Evoluzione

Paradise lost, di C. Sottocornola

Paradise lost, di C. Sottocornola

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Confesso che sono un po’ stanco di tutta quell’enfasi che, da Darwin in poi, circonda il concetto di evoluzione. Del resto, basta masticare un po’ di filosofia per capire che, in realtà, è Hegel il vero responsabile di uno storicismo (evolutivo) che continuamente rinvia la realizzazione, il compimento, il senso, al di là del tempo presente, e riduce questo a una sorta di ininfluente transizione verso il più, il meglio, il tutto.

Chi mi conosce sa quanto anch’io sia catturato dall’idea di evoluzione, processo, cammino, percorso, perfezionamento, tanto che ho teorizzato la permanenza terrena dell’uomo come una sua propria cooperazione al gesto creatore divino, quasi che il fiat dall’eternità debba impastarsi con la storia terrena di ogni singolo uomo a generare ciò che egli sarà come vocazione e destino. Una partnership di eterno e di finito a plasmare l’essenza, l’ontologia, l’anima e quindi il relativo cosmo prodotto in e da ogni esistente. Ma è anche vero che il senso, il luogo, la fissazione dello sguardo non può e non deve continuamente travalicare il qui ed ora per inseguire una meta perennemente di là da venire, svuotando de facto di significato l’attimo di ogni autentica intensità. Così si inseguono carriere, successi, guadagni, relazioni esattamente come se fossero arachidi cavate dal guscio e ingoiate, una dopo l’altra, in una scorpacciata senza fine, senza senso, senza vera felicità, senza godimento presente.

Ammiro la sapienza illuminata di un San Luigi Gonzaga bambino che, interrogato su cosa avrebbe fatto se avesse saputo che stava per arrivare la fine del mondo, rispose: “Continuerei a giocare a palla…”. E cioè: la perfezione del mio attimo presente è già tutta così assorbita dal suo senso, che non vado in cerca d’altro, se non di una successione di presenti, ciascuno dei quali contiene nella massima potenza l’annuncio del compimento che verrà. Compimento che, invece, viene cercato sempre oltre e fuori di sé, per esempio, nelle antropologie di un capitalismo figlio di una modernità alienata e deprivata proprio della pienezza del presente, che risulta funzionale solo ad una indefessa e progressiva produzione di know how e poi di ricchezza o accumulo di capitale.

Le vite risultano così svuotate della vita e, quasi per viziosa abitudine contratta nel produrre, sapere o merce (e sapere come merce), intrattengono con se stesse un rapporto strumentale, funzionale ad accrescere una sorta di capitale intrinseco, che si accumula nel consumo di rapporti, esperienze, conoscenza, condizioni di esistenza vissute come materia grezza da bruciare nella fornace del raffinamento di sé, della propria perfezione evolutiva, del proprio definitivo valore di scambio.

Tutto ciò ha però anche una evidente declinazione edonistica e individualistica, laddove è palese che l’uomo di oggi cerca di transumanarsi, nel senso che il transumanesimo, come aspirazione a un indefinito potenziamento e superamento di sé finanche attraverso il mutamento della specie, produce un sostanziale disinteresse del cosa, del qui ed ora, dello spazio-tempo contingente, a favore di una futura ontologia, non conseguente ma onnivora rispetto a quella presente, annichilita nella sua concretezza esistenziale rispetto alla perfezione che verrà a sostituirla e presuntuosamente inverarla, dopo averla resa ininfluente. Cannibalismo ontologico che non mi sento di condividere, perché sprezzante verso la condizione dell’uomo presente, la sola che io posso realisticamente raggiungere, e solo il cui rispetto attuale può generare (karmicamente) un qualsivoglia bene futuro.

Riscopro così, nel solco di  una tradizione biblico-cristiana quasi dimenticata – o banalizzata –, nell’amore del tempo presente, e delle relazioni che in esso mi sono date, una sorta di perfezione attuale, anticipata quand’anche non pienamente manifesta, che mi fa sentire profondamente umano, sereno, riconciliato con me stesso e con la vita, da cui non voglio e non posso certo escludere il viaggio, ma che trova il suo significato in una meta del tutto interiore, cui si confanno più la grigia routine, la ripetizione quotidiana, la fedeltà a un rapporto, la permanenza in un luogo – quello della propria anima – che non la fuga verso le evasioni  della molteplicità e del nuovo, del diverso e dell’inatteso. Insomma, la vera evoluzione – che credo sia una condizione implicita al nostro essere temporali – è però permanenza nella propria verità ontologica, cioè nell’amore come quotidiana appartenenza al proprio destino, al proprio mondo, al grande mistero dell’essere che ci avvolge e ci attraversa.

E il passare degli anni, l’invecchiamento, la malattia e la morte sono lì  ad abbreviare le prospettive, a ricordarci l’esiguità del tempo rimasto, delle opportunità ancora aperte, permettendoci una presa di coscienza, un radicamento più radicale e consapevole nella vita presente, “brivido che vola via…”, per dirla con Vasco, che però conclude: “Forse la vita non è stata tutta persa/ forse qualcosa s’è salvato/ forse davvero non è stato poi tutto sbagliato/  forse era giusto così…” (“Sally”, 1996). Vivere nel presente… dunque, come garanzia di un’evoluzione in cui non ci si specchia narcisisticamente, ma che comporta una totale immersione nella pienezza del qui ed ora.

(tratto da:Claudio Sottocornola, Parole buone, Marna 2020)

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