Un ammutinamento in carcere

foto di Gabriella Mongardi

foto di Gabriella Mongardi

ROBERTO SEGRE

Rientrato a casa quella sera, il vice salutò la moglie che gli veniva incontro sorridente; abitavano vicino, ma non dentro, al carcere in un grande e scalcinato appartamento di servizio, monumento nazionale, con antichi affreschi scoloriti del ‘600 sulla facciata dell’edificio.
Sposati da poco, avevano colto l’occasione per sistemarsi nell’alloggio vuoto del precedente direttore, dove, approfittando del trasloco e dei lavori di ripulitura dell’appartamento a carico dell’amministrazione, avevano sistemato i pochi mobili acquistati o regalati.
Era una fortuna per i due sposini poter avere un ampio appartamento, benché vecchio, disadorno e piuttosto freddo.
Il vice si tolse la giacca e si mise in pantofole, con un golf sulle spalle.
Il cane lupo, o meglio incrocio tra vari cani, si venne ad accucciare ai suoi piedi: era grosso come un vitellino, col pelo chiaro sul ventre e veniva addestrato regolarmente, con lezioni d’ubbidienza da parte del padrone e di un allevatore di cani pastori tedeschi. Ma continuava ad essere indipendente e bizzarro, benché amichevole e affettuoso.
“Lui è il vero Kid, è un grande Kid, è il Kid”, lo salutò il vice, accarezzandolo sulla testa.
Gli aveva dato quel nome e lo teneva in casa, o nel cortile in disuso pieno d’erbacce, e, quando era libero dall’ufficio, lo portava a passeggio al guinzaglio.
Avere un cane era stato per anni il suo sogno e ora, grazie all’abbondanza di cani ospitati nei cortili dell’amministrazione penitenziaria e nutriti con i copiosi resti del rancio dei detenuti e della mensa dei guardiani, aveva potuto realizzarlo.
Il comandante del carcere gli aveva regalato uno dei cuccioli di tre mesi, nati da una lupa che teneva di guardia vicino alla garitta centrale del muro di cinta del carcere.
La moglie del vice non amava gli animali e ne aveva paura, e aveva imposto al cane di dormire in cortile nella grande cuccia di legno che gli aveva fabbricato un detenuto.
E così, all’ora di andare a letto, il cane da casa veniva inviato in cortile, il che gli consentiva esplorazioni notturne supplementari tra le folte erbacce e caccia a topi e altri animaletti.
Il cane era coccolato da tutti; simpatico, con l’espressione allegra e scanzonata, era intelligente e giocherellone.
Il vice si stava rilassando in una vecchia poltrona di velluto alla Voltaire, comoda per sonnecchiare poiché la testa era sostenuta ai lati dello schienale (il giornale l’aveva già scorso in ufficio, dove arrivava ogni mattina una copia omaggio) in attesa di cenare, una mano sulla testa del Kid, quando squillò il telefono, facendolo sussultare.

“Uff, proprio ora che mi stavo appisolando prima di cena”, pensò.
“Ciao”, disse alzando il ricevitore.
Pensava fossero i genitori che chiamavano quasi ogni sera per avere notizie, preoccupati dalle continue rivolte ed evasioni che si succedevano in quel periodo.
“Mi perdoni signor direttore, rispose invece la voce del comandante, guardi, c’è un po’ di maretta, i detenuti non si ritirano”.
“Cioè?”, bofonchiò il vice.
“Non vogliono rientrare nelle celle”, precisò il comandante.
Nella casa di reclusione, i detenuti uscivano al mattino dai cameroni dove passavano la notte e potevano muoversi più o meno liberamente per il carcere fino alle otto di sera, quando venivano rinchiusi per la cena, fino al mattino seguente.
Un tempo potevano restare fuori dalle celle fino alle undici di sera, tenuto conto che, per la maggior parte, si trattava di detenuti condannati a lunghe pene detentive; ma gradualmente gli orari di chiusura delle camerate erano stati anticipati, per ragioni di sicurezza e per liberare il personale, costretto a turni di servizio pesanti.
