I had a dream…

img_20210111_105258 TOMMASO BONI MENATO

Tutte le persone, ne siano o no consapevoli, fanno sogni belli o brutti che siano. Certuni o molti tra gli esseri umani hanno un sogno, magari sepolto in subconsci meandri. Un grande sogno, interrotto da un colpo d’arma da fuoco, ce l’aveva Luther King. Benché I have a dream sia ormai un abusato modo di dire, ora anch’io posso affermare di aver fatto e di avere un sogno… Non che mi senta un leader, ci mancherebbe. Sono sì e no il poco esperto skipper della mia barchetta, che lascio veleggiare dove la porta il vento. Il quale, come ognuno dovrebbe sapere, spira dove e quando meglio gli pare.

È successo tra il 21 e il 22 febbraio, allo scoccare di una qualche ora x giusto sulla mezzanotte: tipo Cenerentola quando fugge via dal Palazzo. Fino a quel momento danzeggiavo anch’io in un palazzo seppure tutt’altro che principesco, senza partecipare a quanto si svolgeva fuori della sala da ballo.

Ed ecco che d’un tratto il salone delle danze – la mia minuscola stanza da letto, nel caso – si riempie di un’inverosimile folla. Volti noti e ignoti, amati o detestati o perlopiù indifferenti, di persone vicine e lontane, di vivi e di morti, di giovani e di vecchi, di alcuni belli e di moltissimi brutti, di poca gente quieta e silenziosa e di tant’altra chiassosa e volgare… La mia stanzetta s’era insomma riempita del mondo, mi piacesse o no. Fatto sta che non era un sogno. O magari sì, ma ad occhi aperti. Gli occhi restavano infatti fissi, come a sincerarsi della realtà della scena, alle pale immobili del ventilatore appeso al soffitto giusto sopra il letto.

E lì, tra tutta quella folla, mi sono sentito invadere dal Tempo. Non soltanto dall’età – il che è quasi ovvio –, ma dalle età: secoli e millenni accartocciati in se stessi.

Fino alla sera precedente ero pur sempre un ragazzo seppure attempato (ah, i domani che cantano!), dal susseguente mattino eccomi diventato un vegliardo. Non un vecchio per via di dissestate articolazioni, rughe, diradanti capelli, dolenti gengive… Questi sono pur segni, come dire?, di inevitabili mutamenti se non di un qualche progresso. Ma qui non si tratta di una peraltro normale decadenza fisica. Ho sentito invadermi non dico dagli anni e neanche dai secoli: ma dai millenni, da geologiche ère coi loro massi erratici e ciottoli via via più levigati e sempre più impalpabili sabbie, con le loro alghe e piante acquatiche e granchi e molluschi e un primo pesce guizzante…

Tutto ciò era davvero troppo per la mia dimensione umana. Al punto dal sentirmene oppresso, e da farmi invocare non so qual dio del sonno che venisse a liberarmi da quel troppo che la mia povera testa e tutto il mio corpo non riusciva a contenere.

Infine quel dio sconosciuto parve decidersi a esaudire la mia troppo umana preghiera. La folla che m’invadeva si ritrasse quietamente, le ère geologiche rientrarono nei ranghi del loro immemore passato, e soltanto rimase una laguna tranquilla sotto il volo radente di ingordi gabbiani e quello alto e silenzioso di qualche a me ignoto stormo migrante. A quel punto, credo di essermi finalmente addormentato.

A vent’anni (sarà stata la più bella età della vita?) ed anche a quaranta (comincia a quarant’anni la vita? e come potrebbe?) mi muovevo più o meno a mio agio – più meno che più – in quell’indistinto intrichìo di pietre e piante e animali e uomini che chiamiamo il mondo. A cinquanta, non mi sono voltato indietro a considerare il cammino percorso, né ho spinto lo sguardo in avanti architettando progetti. Mi lasciavo andare, più o meno sconsideratamente, lungo le cangianti stagioni. A sessanta, ho cominciato ad avvertire certi scricchiolii… Beh, vorrà dire che la fine s’avvicina, mi son detto: è la legge della vita, anche se poi non mi sembra un granché di legge. Ma che farci?

Una cosa è certa. Durante quella notte una parte essenziale di me si è sostituita ad un’altra (a quale non so: al cervello, forse), smettendo di soppesare questo e quello e quell’altro e di separare questo da quello e da quell’altro. Qualcosa si è fermato, diciamo. O meglio, è come se un meccanismo di fondo abbia smesso di funzionare al modo di sempre. “Io” mi limitavo a guardare. No, non per stanchezza, né per vecchiezza. Mi sentivo molto più che vecchio: avevo l’età di Dio. Perciò, è naturale, ero eterno.

Forse lo sono? Chissà. Vedo aprirsi davanti al mio immobile sguardo le acque… di che? del Mar Rosso? Osservo conchiglie fossili sul fondo asciutto. Sto fermo. Aspetto: che cosa non lo so. La Terra Promessa?… bah.

Adesso sii vigile, anima mia. Non farti sedurre da dèmoni travestiti da melodiosi cantori, né da angeli con le loro arpe noiose, non lasciarti incantare da disinvolti profeti. Resta calma, anima mia. Non separare mai più quel che è bene da quel che è male. Ridi di quelli che il mondo chiama peccati, e ridi ancora più forte di ogni pretesa virtù. Non pensare mai più a quel che sarà o non sarà. Tutto È, anima mia.

