L’ultimo viaggio di Soutine

dutli

ENZA SIRIANNI

Chaim Solomonovič Sutin: questo il nome completo di un artista proveniente dal grande impero zarista, che decise di realizzare il suo sogno pittorico nella Parigi di Chagall, Picasso, Braque, Utrillo, Modigliani. Una metropoli in fermento, ebbra di sperimentalismo, lanciata verso le avanguardie, che aveva a Montparnasse il suo fulcro radiante.
Ebreo, povero, sciancato, sporco, senza nulla dietro se non la caparbia volontà di fuggire per sempre dal suo villaggio natìo, Smilovič (Bielorussia), dalla miseria, dai pogrom, dalle interdizioni.
Diverrà un naturalizzato francese e il suo cognome sarà modificato in Soutine. Anche il nome si accomoderà in un non sospetto Charles quando il sonno della ragione dell’antisemitismo dilagherà in tutta l’Europa. Il libro di Ralph Dutli, L’ultimo viaggio di Soutine, edito da Voland, Roma 2016, ricostruisce la vita del pittore delle nature, paesaggi, visi, corpi deformati, nel tragitto dalla Borgogna, dove si era rifugiato con Ma-Be, la sua compagna, a Parigi. Un viaggio della speranza, si direbbe oggi, nel tentativo di salvare un uomo corroso da un’ulcera gastrica devastante, tormentato dal dolore, emaciato, stordito dagli effetti della pietosa morfina degli inguaribili. Un trasporto erratico in un carro funebre per schivare i controlli dei nazisti occupanti, per occultare l’ebreo, avvolto già come un cadavere.

L’autore scende nella mente del malato terminale – le chances di superare il tardivo intervento chirurgico sono quasi nulle – risale a ritroso, ridiscende fino al silenzio della fine, immaginando il paradiso freddo, bianco, persino severo in cui si proietta Chaim, perseguitato dal senso della punizione per essere nato, per essere giudeo, per essere povero, per essere un “incomunicabile”, un ribelle senza rivolte se non contro se stesso, contro le sue tele squarciate, fatte a pezzi da lui, bruciate, ridotte in cenere, perdute per sempre.
Dutli ricostruisce la biografia di Soutine “in articulo mortis”, indovinano e setacciando il flusso dei pensieri di un uomo, vissuto fino a cinquant’anni, un arco non lungo ma abbondante di esperienze, di attese, di fallimenti, di successi, di resistenze, di rese. Cimentarsi in queste immersioni è arduo finanche a noi stessi. L’autore ci prova e ci riesce, restituendo al lettore la vita di un personaggio solitario, difficile all’amicizia e all’amore, autodistruttivo, di un pittore ossessionato dal colore che, come in francese, rima con dolore, entrambi in lui, detonanti e rovinosi. I suoi paesaggi nascono piegati, ondeggianti come se li avesse travolti un sisma, un uragano. Le sue figure, persino le carcasse degli animali morti, scaturiscono segnate dall’anomalia del contorno, sanguinanti di tutte le gradazioni del rosso fino al subbuglio del verde veronese, tra il malinconico, l’assorto, il cupo, il quasi caricaturale, come fingiamo di non vedere sia la vita, più beffarda che giocosa.

La narrazione procede in una sovrapposizione di piani temporali, di interposizioni di pensieri, di flash, di ricordi con il ricorso al discorso diretto e indiretto libero, senza ingenerare disorientamento nel lettore, saldamente tenuta insieme dalla voce narrante, abile a variare la focalizzazione e a gestire i punti di vista. L’epilogo è intuibile dall’inizio, come quando, ignari delle previsioni meteo, alzando gli occhi sopra di noi, scorgiamo un tendaggio cupo, greve, denso di nembi. E sappiamo che si apriranno le cateratte del cielo e sulla terra si riverseranno piogge alluvionali. Eppure, per quanto la storia sia triste – pochi, fugaci i momenti di sollievo per Chaim – non se ne ricava un senso di oppressione. Nelle allucinazioni del pittore, sedato dalla morfina, l’alcaloide oppiaceo isolato dal “messia” Sertürner, affiorano memorie, frammenti di vite che si intersecano con gli accadimenti di quegli anni, con le speranze e le tragedie della prima metà del ’900.
Dutli racconta ininterrottamente, nella distanza che separa Champigny da Parigi, in modo intenso e poetico, inserendo nelle visioni del moribondo, una galleria di personaggi meno noti, artisti famosi, mercanti di arte, donne amate, abbandonate, disperate, devote.
Marie Berthe Aurenche, prima moglie di Max Ernst, ultima compagna dello scontroso, timido Soutine, è tra queste. Colei che volle, ad ogni costo, portare in sala operatoria il suo compagno agonizzante, in un estremo tentativo di strapparlo alla morte.

“Ogni viaggio conduce all’operazione finale, inarrestabile porta alla fine del percorso. Come i piccioni viaggiatori fanno ritorno alla piccionaia, così la vita si dirige verso il punto d’arrivo, da tempo non è più segreto, nel veicolo che trova per caso a sua disposizione. Raggiunge in fretta il passo carrabile, la sbarra rossa e bianca è alzata, supera la linea fatale, è già dentro. La vita vuole arrivare alla fine”.

Il passo è tratto dall’ultimo capitolo del libro. Anche il lettore, quando intraprende la navigazione e se ne lascia rapire, vorrebbe arrivare alla fine, combattuto nell’opposizione indugio/conclusione.

L’ultimo viaggio di Soutine è una lettura che provoca questo effetto. È dei bei libri la fatica di staccarsene come da una persona cara.