole quando ha visto cosa portavo…»

«Con tutto quello che spende Edwin per farmi stare qui, direi che sia il minimo lasciarmi guardare un po’ di televisione insieme a te!» scherzò Natalie. Per un attimo abbozzò un sorriso divertito e il suo volto sembrò tornare quello di un tempo, quando era più giovane ma soprattutto in salute: un volto che Richard non vedeva da anni e che lo riportò per un istante a un’epoca felice, lontana, perduta. Ma fu appunto un istante, prima che l’immagine della morte tornasse ad aleggiare sul volto di lei e nell’animo di lui.

C’era una sola presa di corrente nella stanza. Mentre Richard vi collegava il televisore portatile, Natalie lasciò vagare lo sguardo sulla sua schiena, sulla sua nuca, sui suoi capelli che da neri come le piume di un corvo si erano fatti ormai brizzolati. Se non fosse stata confinata in quel letto si sarebbe alzata, sarebbe andata da lui e avrebbe affondato le dita in quella chioma color cenere, come aveva fatto tante volte prima della guerra, prima che le loro strade si separassero.

«Sarà per quello che sta per succedere lassù, ma oggi ho ripensato a tutte le volte in cui guardavamo le stelle insieme» le venne naturale dire. «Usavamo quel vecchio telescopio che ti aveva regalato il professor Farnsteed, ricordi, Dick? Guardavamo la Luna, le Pleadi, la nebulosa di Andromeda…»

«Galassia!» la corresse bonariamente Richard, continuando a darle la schiena.

Fu per questo che non vide il secondo sorriso di Natalie, divertita dalla pignoleria dell’uomo.

«Mi è sempre piaciuto di più il termine “nebulosa”, è così evocativo, così poetico… “galassia” è così scientificamente asettico. Ma avevo dimenticato di avere di fronte nientemeno che Herschel Terzo, grande astronomo di Sua Maestà!»

«Eh, magari!» commentò l’altro, con una certa ironia.

Non che potesse lamentarsi di come era andata la sua vita dopo il ritorno dal fronte: dopo un po’ di necessaria gavetta, era diventato un grande pubblicitario, uno di quelli che contano a Madison Avenue, che trattano con i pezzi grossi sorseggiando scotch whisky e che supervisionano le grandi campagne prendendosi quasi tutto il merito del lavoro di oscuri copywriters. I sogni adolescenziali di fare lo scienziato o l’astronomo avevano fatto presto il loro tempo, e forse era giusto che fosse andata così. O almeno, questo era ciò che Richard si era ripetuto per oltre due decenni, finendo per crederci, perché convincersi di una bugia rendeva la vita meno amara che continuare a inseguire le chimere della giovinezza.

«Ecco, questa piccolina prende il segnale che è una meraviglia!» sentenziò l’uomo, quando finalmente lo schermo si accese.

Si voltò verso Natalie, sorridente come un bambino a cui sia stato appena dato un giocattolo da tempo desiderato. Ella batté dolcemente la mano destra sul bordo del letto, invitandolo tacitamente a sedersi lì, dove il suo corpo smagrito dalla malattia lasciava sufficiente spazio. Era un gesto completamente privo di malizia, l’innocente richiesta di un’anima sofferente desiderosa di una rincuorante vicinanza fisica. Il fugace pensiero di cedere a quella tentazione attraversò la mente dell’uomo, ma fu ricacciato immediatamente indietro e decorosamente rifiutò: «Il signor Monroe sarebbe geloso, temo.»

«Dick, se le cose fossero andate diversamente ci saresti tu oggi al posto del signor Monroe» gli fece notare Natalie.

«Già, è così.»

«E non ti dispiace?»

«Un po’.»

«Un po’?»

Richard sospirò, prima di confessare quello che non avrebbe voluto ammettere nemmeno con se stesso: «Un po’ tanto, a dir la verità. Ma a cosa serve parlare di come sarebbero state le nostre vite se ti avessi proposto di sposarmi prima di partire per il Pacifico o se non mi avessero dato per morto dopo la battaglia di Vella Lavella o se tu avessi aspettato il mio ritorno invece di volare subito tra le braccia di Edwin? È come girare un coltello rovente in una piaga mai guarita, tutto qui.»

«Potrebbe essere anche l’unico modo che mi resta per distrarmi dalla mia attuale condizione.»

Richard pensò subito che si riferisse alla malattia fisica e fu sul punto di farle notare che si sarebbe ammalata comunque, che era destino, ma poi capì e si limitò a ripetere: «Già, è così.»

