9. “Producitori”

clementino

DINA TORTOROLI

È disponibile, in rete, l’Elogio del nobile e pontificio Collegio Clementino di Roma, pubblicato da D. Ottavio Maria Paltrinieri C.R.S. (Chierico Regolare di Somasca), a Roma, nel 1795, allo scopo di «eccitare a nobile emulazione i Cavalieri che vengono qui educati»; si può quindi agevolmente ascoltare la sua voce schietta che espone le prerogative per cui i Somaschi  erano a buon diritto celebri in tutta Europa come educatori:

«L’oggetto primario, e il più interessante di una lodevole educazione egli è senza dubbio quello di ben formare il cuore, e d’istillare opportunamente le morali virtù, direttrici di una incorrotta vita. […] Si stima ordinariamente cosa da poco, che un giovane Cavaliere esca dal luogo di educazione pieno di rispetto ai maggiori, e di amore alla patria, d’incorrotti costumi, alieno dal fasto, e dalla presunzione, ordinaria compagna dell’ignoranza, incapace di offendere altrui, facile a perdonare le offese, amante della fatica, ed esemplare nei doveri della religione: eppure sono queste doti assai maggiori del saper distendere con eleganza qualche Poetico, od Oratorio componimento. Sarà perciò sempre gran vanto di questo convitto il vedere dovunque i suoi allievi di tai pregi forniti, e sebben di nascita la più cospicua, e del merito il più raro fregiati, spiegare costantemente un carattere di affabilità, di moderazione, di rispetto» (pp. 15-16).

Essenziale peculiarità dei Padri Somaschi è dunque aver saputo «coltivare» negli allievi «gli spiriti nobili, e generosi, e non averli avviliti con una servile educazione» (p. 23), perché il cristiano è un obbediente (che vuole dare un senso al vivere), non un servo che esegue dei comandi.

«Virtuosa dipendenza» definisce P. Paltrinieri questa speciale accettazione con assunzione di responsabilità, e dichiara che la si può suscitare nei discepoli soltanto se «le correzioni amorevoli avvertono dei difetti e li emendano senza avvilire giammai l’indole del cuore» (p. 23).

È una definitiva, duplice conquista, perché – con la rara eccezione di chi ha la sventura di essere anaffettivo o refrattario per indole – i ragazzi ne hanno consapevolezza e la loro mente acquista  slancio e vigore.

Ribadisce il Paltrinieri: «Che saggia poi sia, e discreta la disciplina in questo convitto adoperata, il Marchese Valignani lo attesta, che il sapeva per esperienza, chiamando i Somaschensi educatori, uomini certamente formati pel vero allevamento di un nobile giovanetto, poiché togliendo le pericolose idee di un timore servile, gli animi all’ubbidienza della vera virtù con sommo profitto sottomettono» (p. 24).

Non è difficile convincersi che una tale ubbidienza – che è un affidarsi – sottenda la “confidenza rispettosa e libera negli educatori”, evocata dall’autore del Fermo e Lucia.

Ed è ancor più facile constatare che i Padri Somaschi avevano talmente a cuore il benessere degli allievi, da non sottovalutare neppure l’importanza di “esercizi frequenti e dilettevoli del corpo”:

«Alla cultura dello spirito dev’essere congiunta quella del corpo, che sullo spirito ha tanta influenza. Non deve già questa consistere in liquori, in profumi, e nella delicatezza del vivere, e nel lusso, che infievoliscono anzi il temperamento, e il rendono effeminato; ma negli Esercizj Ginnastici, che sono diretti a dar buona forma al corpo, ad assodarlo, ed a spiegarne le forze. Di un tal genere sono le Arti chiamate Cavalleresche, il ballo cioè, la scherma, e la cavallerizza, e i giuochi ancora di picca e bandiera, che servono a fornire il corpo di agilità, e di destrezza. Dell’esercizio del ballo hanno bisogno i bennati fanciulli, dice il celebre Filosofo Locke, fino da quando cominciano a dar libero il passo. Non sarà il corpo solo, che ne sentirà il vantaggio, regolandone i movimenti; ma l’animo eziandio, in cui sgombrando la timidezza, ingerisce non so qual nobile ardire, che avvezza a conversar coi maggiori, i quali esigono un disinvolto gentil portamento. La scherma, e la Cavallerizza erano per tutti i nobili della maggiore necessità nei secoli addietro per le costumanze di Giostre, e Tornei, e per l’esecrabile abuso dei frequenti duelli. Ora sono utili ornamenti per tutti, e necessari ancora per chi vuol battere la militare carriera. Tutte queste Arti coltivansi in questo convitto, e ben molti furono quei Cavalieri, che riuscirono in esse eccellenti» (pp. 18-20).

