Olive

Il veld

Il veld (foto di Maddalena Poleggi)

MADDALENA POLEGGI

Olive l’ho incontrata per caso, era strana ma familiare. Niente ci predestinava a trascorrere alcuni mesi insieme, a confidarci pensieri e a raccontarci le nostre vite nei più intimi dettagli.
Eravamo molto distanti, ma ci siamo riconosciute. Qualche ora trascorsa in biblioteca, poche parole sussurrate. La sua voce mi ha intrigato subito e quando mi ha detto: “Ci sono solo due cose vere, l’amore e la conoscenza, e a quelle non puoi sfuggire” l’ho guardata fissamente, come quando un libro insolito cattura la tua attenzione all’improvviso. Quando succede c’è sempre un motivo, magari nascosto nella tua mente o nella memoria del tuo corpo. A quel punto puoi decidere di passar oltre o fermarti a consultarlo, prenderlo fra le mani. Qualche volta desideri portarlo a casa.

Olive aveva un cognome tedesco e un accento curioso, veniva dal Sudafrica, anche se per dirla con le sue parole “As a woman I have no country. As a woman I want no country. As a woman my country is the whole world.”
Cominciò col raccontarmi episodi epici della sua infanzia, trascorsa in una natura incontaminata, come quando dovette nascondersi con tutti i fratelli e sorelle nei cespugli per ore per sottrarsi a una morte violenta. Anche al culmine della tragedia, l’effetto comico non era mai lontano. L’ascoltavo incredula e divertita, intanto pensavo “sei acqua pura di sorgente, che fortuna averti incontrata”.
Aveva un fare vivace, qualcosa di penetrante nello sguardo e un portamento al contempo semplice e fiero. Cercava di vestire i panni dell’intellettuale impegnata, ma la ragazza spontanea, idealista e un po’ selvatica era sempre dietro l’angolo. Del resto l’una non poteva stare senza l’altra, pena un’intima sofferenza che prendeva forma in attacchi d’asma spaventosi. Era doloroso vedere come facesse fatica a respirare l’aria di questo mondo.

Abbiamo cominciato a frequentarci tutti i giorni. All’inizio condividevamo soprattutto la passione per i libri, ci esaltavamo discettando su Conrad. Thoreau, con la sua vita nei boschi, era il nostro eroe, e ogni giorno scoprivamo la nostra comune ammirazione per questo o quell’altro autore. Mi mostrava i suoi volumi, tutti pieni di note a margine, mi raccontava di come l’avessero aiutata da bambina, quando soffriva di solitudine nel mezzo dei vasti altopiani sudafricani.  Da ragazzina passeggiava solitaria, osservava insetti e fili d’erba, parlava con se stessa animatamente, qualche volta gridava, altre volte piangeva. Il padre missionario cambiava spesso dimora, la famiglia era numerosa ma isolata, la natura immensa era un interlocutore impegnativo, esigente, difficile da interpretare. Allo stesso tempo c’era una gioiosa compenetrazione con il paesaggio, un’integrità, un vuoto fertile. La vita nel veld africano consentiva e incoraggiava un rapporto con la natura che negli orizzonti grandiosi e terribili dell’Africa diventava un rapporto con l’universo. Un universo percepito come flusso vitale e creativo, ma anche come espressione di un significato immutabile. Un mondo essenziale, duro, affascinante, capace di provocare un “tale senso di libertà e di allegria selvaggia”.

Nessun argomento che mi proponeva mi lasciava indifferente. Ci accaloravamo molto sul tema dell’istruzione, sorridevo amara mentre l’ascoltavo descrivere i programmi scolastici concepiti per perfezionare la debolezza e l’imbecillità umane, coltivandole con cura: “Into how little space a human soul can be crushed?”
Olive scriveva pagine meravigliose sulla lotta dell’individuo per ritrovare e realizzare se stesso, su quella frustrante e dolorosa oscillazione tra il movimento impresso alla vita da una ricerca esistenziale e la stasi soddisfatta di chi accetta le regole imposte, di chi fa proprie le tradizioni sociali e familiari senza mai chiedersi il perché, accomodando la propria originalità in forme già stabilite. Per la donna poi il conflitto era ancora più cocente, tacciata di egoismo se provava a seguire le proprie intime aspirazioni. “Non sono una donna da marito” mi diceva… eppure sentivo la sua natura socievole e anche sensuale aspirare a una comunione di sentimenti e pensiero, a una condivisione paritaria, rispettosa e libera dell’avventura umana di ciascuno.
“Le persone con una natura simpatetica come la mia devono proteggersi da ciò che li coinvolge, altrimenti sono destinate ad essere frantumate crudelmente cosicché il lavoro vitale resta incompiuto.” Annuivo, guardavo lontano come per sentire meglio l’eco delle sue parole dentro di me.

