Inaudito Rimbaud

Rimbaud (da Wikimedia Commons)

Rimbaud (da Wikimedia Commons)

CARLO CARLUCCI

Tradurre Rimbaud fu un’improrogabile necessità verificatasi nel corso di uno studio, Guerra feroce e mortale al destino, che avevo dedicato all’opera del poeta di Charleville, in particolare alla sua parte più trascendente e visionaria. Il sottotitolo di quel libro – ora in e-book – è Le visioni di Arthur Rimbaud. Nel dovermi richiamare con una certa frequenza ai suoi versi, mi sono accorto che le varie traduzioni italiane esistenti si frapponevano in maniera stonata, stridente, appiattente, rispetto all’intensità della musica originaria.

Diceva Pasternak che, come l’originale, anche la traduzione deve riprodurre l’impressione della vita e non della letteratura. Pasternak — grandissimo anche come traduttore — ha spiegato come i movimenti del sublime-prototipo (ovvero il grande testo nella sua lingua originale) debbono essere riprodotti non teoricamente, ma concretamente. Pasternak richiedeva al traduttore di poesia – di riuscire ad “abbracciare l’inafferrabile”, partendo “dal nucleo dello spirito dell’originale”. È pur vero che su un piano puramente ipotetico le traduzioni sarebbero inattuabili, perché il fascino più profondo dell’opera d’arte sta nella sua irripetibilità, e che quindi l’unica traduzione possibile sarebbe quella che si pone essa stessa come un’opera d’arte tesa a raggiungere, nella comunanza del testo, lo stesso livello dell’originale. Pasternak sosteneva che anche il traduttore — come l’autore dell’originale —  doveva essere ‘ispirato’, così che l’ispirazione lo portasse ad elevarsi alla misura dell’originale. Questo contatto o questa osmosi si può dare solo dopo che si sia provato a lungo l’influsso dell’originale, giungendo in tal modo alla: “… più profonda riservatezza e accessibilità, a una diafana neutralità così che l’ascoltatore-lettore neppure avverta la lingua o se ne dimentichi, come se immagini e pensieri gli sorgessero spontaneamente nell’anima.

Un altro contributo decisivo mi è venuto dalle osservazioni di Giacomo Leopardi intorno all’arte del tradurre: varie note nello Zibaldone vertono infatti intorno alle grandissime disponibilità che ha la nostra lingua di mutarsi e  di variegarsi per adattarsi all’originale straniero. Leopardi, fin dall’inizio di quella straordinaria stesura del suo discorrere interiore, rileva come il traduttore debba avere due qualità discordanti: una naturale ricercatezza, ovvero una spontaneità studiata, posto che: “… uno dei principali pregi dell’originale consiste appunto nell’inaffettato, naturale e spontaneo, laddove il traduttore per natura sua non può essere spontaneo.” Nel tentare quest’impossibile, nel superare l’ossimoro, il traduttore è aiutato dalle dovizie dell’italiano: “… somma ricchezza, varietà, potenza, della nostra lingua, della sua pieghevolezza, trattabilità, attitudine a rivestirsi di tutte le forme, prendere abito diversissimo secondo qualunque soggetto che in essa si voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili …”. E siccome l’italiano nasce come aggregato di più lingue (vedi le matrici greco-romane, il volgare, la serie dei dialetti, le influenze straniere): “… nell’italiana è forse maggiore la facoltà di adattarsi alle forme straniere, non già sempre ricevendone identicamente, ma trovando la corrispondente e servendo come di colore allo studio della lingua straniera, per poterla dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria comprensione e immaginazione.” (Pensieri 964-965).

Il francese, lingua imperante d’allora, era in realtà dotata di un timbro pressoché univoco e quindi incapace di riprodurre in traduzione i molteplici registri delle varie lingue. E fu anche questo carattere monocromatico che favorì l’imperialismo culturale e politico della Francia. L’italiano invece poteva variare secondo “i soggetti, gli stili e i caratteri degli scrittori …”. E così accadeva che: “… lo straniero trova la nostra lingua difficilissima e intendendone un autore e passando a un altro non ne intende.

