8. Il Clementino

clementino

DINA TORTOROLI

«Sono i collegi un luogo in cui i principj ricevonsi della Vita morale, che danno la prima forma all’intelletto, ed al cuore, onde debbono considerarsi quasi un’altra famiglia, e come il luogo di una nuova nascita riguardarli» (P. Ottavio Maria Paltrinieri, Elogio del nobile e pontificio Collegio Clementino di Roma).

Di norma, si era ammessi al Clementino a sette anni. Quando Carlo Imbonati vi fu eccezionalmente accolto – è noto – di anni ne aveva diciassette e “i principj della Vita morale” li aveva ricevuti in famiglia e dal precettore Giuseppe Parini; però, si è radicata in me la convinzione che anche nel suo caso il collegio sia stato il luogo di una “nuova nascita”, immagine emblematica  di quel  “nascere di nuovo” di cui parla il Vangelo di Giovanni (3: 3-7).

Aveva decretato l’erezione di quel convitto “per fanciulli e giovinetti nobili tanto indigeni che stranieri” il papa Clemente VIII, nonostante Roma pullulasse di istituti educativi, perché – dice  nella Bolla del 1595 – “i giovinetti crescevano senza ombra di disciplina, di religione, di profitto”.

Pertanto, nel 1604 lui stesso ne aveva “dichiarato le leggi” e aveva assunto ad hoc opus grave et arduum (per quest’opera gravosa e problematica) i Chierici Regolari di Somasca, quali degni continuatori dell’opera educativa del loro fondatore, Girolamo Emiliani (Miani).

Fu una fiducia ben riposta. Infatti, nel 1986, ricorrendo il quinto centenario della nascita di San Girolamo (nel 1747 il Miani era stato beatificato da Benedetto XIV ed era stato canonizzato da Clemente XIII nel 1766), il papa Giovanni Paolo II manifesta a propria volta «quanta stima abbia la Chiesa per l’opera apostolica che [i Somaschi] svolgono», in una lettera (disponibile in rete) «al Rev.mo Pierino Moreno, Preposto Generale dell’Ordine dei Chierici Generali Somaschi».

Il più valido elogio di Giovanni Paolo II è costituito dalla rievocazione di ciò che Girolamo ha fatto, perché la vita di quell’uomo straordinario è un inno: la glorificazione della carità cristiana.

Per questo, i Padri Somaschi la rammentavano costantemente ai loro allievi, e i passi salienti del resoconto papale aiutano noi a capire che cosa poté affascinare anche Carlo Imbonati, giunto «a quella età così critica, che separa l’adolescenza dalla giovinezza; a quella età, in cui una potenza misteriosa entra nell’animo, solleva, ingrandisce adorna, rinvigorisce tutte le inclinazioni e tutte le idee che vi trova» (Fermo e Lucia, Casa del Manzoni, MMVI, Tomo II. Capitolo II, p. 142):

