Annuccia e lo zio d’America

25-novembre

SILVIA ROSA

Matilde stringeva forte forte la bambola di pezza con le trecce bionde e il vestitino a fiorellini rosa. Guardava la sua mamma piangere e parlare sottovoce con il papà, e poi strattonare, fino quasi a strapparla, la giacca di panno che l’uomo indossava. Il babbo agitava i pugni in aria e gridava, come la bimba mai prima d’ora, nei suoi dieci anni di vita, l’aveva sentito.

Le avevano intimato in malo modo di andare a coricarsi, nella sua stanza, ché era tardi. Invece lei, disubbidendo, si era nascosta dietro la porta semichiusa della cucina e ora assisteva all’ultimo atto di una vicenda che non riusciva a comprendere per intero, ma che intuiva avrebbe alterato e sconvolto per sempre la tranquilla fisionomia della sua famiglia.

Anna era seduta in un angolo, con lo sguardo fisso al pavimento. Pallida, immobile, in silenzio. Sembrava stesse giocando alla bella statuina e con invidia Matilde pensò a quanto la sorella fosse più brava di lei a quel gioco, ché vinceva sempre, batteva anche la Piera del terzo piano; era la migliore di tutto il cortile. Però adesso non sembrava affatto divertirsi. D’un tratto la vide balzare in piedi, afferrare la valigia sbucata dal nulla e dire a muso duro, rivolta al babbo: “Noi ci vogliamo bene! E lui, lui verrà stasera stessa a prendermi e mi porterà in America.”

Per un momento a Matilde sembrò che suo padre si fosse un poco tranquillizzato ascoltando quelle parole, pronunciate tutte d’un fiato dalla figlia maggiore. Anzi, pareva come inebetito e frastornato. Si accartocciò sul tavolo, con le mani fra i capelli. Per rianimarsi subito dopo, ancora più furibondo e paonazzo in volto, urlando con una voce irriconoscibile: “Puttana! Sei il disonore di questa famiglia, tu e quel porco schifoso, quell’infame…Gli ho aperto la mia casa e lui, quella bestia, cosa fa? Una figlia quindicenne mi rovina…Vi volete bene? Ma sta’ zitta, disgraziata, che non sai che cosa vai dicendo…” e puntando il dito minaccioso verso la mamma strillava “la colpa è di quel balordo e tua, hai sentito Maria? Tua, che me l’hai portato qui, e della tua stirpe randagia… pezzenti, c’avete nel sangue il marciume della miseria e della pazzia della vostra terra di disperati, maledetti tutti…” .

Matilde si ricordava bene della prima volta in cui aveva visto lo Zio, quattro o cinque anni prima. Era estate e lui era arrivato nel pieno della canicola, quando le persiane della casa erano abbassate e per le vie non c’era nessuno; odorava di tabacco e mentuccia e aveva dei baffi neri che mettevano paura. Sul mignolo portava un grosso anello con una pietra rossa. Prendendola in braccio, sollevandola come fosse un sacco vuoto, l’aveva fatta roteare a lungo, quasi a sfiorare il soffitto: “Ma che bella, guardatela, la nipotina mia” e rideva di una risata grassa, con scie di vocali rotonde. Poi aveva volteggiato in cerchio con la mamma, che gli diceva “lasciami, lasciami, non ho più l’età”, ma era così felice che le si erano illuminati gli occhi. E aveva dato tanti baci ad Anna. “Ecco i regali per le mie signorinelle, ho del nastro di raso, guarda Annuccia e delle caramelle, corri a prenderle Matilde e per mia sorella Maria, che è una stella, un pettine d’argento…venite, e che state aspettando!”. Una festa, pareva. Era tornato lo Zio dall’America!

Ma negli anni successivi non s’era più rivisto. Una volta Matilde aveva chiesto di lui alla mamma, ricevendo una strana risposta, sottovoce: “Non parlare mai dello Zio di fronte a tuo padre, hai capito? Lo Zio è dovuto partire di nuovo, ora si trova lontano, ma tornerà, vedrai. Un giorno tornerà”.

E infatti riapparve, quell’anno. Ma questa volta giunse di sera, per cena, con i capelli tirati tutti indietro che brillavano, e l’aria seria. “Aurelio, tu mi devi scusare e perdonare. Ma ora ho messo la testa a posto, te lo giuro. E te li restituisco tutti, i soldi che m’hai prestato. Mi metto a lavorare sodo, ché sono un gran lavoratore, io. E fra cognati c’è un legame, Aurelio, mica sei un estraneo…e io non li fotto i famigliari miei, Aure’, mi devi credere. Sbagli di gioventù se ne fanno, ma ora sono un uomo fatto. Tutti te li restituisco, Aurelio, credimi. Pure con gli interessi. Io ti rispetto…”. E il babbo allora gli aveva stretto la mano, “basta, basta, non ne parliamo più… si può sbagliare. Va bene, dài, siediti che è pronto da mangiare.” E la mamma, sospirando, aveva servito l’arrosto, come quando era domenica.