L’universalità del francese si basava per Leopardi sulla “poca bellezza, povertà, uniformità e aridità …”; ed era quindi avvenuto che l’Europa se ne fosse servita come: “… delle formule o dei termini di una scienza noti e facili a tutti, perché formati sullo sterile modello della ragione, o come di un’arte o scienza pratica, di una geometria, di una aritmetica, comune a tutti i popoli …”.

Il cambio netto, la rivoluzione nella lingua francese avvenne con la poesia simbolista: un grande balzo, volto a cercare di esprimere l’indefinibile. Il cammino era stato iniziato da Baudelaire e poi aveva subìto un’impennata straordinaria con Rimbaud (Valéry aveva lavorato sulla duttilità, la sonorità, gli accenti), Mallarmé avrebbe completato quella rivoluzione. Di Mallarmé e della sua lingua (ma il discorso è riferibile anche Rimbaud), così ha scritto Sri Aurobindo: “La lingua francese era troppo chiara e limitata per esprimere una verità mistica. Così, egli (Mallarmé) dovette lottare con essa e darle delle sferzate da una parte e dall’altra per poter arrivare a una sorta di linguaggio mistico, il poeta si rifiutava di accontentarsi di qualcosa che fosse meramente intellettuale, o addirittura di una qualsiasi resa intellettuale della sua visione. Ecco perché, se lo leggiamo in superficie, è assai difficile poterlo intendere.” Sri Aurobindo ancora utilmente osserva come la rima e certe regole di metrica nel linguaggio siano la chiave di volta, una sorta di meccanismo, che convoglia ed evoca, attraverso la sonorità e il ritmo, l’arrivo delle idee dal sublime. Quanto alla precisione di una traduzione, Sri Aurobindo ricalca l’osservazione di Pasternak: “La giusta regola sul rispetto dell’originale nella traduzione, esige che si tenga il più possibile vicino all’originale, mentre il risultato non deve essere letto come una traduzione ma come una poesia originale.

Il fulcro della poesia simbolista va visto nel suo tendere — e sono sempre le parole di Sri Aurobindo che ci proiettano a Le bateau ivre o a Memoire — verso: “… una verità vivente, una visione interna, una esperienza delle cose, così interna, così sottile, così poco appartenente al dominio dell’astrazione intellettuale, della precisione e dell’astrazione individuale, che non può essere rappresentata se non attraverso immagini simboliche e quanto più queste immagini hanno una verità viva, propria, che corrisponde intimamente alla verità viva che essi vogliono simbolizzare, e suggerisce la vibrazione stessa della esperienza, tanto più grande diventa l’arte dell’espressione simbolica.

Nel tentare di riproporre qui un’altra traduzione di Rimbaud, ero stato inizialmente indotto a pensare che il difetto delle traduzioni esistenti consistesse in improprietà lessicali, nell’assenza del mot juste, e incominciai a tradurre in quest’ottica senza azzardare la faticosa rima. Fatto questo primo tentativo e sottoponendolo ad uno spietato confronto con l’originale, mi accorsi che mancava il meglio, ovvero che il ritmo, la cadenza e l’atmosfera, erano legati alla rima, arco sonoro a sostegno dell’architettura del tutto. La nuova impresa si rivelò faticosissima e laboriosa ma, nel suo tendere verso il risultato finale, esaltante.