«La via percorsa [dal Miani] affascinò i suoi contemporanei e non cessa di affascinare anche gli uomini del nostro tempo. Dopo essere stato liberato dal carcere per intercessione della beata Vergine Maria nel 1511 durante la guerra detta della “Lega di Cambrai” piacque al benignissimo Iddio di movergli perfettamente il cuore e con sante ispirazioni trarlo a sé dalle occupazioni del mondo. [Abbandonata la carriera militare, spogliatosi delle proprie ricchezze] si dedicò […] con tutte le forze a condurre una vita cristiana e raggiungere il proprio perfezionamento spirituale. Quando Dio prese totalmente possesso del suo spirito, il Signore gli porse l’occasione “d’imitare più da vicino Cristo, il suo nuovo capitano” (Vita del clarissimo Signor Girolamo Miani gentil huomo venetiano). Questa occasione fu appunto l’incontro con i poveri durante la carestia che nel 1528 afflisse l’Italia. […] Per disposizione di Dio s’incamminò per nuove strade: nel 1532 fu chiamato a Bergamo dal Vescovo di quella città per organizzare opere di carità in quella diocesi; ivi perciò attese a svolgere la salutare sua attività a vantaggio degli orfani, dei malati, delle vedove e delle meretrici. Nelle campagne poi trovò un’altra forma di povertà: l’ignoranza religiosa. Organizzò allora delle vere missioni catechistiche, per le quali si servì anche dei suoi ragazzi come di nuovi apostoli del Vangelo. […] Nel 1534 si ritirò nel piccolo villaggio di Somasca [presso Lecco], ove trascorreva la vita prestando il suo aiuto agli orfani e ai poveri, curando i malati, insegnando il catechismo ai contadini in assoluta povertà, solitudine e nella contemplazione delle realtà divine. […] Stimolato dall’urgenza dei bisognosi e dalla realtà della vita d’ogni giorno il santo uomo attingeva continuamente ispirazione dal Vangelo, sforzandosi di ricondurre l’uomo a Dio, promuovendone le condizioni materiali e spirituali. Per lui l’uomo si realizza nella sua vita di cristiano, che deve vivificare tutte le fasi dell’educazione, tenendo conto delle inclinazioni naturali e favorendo, in modo responsabile, lo sviluppo delle doti largite a ciascuno dal Padre celeste. San Girolamo si dedicò interamente a quest’opera profondendo agli altri l’amore straordinario che nasce dalla carità verso Dio e si nutre di essa, che richiede fedeltà, prontezza al sacrificio e dedizione fino alla morte, amore pieno di comprensione e di attenzione, ma nello stesso tempo forte e capace di spingere a compiere i propri doveri. […] Quest’uomo straordinario è il fondatore dell’Ordine dei Padri Somaschi. Quando egli iniziò la sua opera di soccorso degli orfani, si convinse che gli erano necessarie persone che fossero sempre interamente disponibili e preparate per quest’opera, senza essere legate da altri impegni, come anch’egli si era spogliato di tutto. Dai sacerdoti e laici che, mossi dallo Spirito del Signore e affascinati dal suo esempio, si unirono a lui, ebbe origine la “Compagnia dei servi dei poveri”, che nel 1540 fu approvata dal papa Paolo III e nel 1568 fu inserita [?] dal papa san Pio V gli [?] Ordini dei Chierici Regolari. Un mese prima di morire, san Girolamo tracciò per questi suoi figli la seguente regola di vita: essi si sono offerti a Cristo, abitano nella sua casa, mangiano il suo pane, si fan chiamare “servi dei poveri” di Cristo. Per essere fedeli a questa vocazione, essi devono essere pieni di carità, umiltà, mansuetudine, benignità, pazienza, comprensione della fragilità umana, zelo per la salvezza dei peccatori, devozione, mortificazione, povertà, purezza, obbedienza alle regole della vita cristiana e ai pastori della Chiesa, pieni d’un ardente desiderio di attrarre gli uomini a Dio».

Nel Collegio Clementino, Carlo Imbonati poté dunque constatare che, due secoli dopo la morte di Girolamo Miani, i più disponibili e preparati tra i suoi seguaci avevano messo a punto una «pratica» educativa di vita “davvero” cristiana.

Era incentrata sulla preghiera, inserita nel ritmo quotidiano del “vivere in quanto creatura di Dio”.

Anzitutto, la «preghiera silenziosa» che avviava la giornata dei collegiali – appena svegliati dal suono della campana, come riferisce Padre Priuli – predisponendoli anche a una «orazione vocale» senza più nulla di automatico, e parimenti la concludeva a sera, dopo un susseguirsi incalzante di attività, di ragionamenti, di esercizi spirituali, intellettuali e fisici.

Per sapere in che cosa consista precisamente la «preghiera silenziosa o contemplativa», io ho dovuto consultare il Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte Quarta, capitolo terzo, La vita di preghiera). Poi, per venire a sapere come si deve effettivamente procedere, ho dovuto anch’io, come i giovani «Clementini», leggere le vite di Santi e soffermarmi a considerare le loro esperienze mistiche.

Così, ho imparato che entrare in preghiera contemplativa significa interrogare se stessi sulla propria realtà, sulla propria vita, sulla propria maniera di essere. Ho constatato che attraverso la preghiera contemplativa si può giungere a valutare le proprie azioni, le proprie scelte più importanti, ciò che “amiamo sopra ogni cosa come dovremmo amare Dio”.