Matilde lo aspettava tutti i giorni alla finestra e lo vedeva sbucare dall’angolo della strada, con quella sua camminata sghemba: “mamma, mamma, accendi il caffè, arriva lo Zio”; Anna correva in bagno a pettinarsi e poi alla porta, “apro io”.  Erano tutte e tre in fermento e quando lui entrava fischiettando, con quel sorriso mascalzone e quegli occhi castagna, era un’esplosione di allegria. L’aria si profumava di menta e di risate.

Però Matilde sapeva bene che lo Zio le preferiva la sorella. “Annuccia vieni un momento, me lo sai ricucire il bottone?”. Per mille ragioni Anna e suo Zio non perdevano occasione per appartarsi in un’altra stanza, soli. Lei non era gelosa, ché lo Zio non si dimenticava mai di portarle dolcetti. Ma avrebbe voluto essere un po’ più grande, assomigliare ad Anna, a cui sotto le camiciole di lino e cotone bianche era già sbocciato un fresco seno spumoso, con due ciliegine in cima.

Un pomeriggio si trovavano sole in casa, lei e Anna, la mamma era da una vicina. Il campanello suonò due volte di fila, come sempre, solo molto in anticipo. Matilde non stava nella pelle e saltellava in preda all’euforia. Anna, invece, appariva calma e impassibile. “Se fai una cosa per me ti regalo quello che vuoi”, le disse nell’orecchio. “Voglio tutti i tuoi nastrini!”, esclamò la bimba, convinta che la sorella mai avrebbe acconsentito a una tale richiesta. “Sta bene. Ora vai in camera di mamma e papà. Io ti chiudo dentro a chiave, ma tu non devi avere paura. Facciamo uno scherzo allo Zio…gli facciamo credere che tu non ci sei…poi io ti vengo a chiamare…vedrai che sorpresa, e come sarà contento! Ma guai a te se mentre sei in camera fai rumore…è come giocare a nascondino, devi stare zitta e buona per un po’. E ricordati: questo è un segreto”. A Matilde i nastri per capelli e i segreti piacevano tanto. Così partecipò a quella burla e non ne parlò mai con nessuno.

La porta della cucina si spalancò, Anna come una furia, con la valigia in mano, si diresse verso la sua stanza. E Matilde dietro. La trovò che singhiozzava sulla sponda del letto, con le mani premute contro la bocca, tutta scossa dai sussulti. “Anna? Annuccia? Non piangere…” Ma sembrava completamente sorda, immersa nell’acqua salata e tiepida delle sue lacrime.

Matilde allora le si sedette accanto e prese a cullare la sua bambola, cantandole una ninna nanna, a bassa voce. E la ragazza si accorse finalmente di lei. “Fra qualche mese, sai, Matilde, anch’io cullerò un bambino piccolo piccolo. Sarà un maschio e vedrai che felicità! Lo Zio e io avremo una casa luminosa con tante stanze e il mobilio nuovo, in America. Poi quando sarai cresciuta ci verrai a trovare…che felicità, vedrai. Avrò un bel maschietto, sono sicura. Ora lui viene a prendermi, mi porta via. Me l’ha promesso…adesso arriva…”

Ma dello Zio nessuna traccia, nemmeno il giorno seguente. Matilde alla finestra e Anna di pietra, ad aspettare.

“Guardale, le tue figlie! Stupide, stupide! E tu perché non  parli Maria, perché non dici loro chi è tuo fratello, quel galantuomo. Racconta un po’ dove stava e dov’è adesso…in America, certo! Ladro, canaglia, imbroglione, pezzo di merda…in galera, ecco dov’è… quanti anni s’era già fatto…cinque, dieci? Parla Maria, diglielo a tua figlia chi è il padre di quel bastardo che si porta dentro. Non torna! Hai capito? Non torna! È finito di nuovo in prigione e speriamo che stavolta buttino via la chiave, speriamo…!”. La bambina guardava suo padre sputare per terra, col pigiama sbottonato, parlare con disprezzo in una lingua che non capiva. Non sembrava più il suo papà. E dal quel mattino, infatti, smise di essere l’uomo mansueto e gentile che lei  aveva imparato a conoscere.

Anna, con la valigia in un braccio, baciò la mamma rimpicciolita e curva nella vestaglia lilla. Uscì di casa. Senza voltarsi.

Matilde non seppe più nulla di lei. Ma giurò che da grande sarebbe andata in America, a cercarla.