Ne I poeti di sette anni, la parte sensibile, ovvero scoperta dell’iceberg poetico, è di andamento piuttosto lineare, per cui lo stabilire le linee generali del senso e del significato non è troppo difficile. Le difficoltà insorgono nel modulare il verso sulle esigenze della rima: ad ogni tentativo di modellare in italiano le sonorità della prosodia, si altera la costruzione interna. A loro volta, i limiti lessicali impongono spesso la revisione dei termini finali inizialmente adottati, richiedendo nuove modifiche dell’asse del verso. L’esperienza esaltante sta proprio nella sensazione di dover ripercorrere passo passo, e dall’interno, il processo creativo del poeta. In questo procedere si aprono come d’improvviso le porte dell’interpretazione, si scopre che si possono valicare limiti altrimenti insorpassabili. Prendiamo il verso: “Il écoutait grouiller les galeux espaliers”. Suzanne Bernard, grande esegeta dell’opera di Rimbaud, in una nota dice che si sarebbe compreso di più se, invece di ‘espaliers’, Rimbaud avesse usato ‘escaliers’, ‘scale’. ‘Espaliers’, di etimo italico, letteralmente sta per ‘spalliera’ e in italiano, in botanica, ha l’accezione di ‘filare di piante allevate su una intelaiatura fissata al muro’. In francese, l’accezione è quella di un ‘filare di alberi che si piantano lungo un muro a mo’ di sostegno’. Mentre l’accezione italiana è di accesso estremamente limitato (perché scientifica) — ove avessimo tradotto ‘spalliera’, nessuno avrebbe inteso un filare di alberi, — in francese no, il filare d’alberi a sostegno d’un muro è accezione comune (Delhaye, amico di Rimbaud, riferisce che in quel periodo Rimbaud recitava a memoria una poesia di Banville, dove vi era il verso “Il sole ride sulle bianche spalliere (di alberi)”). Se noi avessimo tradotto “filare d’alberi”, avremmo appesantito. Restavano ancora due problemi lessicali su ‘galeux’, che sta per ‘scabbioso’, ‘rognoso’, e ‘grouiller’. ‘Grouiller’ è un termine che viene dal franco e che indica, vuoi il brulichìo di vermi, vuoi brusìo — per l’onomatopeia —. Gli esegeti francesi hanno pensato che Rimbaud si riferisse a un ‘filare d’alberi’ accostati a un muro, marciti e invasi da parassiti. Che il piccolo Rimbaud, rimanendo affacciato alla finestra, potesse effettivamente sentire il rumore dei parassiti al lavoro all’interno della corteccia degli alberi di sotto, parrebbe poco probabile. A tutto ciò aggiungasi l’ulteriore problema della rima, in francese: ‘espalier’-‘familier’. Trattandosi di un quartiere operaio era possibile che (è la nostra interpretazione) vi fossero delle staccionate a separare fra sé o dalla strada le corti interne e che quel ‘grouiller’ potesse anche riferirsi al brusìo degli umani. Dovendo finalmente dare un’accezione a ‘espaliers’, abbiamo optato per ‘steccati’ e per quanto riguarda la rima del verso successivo, (“Pitié, ces enfants seuls étaient ses familiers”), abbiamo così reso: “Ascoltava da scabbiosi steccati i formicolari. / Pietà! Solo quei bimbi eran suoi familiari ”. Con questa serie di interventi successivi abbiamo salvato l’esigenza della rima e dato un senso recepibile in italiano. Intervenendo  poi con il ‘da’ in luogo del complemento oggetto utilizzato da Rimbaud, abbiamo potuto lasciare impregiudicata l’origine di questa fonte del formicolare, che può venire, vuoi dal lavorìo degli insetti nel legno marcito, vuoi dal brusìo degli umani.

Nel dilungarci su queste varie fasi verso la resa finale, abbiamo potuto forse esemplificare le tappe quel processo di identificazione col procedimento creativo del poeta. Quanto ai rilievi di Leopardi sulle capacità e duttilità straordinarie della nostra lingua, prendiamo questa rapida descrizione della madre di Rimbaud: “… Elle avait le bleu regard, — Qui ment!”, che la curatrice e traduttrice nell’edizione mondadoriana Diana Grange Fiori ha reso: “Lei aveva lo sguardo azzurro che mente!”, mentre noi proponiamo: “Ella aveva lo sguardo azzurro di chi mente!”, ricalcando e forse anche superando la sonorità ritmica dell’originale, senza travisarne in alcun modo il significato.