“Che cos’è: una rivolta?”, chiese subito il vice.
“Mah, non so, vediamo, forse vogliono parlare con lei”, rispose il comandante che preferiva non assumersi troppe responsabilità.
Si era nel periodo di passaggio dal precedente vecchio sistema carcerario alle nuove leggi sull’ordinamento penitenziario con maggiori diritti e libertà da concedere ai detenuti.
Ma l’applicazione della legge era lenta, le strutture fatiscenti, il personale sotto organico e soprattutto la mentalità stentava a cambiare.
E i detenuti pretendevano quello che la legge prescriveva: colloqui, telefonate, permessi e licenze, lavoro e corsi di formazione.
Il Ministero di Giustizia era preso alla sprovvista, emanava circolari e istruzioni:
“Si richiede alle SS. LL. (Signorie Loro) di ottemperare alle disposizioni della presente legge, beninteso osservando tutte le precauzioni di sicurezza richieste…”
Cioè contraddizione in termini: lasciare più liberi e mettere anche fuori, all’esterno, i detenuti che la legge stessa condannava a stare chiusi dentro.
Questi lo facevano apposta a mettere in imbarazzo l’amministrazione: ergastolani e galeotti condannati a lunghe pene detentive volevano il permesso, la telefonata, il colloquio.
Chiedevano con un sorrisetto, soddisfatti di creare problemi e di vendicarsi delle restrizioni.
“È la legge, ce lo dovete dare”, argomentavano.
Non che avessero torto, ma qualunque scusa era buona per disobbedienze, rivolte, ribellioni, scioperi della fame e anche sequestri di guardie, senza conseguenze fino ad allora: era un periodo convulso, che l’amministrazione centrale e lo stato non sapevano come controllare.
Il vice si alzò, combattuto tra pigrizia, senso del dovere ed eccitazione.
“Devo andare”, disse alla moglie, rimettendosi cravatta e giacca.
“Non mangi?”, chiese lei preoccupata       .
“Mangerò dopo, rispose, ora vado su”.
“Che c’è?”.
“Non so, ti dirò, dammi un bicchier d’acqua”. E uscì.
In meno di un minuto era per le scale che portavano al cancello blindato del carcere.
Era già buio e i grandi riflettori accesi illuminavano d’una forte luce bianca l’esterno del muro di cinta con il filo spinato e le torrette di guardia dove camminavano le guardie armate di mitra.
Il maresciallo comandante e due sottufficiali lo aspettavano, nervosi, e lo salutarono militarmente.
“Che succede?”, chiese il vice.
“Ma, signor direttore, rispose il comandante, non sappiamo quello che bolle in pentola. Hanno rifiutato di ritirarsi, vogliono fare delle richieste e parlare con lei. Ho rinforzato la guardia, allertato gli uomini, sospeso riposi e licenze e…”.
“Va bene, intanto informo i carabinieri e il procuratore”, disse il vice, in tono burocratico, e andò in ufficio a telefonare.
Nella cittadina dove si trovava il complesso penitenziario, che aveva una sezione per imputati in attesa di giudizio, e una, con circa duecentocinquanta posti, di casa di reclusione per condannati a lunghe pene detentive, tutti più o meno si conoscevano.
Il capitano dei carabinieri aveva la stessa età del vice e le loro mogli si frequentavano. Il procuratore della Repubblica, più anziano, scapolo e gran lavoratore, passava giornate e serate in ufficio, quindi rispose subito al vice sulla linea diretta.
“Va bene, grazie, avvisi carabinieri e polizia e mi tenga informato”.
Il capitano era a cena (“Scusa, mi dispiace disturbarti, sai, i detenuti non si ritirano, puoi mandare una macchina?”, chiese il vice), bofonchiò che avrebbe mandato un’auto di pattuglia esterna, anche se aveva pochi uomini, ma in via eccezionale, se la situazione lo richiedeva…
Doveva informare il comandante della legione, però.
