La prima volta che pensai di morire, poesie inedite di Fabrizio Sani

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FABRIZIO SANI

La prima volta che pensai di morire

La prima volta che pensai di morire
ero bloccato fra le tue braccia e i pesci abbaiavano.
Da quella volta sul sentiero ho perso un po’ di fuoco,
tutti i giorni.
Ieri il sentiero era incenerito.
Ho sempre detto ciao sottovoce,
ieri l’ho gridato pensando non ci fosse nessuno.
Ma c’erano.

Se io fossi una qualche origine,
ti mostreresti nel nome del Signore.
Se io fossi un qualunque luogo che non sia l’infanzia,
porteresti con te l’incontenibile pianto
e un metronomo che scansiona il moltiplicarsi di quel grido.

*

La fine dell’inverno

Tiu.
Tiu.
Gocciola sul davanzale
la neve ormai sciolta,
l’inverno ormai concluso, il sole
ormai dietro gli edifici bassi.
Tiu.
Roma, come un bimbo ammalato,
getta la testa dentro le coperte,
e i suoi pensieri scappano e si perdono,
non sulle foglie morte del sentiero,
ma dentro le case cieche.
Tiu.
La campagna in cui si mimetizzano
le quattro mura dove sono nato
e la mia famiglia, mi appare
in controluce, di là dalla finestra
e i tiu.
Il mio paese sono due file di case
lungo una statale.
A guardarlo di notte, dall’alto,
è una candela accesa.
Tiu.
I ricordi, fini e limati, svolazzano
dentro la mia testa come i fili elettrici
sui cieli rossi che, fino all’ultimo,
trattengono le stelle delle periferie.
E trattengono il bene e il male,
i papaveri e le erbacce e tutta la ruggine
di tutti i binari del mondo.
Tiu.
Rivedo l’ulivo
che per conto mio ha sempre sorvegliato la vallata
e può dirmi di Paolo,
il figlio del negoziante emigrato dal Sud;
di Arturo, le cui gesta
ogni giorno vengono ricordate,
e mi sembra di conoscerlo
e indovinare il verde dei suoi occhi;
del Pratomagno dove Enzo,
durante una partita della Fiorentina,
mi invito a cercare i funghi;
del cuore mitragliato di Iolanda
e quello balbettante di suo figlio Sandro.
Quell’ulivo saprebbe raccontarmi
dei paesani piegati sotto i suoi fratelli
il secondo sabato di novembre – tiu.
Tale cartolina precipita in soggiorno,
disorientata ed entusiasta come un animale,
è per me un morso tenero
tra acque chiare di torrente.
Tiu.
Roma pensa alla campagna
e la campagna ha nella testa Roma.
La storia dietro alle spalle è confusa
e illeggibile. In malora come la neve:
lunghe parole stampate male.
Tiu.
Mio nipote cresce
e cresco anch’io.

*

Parco d’inverno

Mi ricordo un parco d’inverno.
L’erba umida.
L’ordine complesso con cui il vento
riordinava il ciarpame,
i sentimenti,
riportandoli nei corpi da dove erano sfuggiti.
Mi ricordo le sei di pomeriggio in un parco d’inverno.
La tenerezza sfilacciata di una coppia,
su una panchina trascina un abbraccio oltre il buio.
Mi ricordo una grossa nuvola grigia correre via
velocissima
da quel parco d’inverno
e un corvo nero che a un certo punto ci sparì dentro.
Mi ricordo una lacrima cadere in un parco d’inverno,
con il buio
e l’erba già umida
nessuno ci ha fatto caso.
Il gelsomino, dicono,
è un fiore che ritorna.

*

Piazza Sempione

Cerco di raggiungere casa:
luci rosse, verdi, gialle,
motorini, automobili, autobus.
Occhi semichiusi e alito etilico.
Tutto sta nel garbuglio di ricordi freschi
da far seccare.
L’amore e poi la fiducia.
Sicuramente c’era l’amore tra le cose che mi hai detto
e cerco di ricordare,
ma questa cazzo di luce della galleria mi acceca e dimentico
tutto.
Le due mani che accarezzavano un’altra mano per un ciuffo di
fuoco
- marginali e violente -
Un occhio che mi incontra nel suo percorso e inciampa quando
vorrebbe andare più in là.
Una pennellata nera sull’asfalto grigio
è urina.
E prosegue prosegue e prosegue,
avanza oltre e vorrei si fermasse.
Il fanciullino,
a quello non hai fatto cenno.
Il neonato spaventato, il bambino timido, il ragazzo insufficiente e poi
il padre tradito dalla madre con in braccio
il neonato, pensarlo – un istante – malinteso indelebile.
Piazza Sempione che si svuota e tra i tanti passi
ce ne sono quattro che non fanno rumore.
Dimmi, come si può non rimanere attoniti di fronte a tutto questo?
E ciò nonostante, come si può combatterne la noia, l’idea che
in fondo, tale sgomento,
io l’abbia già affrontato?
E ancora: nell’equilibrio tra i due, come si può trovare parole per il dialogo?
Per dirti anche io dell’amore, del paesaggio, della fiducia.
Come possono fuoriuscire parole che non siano brutali,
se non voglio parlare?
Se d’amore stiamo litigando, e sono sicuro ci fosse anche l’amore,
non è vero che non lo possa toccare
e che le mie siano accuse infondate
e non è vero che le mie scarpe non hanno mai fatto nessun rumore.

Fabrizio Sani è nato in provincia di Arezzo e vive a Roma da sei anni. Laureato in Arti e scienze dello spettacolo alla Sapienza, sta conseguendo la magistrale in Editoria e scrittura nello stesso ateneo. Per le edizioni SuiGeneris ha pubblicato il mio primo libro dal titolo “Si innamoravano tutti di me e io del loro amore”. Recentemente ha vinto il premio Ossi di Seppia ed è finalista del premio Alda Merini.

Foto: Bruna Bonino.