Nel famoso sonetto Vocali, scritto a Parigi nella primavera del ‘72 (già Baudelaire aveva parlato di analogia fra colori, suoni e profumi nel sonetto, Correspondances), Rimbaud gioca sull’associazione vocali-colori e sulle immagini che ne scaturiscono in liberissime associazioni. Le vocali rappresentano la sonorità, la viva voce di una lingua, e qui il rispetto dei rimandi della rima è vitale. (Nelle prime due quartine, la rima gioca a-d e b-c; nelle due terzine è a-b e a-b e c-c).

Nella prima quartina, il poeta rima: “Voyelles” con “Puanteurs cruelles”, ovvero ‘vocali’ con ‘fetori crudeli’. In italiano, vista la necessità di rispettare al massimo sonorità e prosodia, posto che il poeta con ‘fetori crudeli’, aveva utilizzato l’aggettivo palesemente in funzione di sonorità espressiva, abbiamo preferito trasformare il ‘crudeli’ in ‘infernali’ (tra l’altro, ‘fetori infernali’, salvando la rima, raggiunge una espressività connotativa forse anche e maggiore di ‘crudeli’).

Nella coppia di versi interni Rimbaud rima “Naissances latentes” con “Mouches éclatantes”. La Grange Fiori ha tradotto ‘nascite latenti’ e ‘mosche splendenti’, cercando — eccezionalmente — di rimare. In italiano, ‘mosche splendenti’ non è efficace né funzionale, soprattutto stando a quanto precede: ‘nero corsetto villoso di mosche’. Le mosche che s’aggrumano su questi fetori infernali definite poi ‘splendenti’ è immagine poco consona. Noi abbiamo preferito conservare il vocabolo francese traducendo ‘eclatanti’. ‘Eclatante’ in italiano è un francesismo, e il termine francese deriva dall’étimo franco “Slaitan”, che sta per ‘rompersi’, ‘spezzarsi’ (producendo un rumore). Nella derivazione metaforica, ciò che produce rumore attira l’attenzione e quindi si impone e di qui, per traslato, si può anche ammirare. Dunque Rimbaud, che come tutti i grandi poeti ‘viveva’ fisicamente senso ed étimo, nel rappresentare questo groviglio di mosche, voleva darne anche la rappresentatività sonora utilizzando l’aggettivo, “éclatantes”; di qui l’arbitrarietà di trasformare ‘eclatanti’ in ‘splendenti’.

La quartina senza titolo, che inizia con “L’étoile a pleuré rose au coeur de tes oreilles”, va vista come una sorta di blasone del corpo femminile, dove ogni verso è costruito nella stessa forma e con la cesura ogni volta di un aggettivo di colore, ‘rosa bianco, rosso e nero’. La nostra traduttrice rileva come questa quartina sia considerata, nella sua composizione formale, uno dei punti più alti di tutta la letteratura francese, ma ne opera una traduzione letterale assolutamente letale e con una grossa improprietà, laddove traduce: “Mammes vermeilles”, con ‘mamme vermiglie’. In francese, ‘mammes’ per mammelle, è arcaico ma comprensibile; in italiano ‘mamme vermiglie’ non può avere alcun riferimento alle mammelle.

Ne Il battello ebbro, la più celebre delle poesie rimbaldiane, sonorità, ritmo, rima, sono corpo inscindibile che determina significato e senso profondo. Nel cuore del poema vi sono i punti dell’ascesa del battello che va alla deriva verso la grande visione. La traduzione della Grange Fiori è puntuale, è letterale, rispettosa del senso, ma spegne e soffoca completamente l’alito e l’afflato che urgono dietro la successione delle visioni: “Ho visto gli arcipelaghi siderali! E isole / dai cieli deliranti aperti al vogatore: / — In queste notti immense tu vai in esilio e dormi, / Stuolo d’uccelli d’oro, o futuro Vigore? -

Passando al periodo delle canzoni “infantili, rustiche, naïf, gentili”, così come le ebbe a definire il poeta in una lettera a Delhaye, ci ritroviamo nella fase del declino della poesia e del suo richiamo. Il poeta passerà subito dopo a testimoniare in quella sua prosa scattante, rapida, apocalittica, inaudita. E poi sarà la fine con l’esilio da tutto e da tutti.