Infatti, la mancanza di fede si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto dei “piaceri” del mondo. Pertanto, la preghiera contemplativa può essere definita “il momento della verità del cuore”, quello in cui vediamo con chiarezza le nostre priorità: l’amore preferenziale e la nostra accidia, mentre scopriamo di possedere una capacità conoscitiva che ci proietta in una dimensione ultraterrena. Insomma, è un’esperienza che permette di recuperare «l’histoire de l’âme»: mostra «le spectacle de l’homme intérieur» ( la storia dell’anima, lo spettacolo dell’uomo interiore).

Dichiara Teresa d’Avila : «L’orazione mentale, a mio parere, non è che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci intratteniamo spesso da solo a solo con quel Dio da cui siamo amati».

Pertanto, quotidianamente indotto a compiere un cammino verso Dio, con l’allenamento della propria capacità di ascolto di sé, Carlo Imbonati poté gradualmente riprendere un più sicuro possesso della propria esistenza, dopo quasi due anni di pena e sconcerto, in seguito all’inopinata morte del padre, al rischio di morire agli stesso e, infine, allo sradicamento da Milano, da ciò che gli aveva dato, fino a quel momento, sicurezza e gioia di vivere: la famiglia con le sue abitudini e i suoi ritmi di vita, le persone amiche, l’amante chérie.

Permette di ricostruire l’antefatto di quell’enigmatico esilio il lungo brano conclusivo  dell’orazione, pronunciata dal conte Giorgio Giulini, durante l’ultima seduta accademica dei Trasformati, «il dì primo Settembre 1768», pubblicata l’anno seguente, nel volumetto (disponibile in rete) Componimenti in morte del Conte Giuseppe Maria Imbonati / Ristoratore e Conservatore perpetuo dell’Accademia de’ Trasformati:

«Avea il Conte Imbonati contratta nell’avanzare degli anni una certa facilità a turbarsi con qualche principio di sdegno; […] Questo per altro piuttosto potea chiamarsi naturale effetto della cagionevol vecchiezza; per cui i molti spiriti, che sempre accompagnano i grandi Ingegni, si riempiono di sali acidi ed aspri, pronti ad accorrere agli occhi ed alla lingua, ove alcuna cosa spiacevole e disgustosa presentisi improvvisamente alla immaginazione, ed ivi formare occhiate e parole sdegnose. […] Qualunque però fosse questo suo piccol difetto o fisico, o morale, non mancò il nostro buon Cavaliere di opporvisi  con tutte le forze della sua Religione. […] Così il nostro Conte avea posti colla Religione tali argini alle nascenti sue collere,  che ognuno potea vederle dopo brieve e leggiero contrasto dissiparsi affatto e rivolgersi o in lieto riso, o in giocondi ed utili ragionamenti. Che se la Religione la quale aveva rette l’opere sue anche nella più florida goventù, così poi le resse nella vecchiezza, del pari, e  molto più ne fu reggitrice, e maestra all’avvicinarsi di quell’estremo momento che nell’undecimo giorno dello scorso Luglio lo tolse da Noi. […]Aveva inaspettatamente sorpreso una violentissima febbre l’amabile, unico diletto Figliuolo del Conte Imbonati; e già pria che a quella febbre  altra ne sottentrasse, gli eran comparse sul viso alcune piccole, rotonde, rosseggianti pustolette, indizio manifesto del velenoso vajuolo, che scorrendo impetuosamente per ogni vaso coll’agitato sangue, cominciava a cacciare verso la superficie dell’esterior cute qualche piccola parte del guastato umore già disposto a corrompersi. All’inaspettato avviso il vecchio amante Genitore affrettando le piante già infievolite per gli anni, che giungevano al numero di ottantuno, venne alla stanza dell’infermo Giovinetto; e qui mirando con gli occhi propri le non dubbie insegne della gravissima malattia, nel maggior colmo dell’interno turbamento, com’era il suo costume, abbassò il capo sotto il Divino flagello; pregando il Dator d’ogni bene, se pur era sua voglia, che degnarsi volesse di conservare a se, di conservare all’afflittissima Madre, di conservare alla dolente Famiglia quella vita sì importante e sì cara. Giunsero intanto i Medici, e trovando, che l’espulsione era avanzata di molto, cosicchè più non potevasi colla emissione del sangue avvalorarla e soccorrerla, cominciarono a sbigottirsi, e col loro sbigottimento ad accrescere l’agitazione del povero Padre. Mentre il timore così lo affliggeva nell’animo, un maligno parosismo o cagionato, o incalzato da quella veemente agitazione dello spirito, venne ad assalire il di lui corpo sì fattamente, che in brieve tempo il ridusse poco lungi dall’ultime agonie. Non sentiva il buon Padre, o pareva, che non sentisse il suo male, e dimentico di se stesso, non d’altro più si doleva, che di non poter prestare personalmente alcun sollievo al languente suo Figlio. In lui riposte aveva tutte le cure sue; di lui trattavano tutte le sue parole; a lui volgevansi tutt’i suoi affetti; ma le cure, le parole, e gli affetti non potevano far sì, che il furioso vajuolo non si accrescesse ogni giorno; e in pochi dì non riducesse anche quel Giovinetto ad un pericolo quasi irreparabile di perder la vita. Erano cresciuti al pari del pericolo i timori, le premure, le angustie del Genitore; quando la morte già alzando contro di Lui il fatal colpo, obbligò i Medici e i Sacerdoti a darli avviso, che Dio il chiamava; che si preparasse ad ubbidirlo, e pensasse omai non più ad altri, ma a se. Aimè, che annunzio, che fatal annunzio fu questo! La morte non era un oggetto di terrore a quell’anima piena di Religione: ma l’abbandonare in sì funeste circostanze ogni pensiero di un figlio, di un unico figlio, di un tal figlio; abbandonare ogni timore; abbandonare ogni speranza; abbandonarla in un momento; abbandonarla costantemente, e morire; ah questi sono di que’ sacrifici, che il buon Dio rare volte richiede, e non li richiede per l’ordinario, che ad anime a se dilette, e di un’eroica Religione fornite. Io son Padre: il sono parecchi fra Voi: chi è Padre non può non comprendere tutto lo spasimo di sì duro distaccamento, e di non sentirsi nel rammentarlo correre involontarie le lacrime agli occhi, e un freddo ribrezzo ricercar l’ossa e le vene».