“Va bene, io intanto sento anche la questura, grazie, ci teniamo in contatto…”, e chiuse il telefono.
Al centralino della polizia rispose un piantone di turno e assicurò che avrebbe informato il capo della mobile.
“A chi devo ancora telefonare?”, si chiese il vice, novellino rispettoso della gerarchia.
E chiamò l’ispettore del ministero.
Come prevedeva, a quell’ora non trovò nessuno in ufficio e lasciò un messaggio nella segreteria telefonica.
A cose fatte, avrebbe inviato un rapporto, per conoscenza anche a Roma e alla procura generale.
Carte, carte. Sempre che la situazione non degenerasse… pensò, ridacchiando nervoso.
Ci voleva poco.

Espletate le formalità burocratiche (“Mettiti sempre il culo a posto”, gli aveva raccomandato il suo capo attuale, in aspettativa per malattia, che ora lui sostituiva a tutti gli effetti), tornò tra le guardie.
Il comandante aveva già fatto schierare una ventina di uomini in assetto antisommossa, con scudi, gambali, ginocchiere di protezione, elmetti e manganelli, che stazionavano fuori dalle porte ferrate, nel corridoio che dava nel primo cortile.
“Noi siamo pronti, intanto ho richiamato gli altri, fra poco ci saranno qui una cinquantina di uomini. Dicono che c’è una delegazione che vuole parlare con lei…”.
“Delegazione? Da quando in qua? Sentiamo, rispose il vice che non sapeva cosa fare, lei che dice? Andiamo in sezione?”.
“No, mi perdoni signor direttore, ma, se chiede il mio parere, io preferisco che venga una delegazione di tre o quattro detenuti nel mio ufficio e parliamo”.
“Uhm, già, meglio. E cosa dice radio carcere? Insomma, di che si tratta?”
“Mah, non si sa bene: un po’ vogliono la riforma penitenziaria, un po’ si vogliono far sentire come nelle altre carceri, e…”
“E…?”
“Poi ci sarebbe quel Leoluca, sa quel boss, che chiede il ricongiungimento familiare… Il ministero gli ha rifiutato tre volte il trasferimento a Poggioreale per sovraffollamento, sa non c’è un posto, e lui tiene la famiglia a Napoli…”
“Cioè, è lui che…”
“Si, pare che sia lui che … insomma, attizza…”
“Va bene, fate venire lui e altri due, nel suo ufficio a pianterreno, maresciallo…”
“Mi perdoni, signor direttore, lui non si può farlo venire, gli si darebbe troppa importanza e poi lui non vuole comparire direttamente…”
“Facciamo venire un suo intermediario e altri due, forza, che qui vien notte”.
Questa espressione, come molte altre, il vice l’aveva mutuata dal suo capo e la usava spesso.
“Comandi signor direttore. Gargiulo, va a chiamare Raimondino e quegli altri due “sgarrupati” e portali qui nel mio ufficio”.
E il vice, il comandante seduti, e due sottufficiali in piedi, si ammassarono nel piccolo ufficio a pianterreno che dava sul cortile, dietro la scrivania.
L’appuntato Gargiulo ritornò di li a poco, con una guardia accompagnando i tre detenuti che rimasero in piedi fronteggiando le autorità carcerarie.
“Raimo’, che volete, sono le nove di sera, andiamo a nanna?”, chiese il maresciallo.
“Marescia’, ci scusasse, ma noi non c’entriamo, ci sono i politici e poi…”, Raimondino si contorceva, con un sorriso ambiguo, voleva e non voleva dire di più.
“Forza, che vogliono?”
“Ma ci sta sta’ nuova riforma da applica’ e qui non si vede mai niente… E poi c’è quella faccenda…”
“Lo sai Raimo’ che ci abbiamo provato…”
“Maresciallo, facciamo fare una domanda per Salerno, o S. Maria Capuavetere – a Napoli ora è impossibile, chiuso, sbarrato – e vedremo, intervenne il vice – poi per la riforma stiamo studiando le modalità con il Ministero e cercheremo al più presto una soluzione. Presentate una richiesta con i punti che richiedete e domani stesso la esamineremo. Ci vuole un po’ di tempo…”
“Grazie, signor diretto’, disse Raimondino esitando, ma poi ci sono tutti ‘sti trasferimenti nelle isole; non si può fare qualcosa? Noi vogliamo stare accà, vicino alle nostre famiglie”.