«Non rimpiango completamente la mia vita, sia chiaro» continuò la donna. «Ma tu sei tu, ed Edwin è Edwin. E mi piace pensare che, se i vostri ruoli fossero invertiti, tu non saresti dall’altra parte del continente a fare affari con qualche magnate californiano. Saresti al mio fianco, Dick.»

Lo disse con un tono a metà tra l’affermativo e l’interrogativo, come se si aspettasse una risposta. Ma Richard non avrebbe saputo cosa risponderle, perché non era sicuro che al posto di Edwin Monroe sarebbe rimasto al fianco di una moglie malata lasciandosi sfuggire un’opportunità economica. Dopotutto, aveva mandato all’aria innumerevoli relazioni ed era arrivato a cinquantadue anni senza mai una moglie o un figlio proprio perché aveva anteposto il lavoro a tutto.

«Io…» balbettò, cercando di prendere tempo per pensare a una risposta.

Si voltò verso l’apparecchio televisivo e ciò che vide gli offrì la scusa perfetta per troncare lì la conversazione: «Sembra che Armstrong stia per mettere piede sulla Luna.»

Natalie indicò la sedia alla propria sinistra: «Accomodati qui. È un evento epocale, merita di essere visto stando comodi.»

Richard la accontentò, mentre sullo schermo si svolgeva una simulazione dell’uscita di Neil Armstrong girata negli studi televisivi, come indicava la vistosa didascalia sottostante “CBS NEWS SIMULATION”. Un silenzio quasi religioso calò nella stanza, rotto soltanto dalla voce del cronista Walter Cronkite che commentava quelle immagini. Un misto di sentimenti cominciò ad agitarsi nei cuori dei due spettatori. Tensione. Curiosità. Orgoglio, al pensiero di essere testimoni di un evento epocale. Felicità, perché erano loro due soli e non avrebbero potuto chiedere compagnia migliore.

Passò un paio di minuti prima che la ricostruzione cedesse il posto alle vere riprese della telecamera esterna al modulo di atterraggio. La qualità era tutt’altro che perfetta, eppure si riusciva a distinguere, in mezzo a tutte quelle ombre e al riverbero della superficie lunare, la figura di Neil Armstrong che scendeva lungo la scaletta.

«È stupendo» mormorò Natalie «Abbiamo il privilegio di guardare un paesaggio alieno. Il privilegio di vedere il primo essere…»

Si interruppe, quasi si fosse resa conto che qualsiasi discorso, persino il più profondo e il più ispirato, avrebbe offuscato la bellezza del momento. Cercò la mano destra di Richard con la propria sinistra e la trovò subito, quasi fosse una calamita. L’uomo ebbe un sussulto ma non si scompose né si ritrasse: le sue dita grandi e calde si strinsero attorno a quelle della donna, che un tempo erano state altrettanto calde e affusolate mentre adesso erano scheletriche e fredde.

Sullo schermo della piccola televisione, intanto, si consumava un momento così paradossalmente banale e insieme epocale. Neil Armstrong aveva posato il suo piede sulla Luna. Non aveva fatto nulla di diverso da quello che facevano ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo miliardi di persone da migliaia di anni: uomini e donne che muovendo un passo dietro l’altro avevano amato, avevano sofferto, avevano coltivato e poi abbandonato sogni di ogni genere, avevano affrontato sfide e malattie, talora vincendo talora soccombendo. Ma l’aveva fatto su un suolo alieno, su un mondo che gli antichi poeti e i grandi astronomi del passato si erano accontentati di decantare, di ammirare, di studiare da lontano. E l’aveva fatto pronunciando una frase che a Richard diede i brividi, tanto era stupenda nella sua semplicità: «Questo è un piccolo passo per l’uomo, un gigantesco balzo per l’umanità.»

«Un piccolo passo per l’uomo…» ripeté Natalie, sorridendo debolmente «Abbiamo assistito al più importante piccolo passo nella storia dell’umanità. Dovremmo sentirci onorati, Dick.»

«Onorati, sì» fece eco Richard.

Ma dentro di sé, il cinquantaduenne pubblicitario di Madison Avenue provava qualcosa di diverso dal sentimento di orgoglio per aver assistito all’allunaggio. Era felice, come mai lo era stato negli ultimi anni, per aver condiviso quella notte storica con Natalie. E nello stesso tempo era triste, perché non poteva ignorare affatto il pensiero che in un’altra vita, in un altro mondo, con un altro corso della storia avrebbe potuto condividere con lei ogni singola notte, ogni singolo giorno.