Giogio Giulini parla di «vajuolo», ma l’eruzione cutanea da lui descritta non assomiglia allo «stadio eruttivo del vaiolo», mentre invece potrebbe corrispondere alla «roseola sifilitica», manifestazione che per lo più compare «nel secondo stadio dell’infezione luetica, circa settanta giorni dopo il contagio». È importante inoltre ricordare che «i sintomi del primo stadio, indolori, possono passare inosservati»; pertanto la febbre caratteristica del secondo stadio può giungere «inaspettatamente».

In un primo momento suggerisce e da ultimo conferma l’ipotesi dell’infezione sifilitica la lettera – del 21 novembre 1770 – in cui Pietro Verri, al fratello Alessandro (romano d’adozione dal 1767), che – il 4 novembre – gli aveva chiesto «qualche cosa» anche del contino Imbonati che stava per arrivare a Roma con monsignor Benedetto Erba, rispose: «Imbonati non è ancora un essere totalmente sviluppato e non ne so nulla, eccetto che ha già ricevuto l’unzione mercuriale: Dans les âmes biens nées la valeur etc. (Carteggio Verri , IV, pp. 67-68).

Il Verri cita Corneille  (Le Cid,  Acte II, Scène II, D. Rodrigue: je suis jeune, il est vrai; mais aux âmes bien nées/ La valeur n’attend point le nombre des années» D. Rodrigo: sono giovane, è vero; ma nelle anime nobili il valore non dipende dal numero degli anni), e – volendo essere mordace – evita di ricordare al fratello che, a causa di quel morbo, curato con l’unzione mercuriale (nel XVIII secolo, terapia primaria della sifilide), il  contino aveva rischiato di morire.

Per fortuna, Carlo superò la pericolosa malattia, ma pagò a caro prezzo des plaisirs séducteurs l’impétueuse ivresse e la sua esclamazione di tanti anni dopo: Laure pour t’oublier chaque jours je mourais (La Résignation) non lascia dubbi sull’atmosfera opprimente che dovette respirare nel palazzo Imbonati, dal settembre 1768 al novembre 1770.

