Un ragazzo

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MADDALENA POLEGGI.

Dovevo avere quindici anni o forse meno. Vestivo con jeans stretti e maglioni larghi, camicie americane di seconda mano, i capelli lunghi sulla faccia, orecchini acquistati sui banchetti d’estate.
Mi spostavo in città con l’autobus per andare a scuola, per tornare a casa, per vedere la banda di amici in piazzetta.
Ci sedevamo sui gradini davanti alla chiesa di San Nicola. Mitica piazzetta per diverse generazioni.
C’era sempre qualcuno con cui scherzare e confidarsi, ma soprattutto osservare scanzonati la vita nostra e degli altri. Sfoghi, tentennamenti, dichiarazioni, rivelazioni, sorprese, delusioni, risate complici. Prove generali, chi nell’ombra chi in piena luce, figuranti, prime ballerine, drammi, commedie… nessuna indicazione dalla regia.
Di solito quello che piaceva a me era il giullare di turno, a volte involontario. Mi attiravano l’allegria e le spiritosaggini, ma anche il fare disinvolto e un po’ a parte, l’indifferenza un po’ spavalda alle convenzioni, la trasandatezza senza complessi, il prendere le cose come vengono.

Come molti coetanei abitualmente squattrinati, passavo molto tempo alle fermate degli autobus. Qualche volta mi spingevo fino a Castelletto, altra zona-incontro famosa per giovani di un altro giro. Splendidi palazzi borghesi per professionisti di successo e genovesi “bene”.
Se vuoi cogliere Genova con uno sguardo, senza sezionarla e perderne la trama, Castelletto ti offre un giro di giostra sincero, lento e desueto, che ti restituisce l’incanto senza bisogno di inganni o effetti speciali. La città sta lì quieta intorno a te, si fa annusare, ne puoi tracciare i contorni, seguire il ritmo della materia che si sviluppa e s’infittisce verso il mare.
Ingannato dalla toponomastica, cerchi un castello e trovi una spianata affacciata sui tetti grigi. Una terrazza alberata dove è sempre un po’ domenica. Osservati da lì, i volumi dei palazzi sono signorili e imponenti, una rivelazione, ché dal basso è difficile indovinarne l’opulenza. Rimbalzando fra gelsomini e gerani, lo sguardo scende piano, per abbracciare un profilo urbano omogeneo e distinto, un’armonia di forme e sfumature eleganti di grigio, ocra pallido, rosa antico.

La sera al tramonto questa sinfonia è appagante, puoi scrutarla immobile per lunghi minuti.
Seduta accanto ai vecchi, ti lasci andare alla contemplazione estatica, poi ti scuoti dal lieve torpore e segui il perimetro di ringhiere e muretti. Aggiri con rispetto i tronchi contorti dei vecchi pini marittimi, eviti i piccioni pingui per profusione di briciole. Puoi persino sognare di varcare, con le chiavi in mano, i portoni borghesi di eleganza inarrivabile per salire gradini ampi di marmo chiaro, calpestare pavimenti di legno pregiato, versarti un bicchiere di vino francese e dopo avere accarezzato il gatto affacciarti al balcone con pigra nonchalance.

Quel tardo pomeriggio invece, come tanti altri, passeggiavo svagata col gelato in mano, sempre gianduia e panera, qualche volta uno spruzzo di panna.
Osservavo, socchiudendo gli occhi nel pulviscolo del sole, bambini, anziani e cani godersi il tempo che hanno. Respiravo l’aria di Genova, mi piaceva sedermi sul muretto e alzare piano lo sguardo fino al mare.
Sotto l’orizzonte, molecole di luce e colori ballavano la loro danza, tessere di ardesia e giardini componevano una trama densa, e il cielo era uno spazio nitido con sospiri di nuvole. Sopra al quieto movimento, sentivo voci e odori portati dal vento di mare. La mia città si ritagliava fiera sullo sfondo ceruleo, inviava vibrazioni sottili che mi attraversavano. Suggestioni e semi di viaggio, radici e valigie. Spunti per una vita appena abbozzata.
Ma non era ancora il tempo di partire, a quindici anni, quando si fa sera devi rientrare a casa.

Arrivo alla fermata del bus, poca gente in giro, mi siedo sulla panchina. Aspetto, mi guardo i lacci delle scarpe.
So che un giorno prenderò un treno, il più presto possibile. Dopo la mia ultima versione di latino, l’ultimo chewing-gum rosa, l’ultimo appello in classe Parodi Poleggi Quaglia, l’ultima striscia di focaccia calda mangiata veloce prima di entrare. Un giorno ci sarà un bacio, un diploma, un’idea di futuro, una voglia, un’intuizione, una cartina geografica da metterci il dito sopra, magari in due, e fare si con la testa.
Quando passa il 33? Si sta facendo tardi.