L’Elogio ci permette di conoscere anche le “occupazioni utili e interessanti”, oltre le quotidiane nove ore di studio dei convittori.

Fra tutte, la più  avvincente – nel XVIII secolo –  a me sembra l’attività teatrale:

«Al comparire del nuovo Secolo si diede del pari a vedere in su le scene del Clementino il buon gusto. Sbandite le insulse opere teatrali, piene di falsi pensieri, e fuor di tempo ingegnosi, che nel secolo avanti erano tanto gradite, presero questi giovani Cavalieri a rappresentare le migliori Tragedie del Francese e dell’Italiano Teatro. Eglino posson gloriarsi di essere stati i primi a farle gustare a Roma, ed a vederle, anche senza il soccorso del suono e del canto, da tutta Roma applaudite. Qui fu dove la prima volta […] si udirono le più belle Tragedie, di cui andasse adorna la nostra lingua. Appena infatti il Marchese Maffei aveva pubblicato pel primo l’Oreste del Rucellai, che fu recitato da questi Cavalier valorosi, e dato di nuovo alle stampe […].  Appena lo stesso Maffei arricchì l’Italiano Teatro colla sua Merope, che qui fu recitata, e prodotta di nuovo alla luce. Qui fu dove si sentirono le più belle Tragedie del Teatro Francese, che vennero ad un tal fine per la prima volta nell’Italiana favella recate. Aveva di questo convitto il governo il P. D. Filippo Merelli, ed egli fu, che ne tradusse non poche, fra le quali lo Stilicone di Corneille; e il Crescimbeni rende testimonianza del trasporto, con cui furono ricevute da tutta Roma. Quindi s’intese e la Rodoguna, e il Timocrate, e il Pirro, ed altre delle migliori Tragedie dello stesso padre della Francese Melpomene; vi si sentì l’Amalasunta, e l’Agrippa di Quinolt, il Tamerlano di Pradon, ed altre delle più scelte Opere del Gallico coturno. L’applauso, con cui furono accolte da Roma, si sparse ad altre primarie città d’Italia, e in Bologna le traduzioni medesime si videro rappresentate di nuovo e pubblicate, e le fatiche del Merelli uscirono dai torchj di Parma, e d’altre città. Nè una sola Tragedia quivi rappresentavasi per ciascun anno; ma tre talvolta negli stessi Carnevaleschi divertimenti si videro e su le scene, e alle stampe» (pp. 32-34).

A questo punto, mi sembra opportuno cedere la parola alla studiosa Lina Montalto, che al Clementino dedica una monografia di 237 pagine (Il Clementino  1595 1875, Casa Editrice Ulpiano in Roma, 1939): un testo sorprendente, perché rivela che i seguaci di San Girolamo riuscirono ad “affascinare”  anche lei.

Leggiamo nell’Avvertenza:

«Nel maggio 1935, annunziandosi imminente per la sistemazione del Lungotevere la distruzione della vecchia fabbrica del Convitto Nazionale in piazza Nicosia, mi posi a raccogliere notizie storico-artistiche sul Collegio Clementino – che precedette per circa tre secoli nella stessa sede il Convitto Nazionale, sotto la direzione dei Padri di Somasca – nella speranza che si riuscisse a salvare almeno la grazia settecentesca dell’interna Cappella dell’Assunta, opera di Carlo Fontana.

Nel corso delle mie ricerche, ebbi la ventura di poter esaminare i ricordi manoscritti del Collegio Clementino che l’Ordine dei Somaschi a mezzo del P. Luigi Zambarelli metteva cortesemente a mia disposizione, autorizzandomi a giovarmene per la monografia che andavo preparando.

L’Osservatore Romano, pubblicando un mio articolo su La Cappella dell’Assunta di Carlo Fontana nel Nobile Collegio Clementino (30 novembre 1935), annunziava questo lavoro che si è andato sempre più arricchendo di materiale edito e inedito, sino al presente.

Devo ai Padri di Somasca gratitudine per avermi concesso di presentare nelle sue vere caratteristiche la fisionomia del glorioso Collegio estinto».

Insomma, Lina Montalto compila rapidamente un articolo sulla Cappella di Carlo Fontana, che pure le stava tanto a cuore, per rivolgere tutto il suo interesse al Collegio.