Da quanti e quali “utilili ragionamenti” il ragazzo fosse assediato lo si può immaginare proprio leggendo i Componimenti funebri degli accademici Trasformati: un’orazione, cinquantotto poesie di quarantasette autori (ci fu chi ne produsse più di una), per complessive centoventidue pagine. Infine, si è ben persuasi che l’umore del vecchio padre si fosse “inacetito” a causa delle apprensioni per l’unico figlio maschio che non navigava più secondo la rotta stabilita.

Il P. Fusi, Somasco, apertamente indirizza un sonetto Al Sig. Contino Imbonati, per esortarlo ad apprezzare lo zelo dell’amorevole genitore defunto e ad assecondarne la volontà come se ancora vivesse: «Troppo è ragion, che d’un pietoso Figlio,/ Cui nell’uopo maggiore il dolce amato/ Padre vien meno, pallido, e turbato/ Io vegga il volto, e lacrimoso il ciglio.// So ch’Ei scorgea sicuro il tuo naviglio/ Non ben fermo, ed esperto in questo irato/ Mar procelloso, e del tuo dubbio Stato/ Il fren reggea col provido consiglio./ Ma pur rattempra il duolo, e in quel paterno/ Amor t’affida, che ancor serba in petto./ Nell’aurea luce del suo giorno eterno// Vedi come di zelo, e di pietate/ Arde, e sfavilla, e al suo Germe diletto/ Addita le sue sante orme onorate» (Componimenti…, p. 51).

Il sonetto di Giuseppe Casati ha invece l’intonazione arcana dei responsi delle Sibille: «Inaridito omai, canuto, e stanco/ Il pio Giuseppe, il dotto, egro sen giace:/ Bieca gli sta la Falciatrice al fianco:/ Impavido ei ne guata il ferro, e tace;// Ma prevedendo al Figlio suo pur’anco/ Il meditato colpo dell’audace,/ Sente, che la Fortezza in lui vien manco,/ E dice, oh Dio, finir mi lascia in pace.// Già le oscure pupille il veglio chiude,/ Ma s’ode voce del divin Consiglio/ Su la Tiranna ria dall’osse nude:// Tolto all’Insubria il Genitor, l’esiglio/ Compia per te, ma della sua Virtude/ Il seme resti, e per me viva il Figlio.» (Componimenti…, p. 41).

Inquietante è anche la situazione evocata dal P. Antonluigi Carli della Compagnia di Gesù: «Figlio, cui diero lunghi voti al giorno,/ Dolce di vigil cura, e solo pegno/ Egro languiva, e d’atro velen pregno/ Morte il dardo girava a lui d’intorno.// Padre t’invola! Invan io lo distorno,/ che all’agitato cuor fatto sostegno/ Pende su lui, che qual da turbo indegno/ Sfrondato stel depone il capo adorno.// Tace la lingua; e’l cuor sol co’ sospiri/ Carco d’immenso duol si lagna, e i lumi/ Al ciel solleva con pensante ciglio.// Quali sciogliesse allor caldi desiri,/ Io non saprei, se voi nol dite o Numi./ So, che ‘l Padre morìo, e vive il Figlio. » ((Componimenti…, p. 52).

Le “utili” sollecitudini possono essere esasperanti quanto le “occhiate e parole sdegnose”  e Carlo, infine, si arrese. Una ventina di anni dopo, però, lascerà anche lui una testimonianza poetica: quel poemetto in cui conferma la propria “fede viva e sincera”, ma deplora il modo in cui gli fu impedito di vivere appieno la propria splendida giovinezza.

Quello fu un  sacrificio «crudele», cioè dispotico oltre che atroce.

Ed ecco, nella mia mente echeggia la voce accorata di un’altra adolescente: «finalmente non domando altro che di non essere sagrificata» (Fermo e Lucia, Tomo II, Capitolo II, p.147), perché vedo Carlo Imbonati – come Geltrude – indotto a sentirsi in colpa e a vergognarsi fino a desiderare un’espiazione che lo riabiliti agli occhi dei familiari.

