“Ritratti alpini”, ovvero cronache dolenti di un mondo che fu.

gallo-copertinaGABRIELLA MONGARDI

Dopo aver pubblicato l’anno scorso presso le edizioni Catartica di Sassari un romanzo di ambiente “urbano”, Il respiro dell’abbandono, Gabriele Gallo ritorna al suo ambiente preferito, la montagna, proponendoci questa volta, sempre per le edizioni Catartica, Ritratti alpini. Racconti di un anno in montagna, un altro tassello di un originale percorso di scrittura dedicato alla montagna. Il percorso era iniziato con i tre volumi della guida escursionistica Rifugiarsi nella descrizione di un attimo e proseguito con i due romanzi brevi L’altra montagna e Otto ore: adesso approda a un’opera che – come precisa l’autore stesso nell’introduzione – “rifugge dai canoni più stringenti della saggistica” e va invece intesa come “una semplice raccolta di novelle a trazione prevalentemente romanzata”, anche se “le singole vicende raccontate traggono spunto da reali episodi di cronaca riportati dai giornali dell’epoca”, episodi avvenuti nel territorio montano della provincia di Cuneo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. Gabriele, cioè, in questo libro fa il giornalista del passato e riporta alla luce e alla memoria storie minime di gente umile, impegnata in uno storico “corpo a corpo” con la natura.

Con il consueto, personalissimo stile caratterizzato da una diffusa metaforicità, da costanti slittamenti semantici che perlopiù personificano gli elementi naturali e le cose inanimate, conferendo loro intenzionalità e volontà (il vento stritola le grida; l’inverno ruggisce; la luce preferisce rimanere nascosta al caldo e all’asciutto; il torrente deglutisce a fatica terra, tronchi e acqua, e così via), i sessanta racconti coprono i dodici mesi dell’anno – cinque per mese – e tutto il ventaglio delle vallate alpine della “provincia granda”, dalla val Tanaro alla valle Po, dando testimonianza di condizioni di vita oggi quasi inimmaginabili, eppure normali in montagna fino agli anni Sessanta del secolo scorso.

Come dichiara nell’introduzione, l’autore ha voluto mettere a fuoco il rapporto uomo/natura in un ambiente, quello della montagna, particolarmente “ostile” all’uomo. Per almeno sette mesi all’anno, da novembre a maggio, la “nemica” numero uno è la neve, che nel migliore dei casi isola le borgate in quota (ma nel dicembre 1902 ha bloccato per due giorni anche il treno in pianura, a Pianfei, e i passeggeri sono stati soccorsi dagli abitanti del paese); nel peggiore, colpisce a morte con le valanghe (a Porracchia di Demonte nel 1920, ai Laretti di Pamparato nel 1891, alle Fontane di Frabosa Soprana nel 1939…). E con la neve, ovviamente, il freddo e la morte per assideramento di chi si perde mentre cerca di tornare a casa, come il quindicenne Giovanni Battista sul Colle dell’Agnello, nel 1912, o di chi muore intossicato dalle esalazioni del braciere; altre volte è il fuoco, con cui si cerca di proteggersi dal freddo, a causare incendi che distruggono intere borgate…

Negli altri mesi, la nemica principale è l’acqua: l’acqua delle piogge violente che provocano frane e bloccano le strade e quella dei torrenti ingrossati dal disgelo, che inghiottono ponti, campi e uomini, come Enrico travolto dalla Stura in piena mentre cercava di costruire un argine (1959) o Antonio, caduto nel Marmora mentre riparava un ponte (1891). Sono storie monotone nella loro cupa durezza, ma l’autore per rasserenare l’atmosfera ogni mese ne intercala alcune a lieto fine: per fortuna c’è anche chi viene salvato dall’acqua vorticosa (due ragazzi a Torre Mondovì e due bambine a Pradleves, nel 1890) o estratto vivo dalla neve (Giuseppe nel 1960 a Garessio; Antonio nel 1890 a Vernante), o portato in tempo all’ospedale o recuperato dal burrone in cui era caduto; e a volte si festeggia: ad esempio l’inaugurazione di un rifugio ai piedi del monte Matto, nel 1935, o l’arrivo della corrente elettrica a Briga Marittima, nel 1904.

Per sopravvivere in un ambiente così difficile, per molti aspetti “estremo”, l’uomo può contare solo sulla solidarietà e l’aiuto dei suoi simili – e questo è un tasto su cui il narratore batte e ribatte, un tema che ritorna con insistenza (“lo spirito comunitario”; “Le luci della solidarietà si accendono poco alla volta”; “Un grido di aiuto e una chiamata a raccolta, non c’è bisogno di dire altro”). L’altro tema ricorrente è quello della pazienza, dell’accettazione e della forza d’animo dei montanari, che può arrivare a livelli di vero, umile eroismo: « Piegata ma non spezzata, la Valle Stura ripartirà grazie all’aiuto di tanti, al coraggio di molti, all’eroismo di pochi».

Ma con il boom economico del secondo dopoguerra le cose cambiano, la montagna si spopola, le scuole si chiudono. A novembre del 1967 scende a svernare a Demonte Teresa, l’ultima abitante “permanente” di Ferrere di Argentera: «Teresina scuote la testa, affranta e delusa, come se sentisse il peso di una responsabilità troppo grande da affrontare. Tra poche ore suo nipote verrà a prenderla. “Alla prima neve salgo, zia, nessuna discussione. Almeno d’inverno vieni a stare da noi a Demonte, altrimenti i viveri te li porto in primavera! Non voglio più rischiare di morire assiderato come lo scorso anno.” Con lei muore definitivamente la comunità di Ferrere, con lei si spegne per sempre il respiro di una vita che per secoli ha animato queste terre».

Il libro di Gallo, nella sua dimensione di documentazione del passato, si può accostare alle fotografie in bianco e nero di Michele Pellegrino (non per niente nel titolo dell’opera compare la parola “ritratti”), e anche in parte al Mondo dei vinti di Nuto Revelli, ma non è mosso da intenti di denuncia sociale: si limita a serbare memoria, a sottrarre all’oblio pietre e uomini di ieri – che è la prima funzione della scrittura… Del resto, i testi precedentemente pubblicati da questo giovane autore gli impediscono di cadere nello sterile rimpianto di un “piccolo mondo antico” tutt’altro che idilliaco, e indicano invece la strada per una rinascita della montagna, che sappia coniugare la saggezza antica qui celebrata, fatta di «rispetto, pazienza e accettazione» con gli strumenti che la tecnica fornisce all’uomo non per “dominare” la natura, ma per renderla un po’ meno “inumana”.