Dopo le nostre conversazioni meditavo per ore, gli argomenti che l’appassionavano erano i miei,  la sua posizione  su alcune questioni centrali della nostra vita di giovani donne rifletteva le mie ribellioni e inquietudini, le sue idee articolate e profonde gettavano luce sulle mie pavide riflessioni interiori, che facevano ancora fatica a venire allo scoperto. Come una sorella maggiore che è già partita in battaglia, mi riportava notizie dal fronte. Ammiravo il suo coraggio, compativo le sue difficoltà, mi entusiasmavo per i suoi successi. Mi piaceva anche ascoltare la sua voce bambina, quella senza armatura, quella che usava solo con gli amici intimi. Mi sentivo onorata di quelle confidenze e a un certo punto ho iniziato ad amarla di amore fraterno.
Ci tenevo a farle sapere che poteva dirmi tutto senza timori, che non avevo intenzione di tradirla. Olive, le dicevo, non traviserò un solo pensiero, e se nel raccontare di te mi lascerò andare a qualche esagerazione, cercherò comunque di essere fedele e se errore ci sarà, non sarà grave, sarà un piccolo passo falso, un inciampo da niente causato da miopia affettiva.
Qualche volta spariva per giorni, aveva bisogno di isolarsi e ascoltare se stessa con attenzione, fare il punto sulle questioni essenziali, senza essere travolta dalla corrente dei fatti quotidiani.
Gli scambi di opinioni e vedute le erano preziosi e necessari, ma la stancavano terribilmente, forse anche per le sue posizioni radicali e anticonformiste che finivano quasi sempre per scatenare reazioni sorprese, spiegazioni e discussioni infinite.
Venni a sapere che grazie alle sue prime pubblicazioni, che avevano creato un certo scalpore, le capitava sempre più spesso di essere contattata da personaggi famosi, pensatori, scrittori, politici. Olive andava al dunque, non si lasciava abbindolare dalla vernice del successo, sembrava vedere dritto dentro le persone e cercava di dialogare con la parte più autentica di loro; talvolta non ne valeva la pena e tagliava corto, talvolta apprezzava la persona ma non poteva digerirne le idee retrograde e anti libertarie. Difendeva con veemenza tutti gli oppressi, non c’erano compromessi su questo punto. La sua esperienza sudafricana le aveva aperto gli occhi sin da bambina, nonostante una severa educazione tradizionale, all’insegna dell’obbedienza e del timor di Dio.

Approfittavo di queste pause per leggere il suo primo romanzo, The Story of An African Farm. “You will find many artistic faults, but I think you will sympathize with it”, mi aveva detto a proposito della sua prosa.
Il primo editore inglese al quale aveva mandato il manoscritto aveva risposto lodandone il talento, il pathos e l’originalità, ma aveva deciso di non pubblicarlo perché lo trovava deprimente e “il pubblico inglese non ama essere depresso”.  Inaspettatamente avevo sorriso molto leggendolo, avevo ritrovato fra le pagine la vivacità di Olive nel raccontare aneddoti gustosi e dipingere scene d’immediata vividezza con poche pennellate precise. L’ironia non cancellava il dolore, solo lo rendeva più vero. Lyndall, la protagonista del suo romanzo, viveva un dramma esistenziale ai margini della vita di una fattoria africana. Lottava contro un ambiente dai limiti soffocanti, disseccato da un’aridità distruttiva. La sua determinatezza a lottare, la sincerità del suo sentire erano troppo vibranti per restare indifferenti.
Olive non voleva guidare i personaggi come marionette con la punta delle dita, diceva che andavano tenuti stretti vicino a sé, così vicino da sentirne i battiti del cuore. E quando arriva l’ultimo anelito, come accade all’eroina del suo primo romanzo, Olive le si siede accanto per accompagnarla, e racconta con immaginazione pura e poesia, quell’incrocio di sguardi fra chi muore e il mondo che resta, quella breccia nel mistero. La sua descrizione della morte è un momento molto speciale, vissuto come ricongiungimento con l’unità cosmica. La morte diventa una sorta di mistica celebrazione che avviene a cielo aperto, in un abbandono sereno del corpo fra terra e cielo.