D’un tratto sento una presenza al mio fianco.
Un po’ troppo vicina. La gente normale sulla panchina osserva distanze di sicurezza, centimetri di riserbo, difesa e rispetto. Non ci s’incolla così, senza pudore. Sento accelerare il battito, gli allarmi anti-intrusione cominciano a lampeggiare piano. Vedo il tessuto dei jeans accanto ai miei, ginocchia solide, da ragazzo, con cautela alzo la testa. Cerco d’ignorare l’improvviso calore al viso. Dilatazione euforica dei miei capillari, pacchiana e inopportuna. Una battaglia persa che adesso mi fa sorridere, ma che mi ha procurato non pochi fastidi.

È troppo vicino per far finta di niente, non mi resta che rispondere al suo sguardo. Capelli semi-lunghi arruffati, un sorriso un po’ ironico. Sorride proprio a me, direi che vuole attaccare discorso. Più grande di me, vent’anni forse. Curioso, non mi ricordo di questo tipo che mi guarda come se mi conoscesse. Cosa vuole? cerca compagnia forse.
Mentre mi rivolge la parola osservo il suo sguardo chiaro che ha una luce particolare. Pupille verdi dilatate e ciglia lunghe, qualcosa di rallentato nei movimenti. Bello sguardo, però lascia dietro di se una scia strana. Qualcosa d’estraneo lo aspira, lo trattiene sospeso a metà. Le sue parole escono appena strascicate: “Hai gli occhi belli, lucidi. Come ti chiami?”
Mentre cerco una risposta dosata, per non dare troppa confidenza, avverto già una minaccia latente, come tenesse a bada una belva con una grossa catena. Per ora miagola come un gattino, ma potrebbe trasformarsi. È palese.
Non fare la scema, non dargli corda, hai già capito qual è il suo problema. È fatto, drogato, tossico. Gli manca la dose. I soldi per comprarsela.

All’epoca ne avevo già visti parecchi, persi per la strada mentre inseguivano i loro sogni psichedelici. La prima volta, da bambina, mi avevano impressionato quei funamboli dello spazio interneuronale che viaggiavano in mezzo al marciapiede. Quell’estrema lentezza e la postura stramba, come in bilico su un filo teso oltre la stratosfera, avevano scatenato una serie di domande difficili da formulare, e poi a chi? Bisognava fare attenzione con le domande. Ti potevi attirare delle grane e questo l’avevo capito presto, a scuola e a casa.
In quegli anni la droga colpiva a casaccio, in tutti i quartieri, nelle famiglie degli amici. Nonostante gli echi delle storie di violenza, disperazione e squallore, conservava ancora una specie di fascino perverso e un’aurea ambigua. Un atto di ribellione autolesionista che aveva fregato tanti. Era la generazione dei fratelli maggiori, quelli che si chiudevano in camera ad ascoltare musica ipnotica e trascendentale, ritmiche libere e sperimentali. Già si sapeva della dipendenza, c’era anche la questione dei soldi da trovare, ma finché la gabbia non si richiudeva con dentro te, potevi illuderti di essere grande, uno tosto che non ha paura di provare. Quanti ragazzi anticonformisti, alla ricerca di libertà o anche solo di stati euforici e creativi si erano risvegliati ammanettati mani e piedi al palo dei rimpianti inutili?
Ci sei cascato pure tu… quanti buchi ci sono voluti per passare dall’altra parte? Ti senti libero o schiavo, oppure non te ne frega più niente?

Intanto lui discorre, divaga e fa domande. Fa il simpatico, cerca d’irretirmi. Rispondo il meno possibile, ma non faccio muro. Concedo qualcosa, qualche smorfia, qualche frase. Ogni tanto fa delle pause, mi osserva.
I piccoli silenzi fra due frasi sono spesso più interessanti delle parole.
I giapponesi guardano sempre gli spazi fra le cose. Una relazione fra elementi diversi può esistere solo grazie agli spazi intermedi, una terza regione dove ci si può incontrare, ci si può comprendere.
Gli intervalli fra un agire e l’altro, usati per osservarci quietamente e non per giudicarci, ci salvano da comportamenti meccanici, ripetitivi e svuotati di senso. La nostra interiorità può affiorare, la nostra umanità palpita e trova una breccia in questo tempo che non scorre.

Rispondo con sempre maggiore riluttanza, non ho voglia di dargli spago, ma neanche di allontanarmi, non ho motivo di scappare. E comunque non voglio. Respiro, guardo davanti a me. Sto partendo per uno dei miei momenti “qui e ora”. Tutti i sensi sono come potenziati e allo stesso tempo non c’è fretta, non c’è scopo e proprio per questo ogni cosa intorno assume un grande interesse. Si potrebbe chiamare “vera presenza”. Un incontro, in questo stato, apre un varco senza sforzo.
Una specie d’incantesimo che opera su di me ogni essere umano che mi parla per davvero. Capita meno spesso di quanto si pensi. Parlare, nel senso di ascoltare senza presumere, esprimere senza giustificarsi o difendersi, accogliere senza giudicare. Un uomo che parla davvero, nella scala delle cose degne di attenzione, sta al primo posto, specie se dietro la porta socchiusa c’è un tumulto, un’irrequietezza, una sensibilità che decide di venire allo scoperto. Da ragazza era una sensazione invadente e scomoda da gestire, più tardi è diventato una chiave per aprire porte e varcare soglie, allargata anche al mondo animale e vegetale. Ché noi umani non abbiamo l’esclusiva della parola, cosi come la intendo.