“Accà, accà, Raimo’, disse il comandante, hai sentito quello che ha detto il signor direttore, lo sai che noi mandiamo nelle isole chi ci vuole andare per lavoro, ma siamo sovraffollati, si? Chi si comporta bene, lo teniamo qua, ma tutti non li possiamo tenere. E per la riforma il signor direttore ci sta lavorando su, ci pensa lui e anche il trasferimento di… hai sentito eh?”
“Si, si, marescià, possiamo andare di sopra a riferire? Noi… ambasciato’ siamo”.
“Ambasciato’, che ambascia… Avete capito, eh?”, fece il comandante con un’occhiata d’intesa.
“Sissignore, marescià, ossequi signor direttore, con permesso” e i detenuti, scortati, uscirono e rientrarono in sezione.
Il vice e il maresciallo si accesero una sigaretta e ne diedero una ad un sottufficiale per scaricare la tensione. L’altro non fumava.
“Aspettiamo”, proferì il vice, sbuffando un fumo di liberazione.
“Secondo me stasera non ci vorrà molto, spero di non sbagliarmi, ma c’è qualcosa, qualcosa di nascosto… Vedremo se salterà fuori nei prossimi giorni…”, rispose il comandante.
“Cioè?”, chiese il vice.
Ma prima che il comandante rispondesse, uno dei brigadieri di servizio in sezione uscì con un foglietto in mano.
“Si ritirano, marescià, stiamo chiudendo le celle, qui ci sono le loro richieste alla direzione e al giudice di sorveglianza”.
“Alla buon’ora, fece il comandante, gliel’avevo detto, signor direttore. Questa era una preparazione…”
“Va bene, una prova d’orchestra, facciamo trasferire il nostro amico Leoluca in un carcere della Campania, tanto per mantenere la promessa, poi leggerò le richieste sul foglio e vedremo insieme quel che si può fare. Lei, maresciallo, faccia indagini per identificare i caporioni e liberi pure il personale”.
“Si, per stanotte si può dormire”.
“Vado in ufficio a dare il cessato allarme alle autorità, buonanotte e grazie, maresciallo, se c’è qualcosa mi chiami”, disse il vice.
Ritelefonò, piuttosto stanco e di malumore malgrado la conclusione positiva alle varie autorità (“Qui si passa la serata al telefono”), riservandosi d’inviare l’indomani un rapporto, e rientrò a casa.
Per mezzanotte forse sarebbe riuscito a dormire.

Ma dormì male, agitato, voltolandosi nel letto, con sogni inquieti e pesanti che non riuscì a decifrare.
Sognava di dare un esame, di non essere preparato e poi si ricordava con sollievo che l’esame l’aveva già superato anni prima.
Si scaraventò sotto la doccia e alle otto, contrariamente alle sue abitudini tardive, era in ufficio.
Non c’era nessuno: gli agenti degli uffici matricola, segreteria e ragioneria arrivavano alle otto e trenta e il maresciallo era giù all’adunata del personale.
Solo nel grande ufficio fastosamente arredato dal suo predecessore per sottolineare la sua autorità, seduto scomodo su di una sedia antica foderata di velluto rosso e oro dietro un’immensa scrivania barocca, tutte le luci accese nel torrione della fortezza trasformato in ufficio, stette a pensare.
E gli venne in mente che Leoluca era pericoloso e qualcosa bisognava fare; ebbe un’idea e si riservò di parlarne col maresciallo.
Poi scrisse il rapporto a macchina e lo tenne per consegnarlo, dopo aver allegato il rapporto del comandante, al brigadiere della segreteria che l’avrebbe trasmesso con fonogramma (tale erano le vigenti disposizioni ministeriali, anche se significava dettare al telefono per un’ora) ai vari uffici cui l’aveva promesso.