I ricordi manoscritti, che le permettono di coglierne  la fisionomia, sono  gli Atti o Memorie del Clementino, in sette volumi che vanno dal 1616 al 1875 (con dispersioni dal 1654 al 1696); un Padre cancelliere o Attuario, aveva difatti il compito di narrare le vicende salienti del Collegio.

«Da questa fonte, quando altra non ne sia citata» – dichiara la studiosa nella Prefazione –  «s’intende tratto ogni particolare di questa mia rievocazione che reca, in ultimo, la documentazione più caratteristica. Come documento storico, letterario ed anche psicologico, gli Atti del Clementino riescono sommamente interessanti».

A Tragedie e Commedie nel Teatro Clementino lei dedica l’intero capitolo VI, da cui voglio estrarre almeno due paragrafi:

«Il Teatro Clementino, com’era chiamato in Roma, era una sala rettangolare, assai vasta, con in fondo un palchettone per gli ospiti illustri e ben tre file di palchetti laterali. Prossimo alla Cappella dell’Assunta, si passava facilmente dal terrazzo al Teatro che veva pure un ingresso a sé da Piazza Nicosia. Come tutto il Collegio, anch’esso era dipinto: con paesaggi lungo tutto il sec. XVII, con figure allegoriche nel sec. XVIII, quando alla spesa concorsero alcuni convittori che vi ebbero effigiato il proprio stemma (p. 139). […]

Un pubblico sceltissimo urgeva alle porte del Teatro di Piazza Nicosia nelle rappresentazioni del carnevale: ambasciatori, principi, sovrani di passaggio a Roma, e, insieme, accademici e artisti […]. Nel febbraio 1724 assiste alle rappresentazioni dei Cavalieri del Clementino Giacomo III d’Inghilterra, con la regina e sei principesse; e ne’ carnevali successivi vi ritorna, fatto segno a vivi onori» (pp. 147-148).

Lina Montalto dedica un capitolo anche alle Accademie:

«Si solevano tenere a data fissa cinque volte all’anno (ricorrenze che sono tutte feste religiose) e che lasciavano libero sfogo, fra orazioni, poemi e cantate, al talento dei Padri Maestri, mentre ai loro scolari era riserbato il recitarli con spirito e con grazia.

Per l’Accademia della Passione, il maestro di retorica affida ai “Signori Retorici” suoi scolari la recita del suo discorso patetico; per quella di Natale i “Signori Umanisti” recitano il poema del loro maestro.

Così possiamo pensare recitate le liriche dei più colti Padri di Somasca nelle Accademie suddette a data fissa, cui è da aggiungere quella per la Pentecoste, quella del nome di Maria e, sovrattutto quella per l’Assunta, celebrata con fasto grandissimo e sempre sonora di cantate e oratori […]. Sono invece una cosa a parte, e assai più interessante, le composizioni liriche degli allievi nelle Accademie straordinarie che si facevano per questo o quel personaggio illustre, o per avvenimenti importanti.

Già fin dal sorgere del Collegio era in seno ad esso nata l’Accademia dei Vogliosi, col motto Sponte Sua, che riuniva i giovani più adatti per talento nel comporre in greco, in latino, in italiano, e a queste esercitazioni era consacrato il giovedì mattina. […] Il Piazza (Carlo Bartolomeo Piazza, Eusevologio romano… Con due trattati delle accademie e librerie celebri di Roma, Roma, 1698) ci fa sapere che le Accademie consistevano in discorsi di morale, di politica e di materie scientifiche, con altre composizioni epiche e liriche, ammettendosi anche – particolare otre modo ineressante – uditori stranieri, cioè, come per le Dispute (di cui si dirà in seguito), quanto di meglio nel campo politico, letterario ed artistico si trovasse in Roma.

Sono poi caratteristiche dei cavalieri del Clementino le composizioni liriche in italiano (in grande onore erano infatti le lingue, data la varia nazionaltà dei convittori; fra i dizionari della celebre Libreria del Collegio ve ne era uno in sette lingue). […]

La comparsa e la movimentata dimora a Roma di Cristina di Svezia, poco dopo la metà del ‘600, segna una data memorabile nella vita del Collegio.

L’originale coltissima sovrana amava il Clementino; essa dovette frequentarlo fin dall’inizio poiché una nota orgogliosa del 1673 ferma negli Atti il ricordo della presenza di lei in una “funzione del Collegio a differenza di altri collegi romani ove mai prima si è recata”; nel carnevale del 1674 ella irrompe ben due volte nel teatro di piazza Nicosia col suo corteo di letterati; interviene nelle dispute, interroga i maestri, si sofferma maternamente affettuosa con i nobili allievi.