Si sarebbe perso in chissà quali fantasie di una vita alternativa, se Natalie non l’avesse riportato alla realtà con una semplice domanda: «Resti qui ancora un po’, vero?»

«Tutta la notte, se vuoi» non esitò a rispondere lui. «Sai com’è, non ho nessuno che mi aspetti a casa.»

Le labbra della malata si strinsero, mentre la sua espressione si faceva assorta e seria. «Dev’essere una prospettiva tetra, da un certo punto di vista.»

«Da un certo punto di vista, già» concesse Richard «Ma ci sono anche dei vantaggi. E poi non sono un tipo da relazioni durature: meglio rimanere scapoli che sposarmi e inguaiarmi dopo, con un bel divorzio spillasangue!»

Una breve risata genuina scaturì dalla gola di Natalie. Richard si voltò brevemente verso di lei e vide che non sorrideva soltanto con le labbra ma anche con gli occhi, col volto. Le aveva appena regalato il suo ultimo momento di letizia. Istintivamente, anch’egli sorrise per un istante, prima di tornare a guardare la televisione.

Intanto continuava la diretta della prima passeggiata umana sulla Luna. Buzz Aldrin seguì presto il suo collega e così quella magnifica desolazione, che per miliardi di anni non aveva mai conosciuto il passo o il verso o l’odore di una creatura vivente, nel giro di pochi minuti si ritrovò ad accoglierne ben due.

«Sembrano palombari spaziali» commentò a quel punto Natalie, e nella sua voce debole come un sussurro si poteva cogliere una sfumatura di infantile, genuino stupore. Dopo qualche secondo aggiunse, sempre col medesimo tono: «Sono così goffi, eppure così solenni, a modo loro.  Dev’essere così bello passeggiare sulla Luna, come un palombaro sul fondo dell’oceano… e ammirare da lassù la Terra… hai mai visto la foto scattata durante la missione Apollo 8, quella con la Terra che sorge sull’orizzonte lunare? Immagina come dev’essere bello stare lassù e godere di quella vista dal vivo…»

E continuò a lungo a parlare, elencando tutto quello che avrebbe fatto se fosse stata al posto di Armstrong e di Aldrin, alternando pensieri profondi e poetiche impressioni. Questa volta Richard non disse nulla, non la interruppe mai, non fece il minimo commento. Non voleva rovinare la bellezza di quel momento. Era con la donna che un tempo aveva amato e che in un certo senso aveva continuato ad amare anche dopo averla persa per sempre, le stringeva la mano e intanto si perdeva nelle sue parole, nella sua voce. Anche quando Natalie smise di parlare, pensò che si fosse semplicemente stancata e si stesse fermando per qualche minuto prima di riprendere.

Avrebbe voluto dirle tante cose, ma non lo fece.

Avrebbe voluto dirle che era stato uno sciocco ad arruolarsi come volontario dopo il disastro di Pearl Harbor, invece di rimanere a St. Marys e sposarla.

Avrebbe voluto dirle che era stato il pensiero di lei e del suo amore a tenerlo in vita durante la prigionia in un campo giapponese.

Avrebbe voluto dirle che il pensiero di fermarla prima che sposasse Edwin Monroe aveva fatto più volte capolino nella sua mente, ma vi aveva rinunciato per viltà.

Avrebbe voluto dirle che nell’ultimo quarto di secolo non c’era stato giorno in cui non avesse rimpianto di aver posto un oceano e una guerra tra loro due.

Avrebbe voluto dirle che l’amava ancora, persino in quel letto di morte, ridotta a quell’ombra della donna che era. Anzi, forse l’amava più di prima, più di sempre, nel momento in cui più ella era fragile. Sì, forse questo avrebbe potuto dirglielo.

Si fece finalmente forza.

«Natalie, io ti…»

Le parole gli morirono in gola quando si voltò verso la donna. Dormiva, o almeno così sembrava. Quel volto amabile, che aveva visto deperire e impallidire sotto i colpi di un male incurabile, adesso appariva a malapena scalfito dalla sofferenza fisica, come se fosse ringiovanito di colpo.

Le sue dita erano sempre più fredde, ma Richard continuò a stringerle per un altro minuto, forse persino due, prima di lasciar andare a malincuore la presa, e solo allora si rese conto di aver stretto quella mano più tempo in quell’unica notte che negli ultimi ventisette anni. Ricacciò indietro a fatica una lacrima. Le sfiorò la guancia per un’ultima volta, un’ultima carezza.

«Addio, amore mio.»