Il ragazzo intanto ha intuito che può restare. Ha gettato l’amo e sta valutando, oscilla fra lucidità, bisogno e qualcosa d’altro. Normale per lui. Resto guardinga, ma ascolto.
Gli ho già detto il mio vero nome. Sono ingenua e poco astuta. Lui lo ripete con insistenza e tenerezza. Intanto riduce gli spazi fra noi, sempre sorridendo. Sembra indeciso fra strategia e improvvisazione.
Cerca di appoggiare il suo braccio sulla mia spalla. La prima mossa, da manuale, molto in voga. Spingo via la sua mano. Cerco di assumere un’aria severa e gli dico di stare al suo posto. Provo con uno sguardo indifferente. Continuo mio malgrado ad ascoltare la sua voce che è dolce, lievemente canzonatoria. Sono un po’ a disagio, ma non ho paura. Le sue manovre mirano a qualcosa, lo so bene. Mi ricordo improvvisamente di avere una catenina d’oro al collo. Brava. Forse è tutto lì. Ecco cosa gli interessa. Come un felino fa cerchi concentrici e si avvicina alla preda: non ha ancora deciso se mangiarsela o giocarci un po’. Giusto un movimento fluido per celare la minaccia, prima di balzare in avanti fulmineo per prendere quello che gli serve.
La tensione mi fa lievemente irrigidire. Eppure resto seduta e respiro piano. Ci sono vibrazioni strane che non so decifrare. Aspetto e mi vedo da fuori, sola e un po’ sprovveduta. Dentro invece me la cavo, solo un po’ stanca ora. Vorrei uscire fuori campo piano, in dissolvenza. Mi accontenterei anche dell’autobus.

Lui adesso ha smesso di parlare. Deglutisce piano.
Lo guardo. Solitudine e sofferenza si sono sedute accanto. Tacciono e osservano il loro protetto dibattersi come può. Fingo di non notarle, vorrei respirare di nuovo l’aria leggera di prima. Stasera c’era un’aria tiepida e lieve, si poteva sospirare senza cedimenti, giusto aspirati dai sogni. Invece adesso si gioca sul filo e si respira a fatica. Nessun essere umano mi è indifferente. Adesso questo straccio di ragazzo è venuto a naufragare nel mio profumo ingenuo di adolescente. Credeva di sapere come fare, un giochetto veloce e indolore, ma ora esita.
In quell’esitazione, quello spazio libero, può decidere di non infierire su una preda fin troppo facile. Io sto lì per salvargli la faccia. Voglio stare al gioco, fingo di credere a una banale scena di seduzione. Forse lui è già andato troppo oltre per poter tornare indietro innocente. Oppure no.
Osservo incerta il suo vacillare fra delinquenza e fraternità. Tengo a bada la mia respirazione. Devo essere pronta alla difesa, in caso servisse.
Un lampo negli occhi, un’altra pausa. Adesso i muscoli del suo viso si arrendono docili.
Sei ancora uomo. Hai mandato il lupo in cantina.
Presente, non del tutto schiavo, adesso lo sento.
Ti posso sorridere adesso, senza enfasi.

La fiancata arancione dell’autobus compare davanti a noi con le sue scritte e le sue facce rassegnate dai finestrini. Devo andare, è il mio numero. Mi alzo e saluto rapidamente, sollevata e riluttante. Lui strappa un minuscolo fiorellino dal cespuglio che cresce fra le sbarre della panchina e me lo porge.
Mi siedo al finestrino, lo guardo ancora una volta brevemente. Sta li con le braccia appoggiate allo schienale, mi fa un cenno col capo, appena percettibile. Abbasso lo sguardo, il fiore è esile e malconcio, ma emana un profumo sottile.
Poi mi lascio cullare dall’ondeggiare del mezzo, che riparte su per le curve di circonvallazione a monte.

(acquerello dell’autrice)

***

Maddalena Poleggi nasce a Genova, ma prova ben presto il desiderio di vedere altro. Nel 1990 con una laurea in Lingue e Letterature Straniere si trasferisce in Lussemburgo dove comincia a lavorare presso alcune multinazionali. Chiusa la parentesi “donna d’affari”, prende residenza a Nizza dove inizia un’attività di traduzione free-lance che durerà vent’anni. Il vento delle passioni soffia ancora e da un decennio si occupa con impegno e dedizione di salute naturale.

L’amore per l’arte intanto, costante e cruciale, trova il modo di esprimersi in disegni, acquerelli e incisioni distribuiti ad amici, parenti e qualche avventore in occasione di un paio di mostre giovanili. Quello per la lettura dura da sempre, ma solo di recente ha generato un disperato bisogno di scrivere. Per sé, per non perdere il filo e il senso, e oggi forse anche per pochi altri. Pochi ma buoni, ne son certa.