Quanta parte ebbe nel convogliare verso il Clemntino queste attenzioni sovrane il suo grande e fedele amico il Cardinale Decio Azzolini che nel 1680 sappiamo protettore del nobile Collegio? Quanta il Padre Somasco don Benedetto Pallavicini, suo teologo e confessore?

Quando nel 1677 questi diventa Rettore, matura in seno al nobile Convitto una novità, che l’8 maggio 1678 esplode con la cerimonia inaugurale dell’Accademia degli Stravaganti [i quali “volendo  ne’ letterari componimenti anteporre la lingua italiana alla latina, procedevano – extra vagantes – per nuovo sentiero”]. Dopo la morte di di Cristina di Svezia, formatasi secondo il desiderio di lei (5 ottobre 1690) l’Arcadia, essi (gli Stravaganti) in numero di due assiteranno alle sue sedute e nelle sue sale apporranno sotto il ritratto di Cristina un’iscrizione alludente al nascimento primogenito – rispetto agli Arcadi -  degli Stravaganti che avevano preso in prestito dallo stemma della Regina di Svezia le palme per il loro scudo, dove altresì splendevano le stelle Aldobrandine. […]

Dice il Piazza che la presenza di Cristina di Svezia nell’Accademia degli Stravaganti “trasse molti ad applaudire alla nobile istituzione ed a partecipare al piacere di sì curiosa osservazione”; egli chiama “spiritosi trattenimenti” le feste del Clementino i cui apparati furono sovente, con grande magnificenza, fatti allestire a spese della Regina su disegni di grandi architetti del tempo.

Di queste feste accademiche, che ricevevano appunto dagli Stravaganti accentuazione, la fama, per l’intervento in esse di principi stranieri e di ambasciatori, eccedette i confini di Roma e della stessa Italia. E sin dai primi anni, infatti, Giacomo II inviava agli Stravaganti, dall’Inghilterra, lettere piene di entusiasmo» (pp. 109-113).

Sorprendenti, direi, oltre che “utili e interessanti”, le molteplici attività promosse dai “Somaschensi educatori”; inoltre, dichiara Lina Montalto:

«La vera gloria dei maestri del Clementino […] furono le pubbliche gare dei loro allievi, dove erano liberi esaminatori i dotti prelati e sovente i lettori, nei vari istituti romani, di quelle stesse discipline: “arguenti” come dicono gli Atti, che “provocavano” e “tentavano” in vari assalti il “difendente” che si presentava imbracciando un grande scudo con lo stemma del Collegio ove spiccavano le stelle degli Aldobrandini. Assalti che finivano poi in applausi; certami letterari la cui fatica si estingueva nelle varie “acque gelate”, rinfreschi e dolci di cui il nobile allievo soleva pomposamente allietare il premio della sua annua fatica. E insieme allo scolaro veniva lodato il maestro la cui fama giungeva in Vaticano per mezzo degli alti prelati intervenuti alle gare; si diffondeva per tutta Roma, con la “foltissima” nobiltà invitata, e riecheggiava assai spesso all’estero, per la presenza in queste pubbliche gare di ambasciatori e di principi stranieri. Deve il Clementino in certo modo a questi esami grandiosi la sua clientela più illustre per il gran parlare che se ne faceva da vicino e da lontano.

Questi saggi finali or dell’uno or dell’altro nobile convittore, a corso di studi completato, interessano dunque vivamente la storia della scuola per il modo come si svolgevano a guisa di agone intellettuale fra i giovani convittori – dietro i quali giostravano i dottissimi loro maestri – e i rappresentanti ufficiali della coltura nella Roma papale. […] Ma le dispute non erano soltanto di filosofia; ne vedremo di matematica sublime, di meccanica, di storia e geografia, svolte a dialogo con i più dotti fra il pubblico convenuto nella cornice di un apparato grandioso ora nel vasto cortile, ora nel teatro o nella gran Sala del Ballo» (pp. 94-95).

“Da vicino”, “faceva un gran parlare” del Clementino il Diario Ordinario  – il periodico, noto al pubblico come Chracas, dal nome della famiglia che lo stampava – che immancabilmente annunciava le manifestazioni che si organizzavano nell’Urbe.