Poco dopo le nove venne il maresciallo col registro dei rapporti; presero il caffè nella sala mensa agenti, accendendosi dietro una sigaretta, nazionale il maresciallo, estera il vice, e fecero quello che si chiamava: “il punto della situazione” della sera prima.
Il vice era un giovane teorico, conosceva i codici, aveva letto molti libri sul carcere, credeva nella riabilitazione, ma di esperienza ne aveva poca o nulla; si era trovato a dirigere un carcere per necessità, dato che doveva all’improvviso rimpiazzare il capo in malattia.
Il comandante, maresciallo maggiore scelto, aveva trent’anni d’esperienza, buon senso e intelligenza, e anche esasperazione derivata dallo stato permanente di tensione con cui doveva convivere da anni.
Nervoso, fumava e beveva frequenti caffè e bottigliette di liquore dalla sala mensa agenti.
Il vice lo rispettava e chiedeva sempre il suo parere: secondo lui il comandante doveva principalmente occuparsi dell’interno (detenuti e agenti), il direttore degli esteri (rapporti con i vari uffici, organizzazione della casa).
Poi c’era il ragioniere, per la complessa contabilità del carcere e delle lavorazioni, coadiuvato – e questo era il paradosso – da detenuti che con le cifre ci sapevano fare anche troppo, cioè condannati per innumerevoli reati di falso, assegni a vuoto, ricettazione, a pene cumulate talora più lunghe di un omicida.
Insomma, ognuno aveva la sua sfera di competenza, da fare ce n’era abbastanza e non bisognava pestarsi i piedi, anche se il direttore aveva potere di firma e di controllo su tutto ed era l’ultimo responsabile della catena di comando.
Non erano più i tempi in cui il direttore era il feudatario indiscusso con potere di vita e di morte, arbitro assoluto di punizioni e ricompense in particolare nelle carceri dimenticate delle isole, su detenuti e personale.
Il direttore dei film americani, insomma, in genere dipinto come cattivo, spietato e corrotto, con il rituale uso di armi da fuoco, manganelli e buie celle di punizione, anticamera del braccio della morte.
Ora c’erano controlli, sia pure sporadici, delle autorità giudiziarie, comunicazioni frequenti dei detenuti con l’esterno, contatti tra carcere e resto del mondo; non più l’arbitrio incontrastato del signor direttore, ma un certo potere restava ai nuovi funzionari, ragazzi preparati, cresciuti con mentalità di tolleranza, rispetto dei diritti civili, rieducazione della pena, ma anche decisi a far rispettare ordine e disciplina.
Firmato che ebbe il rapporto del comandante sui fatti della sera prima, in cui erano indicati i nomi dei presunti caporioni dei disordini, il vice domandò:
“Maresciallo, lei non crede che dobbiamo fare qualcosa per Leoluca e la sua banda?”
“Cioè?”
“Non possiamo fargliela passare liscia, se no quelli si credono più forti. E se trasferiamo Leoluca vicino casa, facciamo il suo gioco, anzi lo premiamo per aver scatenato la rivolta”.
“Pienamente d’accordo, signor direttore…”
“E allora?”
“Guardi, si potrebbe fare così: lo mettiamo in cella d’isolamento, con la scusa di proteggerlo da vendette e poi lo imbarchiamo…”
“Ma abbiamo promesso di mandarlo più o meno vicino a casa…”
“Più o meno, giusto signor direttore. Mi permetto di suggerirle di chiamare il Ministero per concordare il trasferimento urgente per motivi di sicurezza di Leoluca in un carcere duro della sua regione, come A***. Cosi prendiamo due piccioni con una fava (il maresciallo amava questi modi di dire proverbiali): manteniamo la promessa e lo mandiamo in un carcere di punizione. E che, gli dobbiamo pure fare un favore?”
“E gli altri?”
“Beh, uno lo sbattiamo in Sardegna, un altro deve ritornare a Torino per il processo e ci starà un bel po’, e quelli che rimangono, tolta la testa, non danno fastidio: sono mezze cartucce”.