Ero certa che un giorno mi avrebbe raccontato chi aveva visto morire, per ora si limitava a fissarmi con i suoi occhi neri e immobili, troppo emozionata per parlarne.
Avvenne un giorno in cui si discuteva di spiritualità. Olive aveva vissuto con disperato travaglio interiore il distacco dalla fede religiosa. Figlia di un missionario, da ragazza aveva temuto di avere una mente deviante, si era torturata nel dubbio. Le parole che venivano dal pulpito erano definitive e inequivocabili, quando poi a pronunciarle era il padre, il tradimento era quasi insostenibile: “Colui che crede non sarà dannato”.
Poi era successo il fatto. Olive aveva nove anni e la sua sorellina adorata diciotto mesi. La sua nascita era stata l’evento più importante della sua infanzia, mi disse più di una volta. Una gioia immensa: “i mesi seguenti ho vissuto per lei e attraverso di lei”. Non c’era esagerazione, lo sapevo. L’immagine di mia madre di ritorno dall’ospedale con quel fratellino minuscolo, col volto arrossato, era stampata in maniera indelebile nella mia memoria. Il viso stanco, appoggiata a un angolo di cucina, la mamma lo teneva stretto a sé mentre lui ciucciava avidamente e rumorosamente e io, affannata da cinque piani di scale saliti di corsa, guardavo incredula mentre sentivo i battiti del mio cuore calmarsi piano.
La sorella di Olive si era ammalata e lei aveva assistito alla sua agonia. Potevo immaginare la devastazione di quella morte, l’impotenza e il senso d’ingiustizia, l’incomprensione. Dopo aveva deciso: non sarebbe più andata ad assolvere il rito della messa dominicale. Diventata adulta, di fronte alle più rigide convenzioni religiose, guardava con atteggiamento un po’ ironico consumarsi davanti ai suoi occhi strani riti formali e vuoti, eseguiti con la massima serietà. Mi godevo le sue buffe narrazioni e le ricordavo le parole di Gustav Mahler “la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”.

Il rapporto di Olive con “Dio” era semplice e diretto. L’Universo è Uno e Vive, diceva, o se preferisci usare altre parole, non c’è altro che Dio! “Se mi chiedi qual è l’effetto pratico di questo sentimento, è che rende tutta la vita per me molto preziosa, e inoltre deruba la morte di tutti i suoi orrori.” Mi ritrovavo nelle sue riflessioni, parola per parola, il mio percorso era stato meno accidentato, ma procedeva a tentoni nella medesima direzione. Il sentimento era il medesimo.
Essere una libera pensatrice le era costato caro, isolamento e solitudine, ma Olive non cercava proseliti nella sua cerchia, reagiva con rispettoso silenzio alle accuse di amici e familiari. Non era una propagandista, la sua idea di libertà comprendeva le libertà altrui. Da giovane governante aveva però rinunciato a una parte del suo stipendio purché gli si risparmiasse la pena d’insegnare la materia religiosa.
Anche senza Dio, un giorno la terra cessa di essere un ammasso caotico, ogni cosa intorno ispira meraviglia e reverenza. Tutto fa parte di un insieme. “La vita che pulsa dentro di noi è un palpito di quell’insieme, troppo potente per essere da noi compreso, non troppo piccolo”.

Le questioni da dibattere erano tante, ma niente c’infervorava tanto quanto la questione femminile. Come Virginia Woolf, costretta a “uccidere” l’angelo del focolare che albergava in lei e le ostacolava il cammino, dovevamo fare i conti con quella tendenza a voler sempre capire e compatire i pensieri e i desideri degli altri. C’eravamo cadute dentro da piccole, a nostra insaputa. Quell’ideale di purezza e altruistica perfezione ci perseguitava e confondeva le acque, cosicché di fronte a scelte fondamentali per la nostra vita, non sapevamo più ascoltare la nostra voce. Se c’era pollo, prendevamo l’ala… come scrisse magistralmente la Woolf.