Nel Chracas del 2 febbraio 1771 leggiamo:

«Siccome sono entrate le vacanze in questi nobili Collegi, per divertire e non tenere oziosa quella nobile Gioventù, hanno principiato ancor essi a rappresentare le Tragedie, recitandosi nel nobile, e Pontificio Collegio Clementino, sotto la cura de PP. Della Congr. Di Somasca, alternativamente le due Tragedie l’una intitolata il Medo, del nobile Sign. Filippo Rosa Morando Veronese, e l’altra il Finto Alcibiade di Quinault, tradotto dal Francese, con Intermezzi di ballo di nuova invenzione, con bellissime trasfigurazioni».

Il giorno 16 il resoconto si arricchisce:

«Le due Tragedie rappresentate alternativamente nel Nobile, e Pontificio Collegio Clementino nello scorso Carnovale, l’una intitolata Il Medo del nobile Sig. Filippo Rosa Morando Veronese, e l’altra Il Finto Alcibiade di Quinault, tradotta dal Francese, riscossero talmente il generale applauso, per la vivacità, e talento di quei nobili Convittori, che le rappresentarono, come pure per l’invenzione, ed esecuzione de’ cinque balli, che le intramezzavano, ne’ quali quella nobile Gioventù diede saggio di abilità nelle arti cavalleresche, per il che ogni sera si vidde quel Teatro pieno di spettatori, oltre della Nobiltà, anche forastiera, intervenuta ne’ palchetti; essendo state onorate ancora dagli E.mi Signori Cardinali Serbelloni, Stoppani, Spinola, Calini, Pallavicini, Caracciolo, e Chigi Protettore amantissimo del Collegio, che in attestato del suo compiacimento mandogli in regalo una vitella mongana, ed un rinfresco nobilissimo per cento, e più persone, consistente in mattonelle, frutti  gelati, spume di cioccolata, e diversi sorbetti; oltre di abbondante biscottineria, cialdoni, e pani di Spagna».

E in un terzo ragguaglio è detto che Anceo – il personaggio della Tragedia di Filippo Rosa Morando che incarna i più emozionanti e generosi sentimenti – era stato mirabilmente interpretato dal “nostro” Carlo Imbonati.

Né quella è l’unica occasione in cui il Chracas cita il nome dell’Imbonati: infatti, in data 30 Marzo 1771 leggiamo:

«Il dopo pranzo 23 dello spirante nel Nobile, e Pontificio Collegio Clementino fu tenuta la solita anniversaria Accademia di Rettorica sopra la Passione di Nostro Signore. La funzione Letteraria fu onorata dagli E.mi Caracciolo Santobono, e Chigi Protettore di quel nobile Convitto, da alcuni Prelati, Principi, e Signori, e da molti Religiosi graduati, e Persone Letterate in buon numero, che nella Congregazione detta de’ Grandi, apparata, ed illuminata, udirono la recita de’ Componimenti, che verterono la maggior parte su i dolori di Maria Vergine. […] Accademia, stata eseguita con la virtuosa assistenza del P. D. Camillo Varisco, Maestro di Eloquenza in detto Collegio, ed applaudita dalla ragguardevole e dotta udienza, che commendò lo spirito di que’ virtuosi Cavalieri».

E nel lungo elenco dei “virtuosi” autori e del componimento di ognuno di loro, a me ha fatto particolarmente piacere leggere: “il Sig. Conte D. Carlo Giuseppe Imbonati un Sonetto”.

Infine, il nome dell’Imbonati ritorna sul Diario Ordinario, nella cronaca del saggio finale del 1774, quando  Carlo bravamente si esibì in esercizi di Cavallerizza.

Ancora più rivelatore, però, è il fatto che di Carlo Imbonati parli il Paltrinieri, nel volume rimasto inedito, intitolato Biografia di seicento circa uomini illustri per dignità o per cariche civili, politiche, militari, o per letteratura o santità, i quali furono educati nel Collegio Clementino di Roma diretto da’ Padri della Congregazione di Somasca / Opera manoscritta, Roma, 1840.

La quotidiana interazione coi Padri Somaschi, “producitori di Eroi” (Paltrinieri) per mezzo del loro programma di perfezionamento dell’uomo, promosso anche attraverso l’associazionismo volontario, aveva dunque prodotto in Carlo Imbonati la consapevolezza di essere “uno di quegli ingegni ai quali è per così dire comandato di fare” (Fermo e Lucia, p. 275)? In tal caso, almeno momentaneamente, la ricerca di testimonianze deve trasferirsi dall’Archivio Generalizio dei Padri Somaschi alla Biblioteca Angelica di Roma, custode dal 1941 dell’Archivio storico dell’Accademia letteraria dell’Arcadia romana.