Nel XVIII secolo, la sifilide era un morbo molto diffuso a Milano, anche tra i nobili, ma la famiglia Imbonati evidentemente la considerava una vergogna intollerabile. Perciò stabilì che, trattandosi di Carlo, non fosse mai nominata, ma si parlasse sempre di vaiolo e, in ogni caso, per porvi rimedio, si dovesse ricorrere al collaudato antidoto della distanza dal focolaio.

A futura memoria, il Giulini nomina due volte «il velenoso vajuolo», «il furioso vajuolo», e lo dice facilmente identificabile, per le «non dubbie insegne»: le «piccole, rotonde rosseggianti pustolette». Con l’autorità della propria scienza, accredita questa testimonianza lo zio materno di Carlo, il dottor Bicetti de’ Buttinoni, dichiarando nei suoi Versi Sciolti: «mentre geme e langue/ Sotto morbo feral l’unico amato/ Germe maschil della prosapia illustre;/ (Colpa del secol pigro al fido innesto)/ Giuseppe oppresso dalle ambasce estreme/ Invitto soffre la pungente spina» (Componimenti…, p. 72). (Non va dimenticato che il Bicetti, nel 1765 aveva pubblicato a Milano le Osservazioni sull’Innesto del vaiuolo, ponendovi in fronte l’ode L’innesto del vaiuolo, in cui  Giuseppe Parini lo aveva celebrato per aver introdotto in Lombardia l’inoculazione).

A me pare innegabile che la sopraffazione subita da Carlo Imbonati lo accomuni, per un momento, alla sventurata Geltrudina, “sacrificata” a un pregiudizio del proprio tempo.

Pertanto, vorrei che ci si soffermasse per davvero ad analizzare con la dovuta serietà l’avvertimento che l’autore del Fermo e Lucia lascia in eredità non tanto ai malintenzionati abituati a prevaricare (non vogliono lezioni), quanto a coloro che – “consci a se stessi della purità delle proprie intenzioni” –  rischiano di comportarsi come se il loro animo fosse privo di pregiudizi e li rendesse infallibili :

«V’ha dei momenti in cui l’animo massimamente dei giovani, è, o crede di essere talmente disposto ad ogni più bella e più perfetta cosa che la più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò che abbia una apparenza di bene, di sagrificio, di perfezione; come un fiore appena sbucciato che s’abbandona  mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze all’aura più leggera che gli asoli punto d’attorno. L’animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza, corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione non gli rivela col tempo che ciò che gli era sembrato una ferma e pura volontà non era altro che una illusione della fantasia.

Questi momenti che si dovrebbero ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal prudente consiglio in modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei quali tanto più si dovrebbe tremar e vergognarsi di chiedere quanto più grande è la disposizione ad accordare, questi momenti sono quelli appunto, che la speculazione […] dell’interesse, agguata e stima preziosi per legare una volontà che non si guarda». (Fermo e Lucia, Tomo II, Capitolo III, p. 152).

La sorte volle che Carlo, allontanato da Milano, potesse sperimentare il sistema educativo dei Padri Somaschi, del quale ormai sappiamo che poteva essere benaccetto, perché veramente incentrato su «massime e pratiche di Religione ragionata», vale a dire su «ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo, ciò che fa resistere alle passioni, e vincerle con una dolcezza superiore d’assai a quella che le passioni soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva dalla corruttela, e mette in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti» (Fermo e Lucia, Tomo II, Capitolo II, pp. 142 e 143). Insomma, un’educazione spirituale talmente appagante, che solo chi l’avesse ricevuta avrebbe potuto –  a mio parere –  essere in grado di affermare: «è uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di poter in qualunque circostanza dare all’uomo che ricorra ad essa, un rimedio, una norma, e il riposo dell’anima» (Fermo e Lucia, Tomo II, Capitolo IV, p. 175).

Ora non resta che verificare se quegli eccezionali maestri proposero ai “Cavalieri” affidati alle loro cure anche «occupazioni utili e interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli del corpo, confidenza rispettosa e libera [...] negli educatori, [che] sono i mezzi sicuri per trascorrere quella età perigliosa [la pubertà], e per formare una mente tranquilla, saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di tutta la vita» (Fermo e Lucia, Tomo II, Capitolo II, p. 142).