Olive, a dire il vero, aveva fatto già molto per liberarsi e inseriva questo discorso in un contesto più ampio di lotta e consapevolezza nei confronti di tutte le minoranze. Ma la sua sofferenza per le “sorelle” rimaneva fra le più acute. “It is not what is done to us, but what is made of us”. Le parti di noi che non dobbiamo usare si atrofizzano completamente, oppure, strette nelle bende, fanno male. Un tempo c’erano le scarpette delle donne cinesi, oggi temibili tacchi a spillo. In entrambi i casi si deforma il corpo delle donne, le si costringe ad avanzare con sofferenza, adattandosi a forme tanto improbabili quanto lontane da quelle naturali. Subdolamente nel secondo caso, il martellamento pubblicitario è riuscito a farci credere che siano scelte di audacia e di libertà. All’epoca, nelle nostre animate discussioni sulla condizione femminile, non eravamo a conoscenza delle altre prigioni di tessuto elaborate dal mondo degli uomini, non avevamo ancora visto donne camminare con sbarre davanti agli occhi.
L’Olive pubblica si faceva portavoce con forza, scriveva molto sull’argomento. I cardini del suo pensiero sono poi diventati dei classici pilastri della questione: libero accesso a ogni campo lavorativo, un’educazione senza discriminazioni e una retribuzione paritaria. Mi piaceva sentirla spiegare: chiediamo questo non solo per noi stesse, ma per il genere umano, per l’intera umanità impedita nel suo progresso verso la verità e la giustizia.

(da Wikipedia)

(da Wikipedia Commons)

Ancora oggi non so se sono stata io o lei a trovarmi. Quando incontrai Olive fra gli scaffali della biblioteca, decisi subito che mi sarei fermata. Avrei aperto la mia cartella, piccola e leggera, per far posto ai suoi tesori. Quando ho ripreso il cammino, avevo un baule carico di manoscritti, lettere, immagini e pensieri.

Poi arrivò il giorno della presentazione della tesi. Lo ricordo molto bene. Portavo un abito di maglia beige a sacchetto, che saliva un po’ troppo quando muovevo le braccia. Ero trepidante e fiduciosa, impaziente di concludere un progetto lungo e impegnativo, volevo gustarmi ogni briciola, ogni sensazione. Accanto a me c’era una brigata nutrita e sorridente. Alla fine il correlatore aveva citato ad alta voce un brano… poi c’era stato l’applauso. Si parlava di lei naturalmente, della sua bella umanità, di come sapesse suscitare affetto e simpatia. Ho accolto allegra onori e strette di mano, celebrato quella giornata come di rito.
Verso sera, sola in camera mia, mi sono congedata da Olive. Il nostro incontro era per sempre, ma sapevo che le occasioni di rivedersi sarebbero state più rare, mi aspettavano altri progetti e altri orizzonti.
Sarà stata una breccia nello spazio-tempo o pura suggestione, poco importa, il mattino seguente svegliandomi l’ho vista vicino a me, accanto al comodino, sorridente. Si è trattato di pochi attimi, ho provato più sorpresa che spavento. Non ho avuto il tempo di riflettere… solo di osservare fugacemente i suoi abiti antichi, i suoi ricci scuri, lo sguardo ammiccante e sereno. Ho ricambiato il suo sorriso e si è volatilizzata cosi com’era apparsa, lasciandomi sola e assorta nel calore del letto, pervasa dalla sensazione avvolgente di un mattino radioso e di un’amicizia pura, immateriale e splendida.

Its beautiful to think you are living somewhere in the world, dear. (Olive Schreiner)

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Olive Schreiner (1855-1920) ci ha lasciato l’11 dicembre di cent’anni fa. Per suo espresso desiderio fu sepolta su un’altura che sovrasta le immense distese della provincia del Capo Orientale, in Sudafrica. Scrittrice di romanzi, racconti, allegorie, saggi a sfondo politico e sociale, Olive fu molto influente e impegnata tra fine Ottocento e inizio Novecento. Visse fra due paesi: in Inghilterra dove partecipò al dibattito progressista tardo-vittoriano, scrivendo pagine memorabili sull’emancipazione femminile e la questione religiosa, e in Sudafrica, dove con coraggio e determinazione, da autodidatta, riuscì a infrangere il silenzio per schierarsi con forza emotiva e profetica in difesa della pace e delle vittime del colonialismo.

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