“Chiamo il Ministero, lei metta subito Leoluca in isolamento, trattiamolo con tutti gli onori del caso – dev’essere visitato dal medico! – e facciamo così. Per ora tamponiamo…”
“Comandi, signor direttore, me ne occupo io”, e il comandante uscì battendo i tacchi.
Il vice passò quasi due ore al telefono con Roma: il responsabile dei trasferimenti era fuori stanza, il suo sostituto non voleva o poteva occuparsene, cadde più volte, intenzionalmente o meno, la linea.
Poi arrivò la persona competente, ma volle una spiegazione dettagliata, obiettò che c’erano pochi posti e il vice, fumando di rabbia e di tabacco, si mise in quattro, alzando la voce, a cercare di fargli capire la situazione, finché si sentì qualcuno chiamare ad una riunione esterna il consigliere (l’ufficio era diretto da un magistrato) che finalmente disse:
“Mi faccia un fono e vedremo”.
“Ma le ho già detto tutto per telefono” – ebbe appena il tempo di ribadire il vice che quell’altro aveva chiuso il telefono.
Il vice andò di corsa dal brigadiere responsabile dei fonogrammi, ma era occupato giù dai detenuti.
Cercò allora un agente degli uffici, lo costrinse ad alzarsi mentre stava scrivendo e gli stette a fianco per dettargli in fretta il testo.
Aspettò, era ora di pranzo, ma il centralinista non riusciva ad avere la linea.
Il vice lo chiamò nel suo ufficio dove dalla linea diretta, stando in piedi, l’agente, lentamente, sillabando, riuscì a trasmettere il fono (“riservato, urgente, prioritario, scrivici tutto”, gli sibilò il vice).
Poco dopo il comandante si presentò a rapporto: aveva eseguito gli ordini.
Leoluca stava al fresco, giù in cantina alle celle d’isolamento.
L’avevano chiamato per una comunicazione, lui si era presentato spavaldo in maglietta e calzoni corti dal comandante che era riuscito a spiegargli che lo volevano accoppare (c’era stata una soffiata attendibile), perciò per proteggerlo (“A mia nessuno mi fa niente, voi non ve ne dovete preoccupare, marescia’”, aveva obiettato lui) che andasse subito al sicuro giù, per qualche giorno, in attesa del trasferimento vicino casa che il signor direttore gli aveva ottenuto.
“Mi sembra che l’abbia bevuta, non ha fatto storie: “Come vulite voi…”, ha detto: uno dei suoi accoliti gli ha portato tutta la sua roba in ordine dal camerone e quello se ne sta in isolamento al fresco a leggere fumetti. Ah, il medico l’ha visitato, sano come un pesce. Un altro è in lista (non lo sa) per la Sardegna, c’è la traduzione dopodomani, e quell’altro va a Torino per il processo in settimana; se tutto va come deve andare, ci siamo guadagnati qualche giorno di tranquillità. Si fa per dire…”

Caduta la tensione, il vice si sentì stanco, la bocca impastata e impestata da caffè e sigarette: lesse ancora il foglio delle richieste della delegazione di detenuti: volevano più colloqui, stanze separate per incontri con i familiari, telefonate, lavoro per tutti e celle aperte, citando costituzione, leggi penali e nuovo ordinamento penitenziario.
“Vedremo oggi pomeriggio o domani, per ora a casa” e uscì  per le scale dai cancelli blindati, aperti con metallici scatti di chiavi dagli agenti che lo salutarono.
Evaso che fu dal carcere, fece due passi, per respirare un po’ d’aria e rientrò a casa: l’indagine per adesso era finita, quel che bolliva in pentola si sarebbe visto in seguito.
Ora pranzo tardivo con la moglie che lo aspettava preoccupata e un sacrosanto pisolino, sperando che il telefono tacesse.
E per esserne sicuro, lo staccò.

(da: ROBERTO SEGRE,Tredici indagini del vicedirettore, 2020)