B.C. alla SOMS

DSC_8971 h768PATRIZIA GHIGLIONE (a cura)
Tutto sta nel “perméo”; la Società Operaia è permeata in un modo ben preciso. C’è ovunque un sentore risorgimentale, nelle suppellettili come nell’aria.
Il locale ha un che di misterioso. C’è l’alloggio del bidello, che sarebbe il gestore. Poi c’è la sala del biliardo, permeata di suggestioni. Poi c’è il salone dove si gioca a carte; anch’esso con il “perméo”.
Poi c’è la sala degli stendardi: ivi, lì, c’è la lettera autografa di Giuseppe Garibaldi.
Poi c’è la strettoia che conduce alla sala da ballo, che ha un che di Carboneria. Tutto il “permeo” della Società, del resto, ha un che di Carboneria: i leggendari moti del ’21, il Santarosa, nato a Savigliano.
Al salone da ballo segue il vestibolo; poi, un’uscita misteriosa con gradini sinistri.

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Mi ricordo, ai tempi aulici, il venerdì sera, quando finivo il turno di lavoro; prima cosa che facevo, andavo a trovare le emozioni della Società Operaia; piena di persone schiette e genuine, colma d’amore.
Sedendomi ai leggiadri tavolini, sentivo lo schioccare di odori sopraffini, profumi sacri del sangue risorgimentale.
Ecco, al tavolo vedevo Luigi M. che, già leggermente ebbro, intonava canzoni. Ricordo, in particolare, l’aria della Fanciulla del West:  «ch’ella mi creda libero e lontano, sopra una via di redenzione..» cantava, con la sua voce gialla.
A sinistra, s’udiva la moglie del bidello, che mi chiedea «sei stanco?», «se son qui il mio spirito si rinnovella» io rispondea, «Per cortesia, preparami pane e acciughe sì che mi possa rifocillare spirito e corpo».
Il biliardo si infervorava: attirato dal tumulto, mi accingevo alla sala, sedendomi di lato, per non disturbare i contendenti. Qui trovavo Battista Murazzano che mi salutava con calore. Ormai la notte  era alta: decidevo una visita ai locali, per rifocillarmi il gaudio. Mi recavo nella sala degli stendardi, onde insinuare in me spiriti ottocenteschi: lo scricchiolare della porta, che gentil suono ai miei orecchi.
Un’imago mi richiamava all’ardore bambino: il ritratto di Mazzini ancor mi rimembrava il sangue versato.
Deh, Inghilterra, fautrice di nazioni, che al sogno tricolore hai nutrito gli animi.
Nella strettoia carbonara mi soffermavo, per trovare mute emozioni: qualche attimo ad ascoltare tempi ormai andati; sì che al mio spirito l’audace sacrificio giungesse grato.
Procedendo alla sala delle danze, un’aria di festa mi invadeva, pensando al ballo del sabato: guardavo in modo enfatico, procedevo in tondo e in largo, speranzoso che il gaudio del domani fosse grande. Piccola festa solo, ma per me grande tripudio.
Mi accomiatavo, ormai, e negli occhi già serbavo le immagini future.

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Alle otto del sabato entravo dalla caratteristica porta a molle.
Aggirando sulla sinistra il bancone, effigiato da discorsi ad oro, scorgevo la figura del bidello che, con gioia, mi chiedeva «Come stai?». «Bene, grazie» io, più contento di lui. «Due toast e due punch all’alpestre».
Presentivo già i profumi alpini, che gaudio estremo, quel sentor. Profumi graditi anche al mio ciglio, versante gioia infantile; la stanza tutta mi attorniava di magie.
Mi accingevo, dunque, ad assaporare il gusto estremo del pane appena tosto. Quindi, sorseggiavo: odori di montane gesta, scampanìo di armenti.
Girando lo sguardo al resto del salone, ancora un’emozione antica, richiamo di pugne lontane, mi giungeva.
Ormai il cerebro si ottundeva, inondato di ebbrezza; non più limpido e vivo, ero: l’alpestre, tanto soave al gusto, mi riduceva al bieco. Così mi alzavo, saturo di sogni.
Quand’ecco, incominciava il sentor di danze. Mettevo poche lire nel vaso sì che il cammin mi fosse preposto, entravo nella sala da ballo.
Scintillìo e scampanìo. Donne in vesti arianti, ah che scintillìo, che scampanìo; che gioia di vivere. Sol io, già fatuo e stanco, mi ritiravo in disparte a rimirare.
L’orchestrina, infingarda, iniziava il trascenio. Una vampata di rossore a cotanta scena vasta, mi infiammava. Non di ballo, certo, dovrò sperar, ma almeno il guardo, a cotante fanciulle, potrò vantar. Basta, basta vin: destato, vogl’essere, sì che il mio occhio possa dalle figure trovar capriccio.
La notte è alta: andrò ancora ad ascoltare il sentor del Santarosa, per ridestare l’occhio e il cor. Per rimirar le arcane, schiuse atmosfere alla sala accedevo, degli stendardi vivi. Poi, rinnovellato, all’angusto vestibolo procedevo. Di lì, verso il ballo, con rinfrescato cuor.

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Schiuma di vesti danzavano alle arie effigiate di nobili apparenze. Apparenze soltanto, ma quale piacer.
Continuava così, tra tempi e contrattempi, procedevano e incalzavano i balli, sarchianti un suolo ormai stanco.
Ed ecco, a destra: «deh, prendi un bicchiere!» «Giammai», rispondevo, «vili! Volete smorto, ormai a prima ora, il meschino? Sol beceri, all’abbrivio bambino, volete immolarmi?».
Ancor volevo bearmi: come potevo, senza il ballo tanto agognato?
Quanta chioma di sarti, quanto schiumor di vesti.
Tra tanta vista, allora, un fermo intento si insinuava: arretrerò al banco dorato e un tepido, ancor, alpestre dei profumati lidi alpini, berrò.
Silente, il bidello si accostava. «Un tosto e un leggiadro elisir», ordinavo. «Ti vedo alticcio» replicava, «a casa torna».
Ma io, ormai prensile al vizio, tenacemente insistevo: «un, sol uno ancor».

Ricordi di Bruno Capellino

Fotografie di Ugo Blengini