Oltre tutte le promesse dell’alba e le malinconie dei tramonti, oltre i secoli dei secoli ed ogni èra crudele, ama e ancora ama tutto quel che c’è al mondo, anima mia!

*

Ora sono ripiombato nel Tempo.

È una sera novembrina del 1989, sto davanti a un televisore a guardar picconare il Muro di Berlino. Piango, senza vergogna, irrefrenabilmente: non so se di gioia, per certo di riconoscenza.

Allora mi torna d’un tratto questa lapidaria rivelazione, che si riferisce a esattamente due secoli addietro: La Rivoluzione Francese è potuta accadere solo perché, molto e molto prima nel tempo, un’anima sulle nevi dell’Himalaya aveva sognato Dio come libertà, uguaglianza e fraternità.

Ora che sono ben sveglio (o non ero più sveglio prima?) mi rendo conto che un’affermazione del genere farà fremere d’insofferenza se non addirittura di sdegno gli storici: i quali, come si sa, badano solo ai fatti, e ben documentati per di più. Ma di quel fatto lì, che ne facciamo?

Certo, non ve n’è traccia in nessun consultabile archivio. Tal fatto ha tuttavia lasciato impronte e segni indelebili a volte, a volte solo un inavvertito ammiccare di sincronie, premonizioni, vaghi malesseri…

Nel fatidico (col senno di poi) 1789, un onnipotente sovrano è costretto a indire la convocazione degli Stati Generali… Il resto è ben noto: a partire da un fin troppo celebrato (ora) 14 Luglio. Eppure, alla fine della convulsa giornata in cui vengono abbattute le porte e le mura di una (in seguito) celeberrima Bastiglia, che cosa scrive un Sedicesimo Luigi sul suo puntuale diario? Aujourd’hui, rien lascia scritto a quella data Sua Maestà, in ben ordinata calligrafia.

Di lì a non molto, il poveretto ci rimetterà la testa, come ai più pare giusto. Il Terzo Stato gli succederà al potere, come altrettanto giusto o perlomeno inevitabile sembrerà a molti. Intanto il Quarto già freme impaziente. Ma il popolo (ah, il Popolo!) deve attendere che un Napoleone cavalchi in armi su e giù per l’Europa mettendola giustamente a soqquadro, aprendo in tal modo le porte all’epoca di mutamenti frenetici che poi chiameremo la Modernità.

Qualche decennio ancora, e ci immergeremo nel bagno d’esaltazione e di sangue della Comune parigina, e poi via con un Lenin che arringa le masse e con uno Stalin che le spedisce nei gulag… E poi via nella Lunga Marcia di Mao che sventola il Libretto Rosso, ecco Fidèl coi suoi barbudos e il Che dal basco stellato, ecco Pol Pot che ghigna a milioni di crani antirivoluzionari, ecco Khomeini col minaccioso dito alzato a indicare la spietata Legge di Allah, ecco poi e poi ancora…

Fin dai tempi di Spartaco e di quel manipolo di schiavi ribelli, non c’è stata una sola rivoluzione che non sia stata repressa sul nascere o non sia stata presto tradita da coloro stessi che l’avevano avviata, non una sola che non abbia infine divorato i propri figli. Eppure è attraverso grandi e tragici fallimenti che l’umanità avanza. Verso che cosa?… Non lo sappiamo.

Proprio come non sappiamo se le rivolte che al momento infiammano le folle arabe in Tunisia e in Egitto, in Libia, in Yemen e domani chi sa dove mai, sfoceranno in tirannie ancor peggiori delle precedenti oppure si quieteranno in democratici assetti ancora più vacui e impotenti di quelli ora allo stremo in un Occidente cosiddetto progredito e civile.

No, nessuno sa niente.

Ma se appena apriamo gli occhi nel nostro sonno incosciente, forse possiamo vedere che un’anima immortale, lassù sulle eterne nevi, continua imperturbata a sognare un mondo che lasci cadere le vecchie barriere per aprirsi infine alla libertà, alla giustizia, a un fraterno amore.

(2 marzo 2011)

Ricordo di Tommaso Boni Menato da parte dell’amico Carlo Carlucci, che ha fornito lo scritto a Margutte. Il destino (nella sua ultima incarnazione) ha inteso sottoporlo a una serie di prove. La morte della madre per un embolo a tre giorni dal parto, il padre inconsolabile e ulteriormente straziato nella sua fede di fascista, un padre che gli ripeteva il ritornello: tua madre è morta per colpa tua. Una vita insomma all’insegna dell’Assenza, scomparendo il padre di lì a pochi anni. Tutto vuoto etc. Un cercare inanemente. Improvvisamente in Ungheria dopo deludenti contatti (con Luckas per esempio) l’incontro vero con Laura che lo segue a Roma (traduttrice dall’ungherese). Sua moglie e, finalmente, madre, mette ordine e anche quel poco di felicità terrena… Ma sul più bello anche Laura viene rapita in cielo o dantescamente in Paradiso. Rimangono di lui i suoi libri, la sua attività di traduttore principalmente dei testi di Satprem, la devozione verso Mère e Sri Aurobindo, luminosissime presenze. In parallelo con Davide Montemurri avevano fondato “L’Istituto di Ricerche Evolutive” estensione di quello sorto a Parigi ad opera di Satprem. Rimangono anche i suoi instancabili viaggi. Un po’ troppo di tutto ma questo tutto ci sta tutto.

(Immagine concessa dall’autore)