All’epoca, Verlaine scriveva dei versi simili in Romances sans paroles e in Ariettes oubliées. È possibile che abbia influito su Rimbaud nella scelta di queste forme, premonitrici della crisi che incombe nel suo animo e nel suo spirito, imminenza del prossimo addìo definitivo alla veggenza e alla poesia. Assai presto, Rimbaud si sarebbe reso conto che non era utilizzando forme più elementari e primitive che sarebbe riuscito a dare voce profonda a quanto lo ispirava.

Qui, per il traduttore insorgeva un nuovo problema: ritrovare in italiano — nel mutato apparato esteriore — l’esatta corrispondenza, l’esatto stile, per l’imitation dell’originale.

Nelle canzoni più calibrate e famose, La canzone delle torre più alta, L’eternità, Età dell’oro, O stagioni, o castelli, il ritmo è fluido, la rima è indifferentemente o baciata o alternata, i rimandi sono brevi. Una traduzione di tipo letterale e prosastico automaticamente annulla qualsiasi effetto e qualsiasi atmosfera e quindi sovverte la portata dell’originale. Diamo qualche esempio; Rimbaud: “Oisive jeunesse / A tout asservie, / Par delicatesse / J’ai perdu ma vie.” La curatrice dell’edizione mondadoriana ha così tradotto: “Gioventù oziosa / Tutta asservita / Per delicatezza / Ho perso la vita.” Mentre la nostra: “Oziosa giovinezza / Che a tutto sei asservita, / È per delicatezza / Che t’ho perduto vita.” Dalla poesia L’eternité (da cui Marguerite Yourcenar trasse il titolo d’un suo libro): “Elle est retrouvée. / Quoi? — L’Éternité. / C’est la mer mêlée / Au soleil.” Così la Grange Fiori:[1]É ritrovata. / Che? L’Eternità. / È il mare andato via / Col sole.” Mentre la nostra interpretazione o imitation dell’originale: “Ecco, s’è ritrovata. / Che? — L’eternità volata. / Del mar la distesa se n’è andata / Via con il sole.” In Età dell’oro, così Rimbaud: “Quelqu’une des voix / Toujours angélique / — Il s’agit de moi / Vertement s’explique.” Così la traduttrice: “Qualcuna delle voci, / Angelica sempre / — Si tratta di me — / Vivace si spiega.” E così invece la nostra: “Una qualche voce / Angelica e felice /  — Che sempre a me conduce —  / Nudamente dice: …”.

(Foto: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Arthur_Rimbaud_by_Carjat_-_Mus%C3%A9e_Arthur_Rimbaud_2.jpg)


[1]     Nella sua Nota sulla traduzione, la Grange Fiori a proposito di questi versi parla di uno “sbarramento dell’impossibile”, che “nella parsimonia dei quattordici ‘mots’” (tutta la strofa) ciascuno di essi riveste un’importanza realmente assoluta … che l’iniziale rotondo elle est avrebbe come corrispettivo il nostro aguzzo “è” (e noi abbiamo ‘leopardianamente’ ovviato con ‘Ecco è’, agendo sulle sonorità tipiche della nostra lingua). E il nostro semplice ‘che’ è assolutamente paritetico al ‘quoi’ francese e non un pò ricercato. E qui le osservazioni che seguono della curatrice mondadoriana permetteranno di meglio giudicare la nostra traduzione: “Qui più che mai, la densità del significato viene ‘espulsa’ dal verso con una forza violenta, rapida (la terribile célérité di Rimbaud), che si esprime anche mediante l’assonanza, la rima e il ritmo che ne consegue … Non sono più rime, scansioni del verso. È il suo respiro. E si tratta in certi casi di veri e propri colpi di gong, magari in sordina, ma di risonanza abissale: che unita alla perentoria unicità della parola crea una folgorazione, non ripetibile.