In memoriam Paul Celan

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GABRIELLA MONGARDI

Cento anni fa, il 23 novembre 1920, nasceva a Cernowitz, in Bucovina, Paul Antschel, ossia Paul Celan, poeta ebreo di lingua tedesca.

La patria di Celan, la Bucovina, era stata fino al 1919 una provincia dell’Impero Asburgico, l’Estremo Oriente di quello Stato che aveva comunque assicurato una pacifica convivenza fra popoli disparati e aveva diffuso al suo interno il prestigio della cultura e della lingua tedesca. Con la caduta degli Asburgo, la Bucovina entrò a far parte del Regno di Romania fino al 1939, quando a seguito del patto Ribben-Molotov fu annessa all’URSS; nel 1941 fu invasa dai nazisti che la tennero  fino al 1944, quando i sovietici la ripresero. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1990 la Bucovina divenne territorio ucraino, ma questo non riguardò più Paul Celan, gettatosi nelle acque della Senna vent’anni prima, nel 1970, per la colpa di essere sopravvissuto alla Shoah che aveva invece inghiottito i suoi genitori.

A Parigi Celan era arrivato nel 1948, dopo essere passato per Bucarest e Vienna; aveva ottenuto la cittadinanza francese nel 1955 ma, pur padroneggiando perfettamente il francese (e il rumeno), aveva continuato a scrivere le sue ardue poesie solo in tedesco, per non “tradire” la madre che quella lingua aveva amato e gli aveva insegnato. Margutte ne traduce alcune, dalle raccolte postume.

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L’eternità invecchia: a
Cerveteri gli
asfodeli
domandano l’uno all’altro, bianchi.

Con mestolo borbottante,
dalle pentole dei morti,
oltre la pietra, oltre la pietra,
versano minestra a cucchiaiate
in tutti i letti
e Lager.

(da Fadensonnen)

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Scuoti via a colpetti i
cunei di luce:

dell’oscillante parola è padrona
l’oscurità.

(da Lichtzwang)

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Con la voce del topo di campagna
squittisci verso l’alto,

tu aguzza
tenaglia,
mi mordi la pelle attraverso la camicia,

tu bavaglio,
mi scivoli sulla bocca,
nel mezzo del mio
discorso che ti grava
d’ombre.

(da Schneepart)

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Nevologio, inalberato, fino all’ultimo,
nel vento che s’alza, davanti
alle baracche per sempre
senza finestre:

piatti sogni far rimbalzare
sul
ghiaccio rigato;

le parole d’ombra
tirar fuori, accatastarle
tutt’attorno al burrato
nel cratere.

(da Schneepart)

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Come scrive il traduttore Giuseppe Bevilacqua nell’approfondita introduzione all’edizione italiana delle poesie di Celan (Mondadori, Milano 1998), Celan ha provato a sfidare l’interdetto adorniano (“Dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia”), ma è stato sconfitto: “la neve che un tempo si voleva scavare per riportare alla luce il mondo in essa sepolto, ora inghiotte il canto e lo spegne”,  e con il canto si spegne anche la vita del poeta…