Monologhi estremi: Didone

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SILVIA PIO

È partito.
All’alba mi sono avvicinata alla finestra e ho visto le navi prendere il largo. Allora ero ancora la regina Elissa, ed ero ancora viva. M’ingannavo, ma ero viva. Riversavo la colpa su di lui e mi evitavo la consapevolezza. Lui era il responsabile del mio dolore, quindi esisteva salvezza.
M’ingannavo.
Poi l’intelligenza fece calare l’ultimo velo. E decretai di morire, ordinando il tempo e il modo.
Enea. Amore. Mio.

Come sembra dolce ora il tormento pesante del fuoco, quel fuoco d’amore che mi bruciava.
Arrivò il re straniero e chiese asilo, un uomo di grande valore, con storia d’eroe e voce di miele. La sera, dopo il banchetto, raccontò il suo viaggio. Presi suo figlio sulle ginocchia e mi preparai ad ascoltare, bevvi le dolci parole accarezzando il fanciullo con gesti appassionati.
I giorni seguenti volli da lui sentire ancora il racconto e mai mi stancavo di guardarlo negli occhi mentre parlava. Un fuoco d’amore mi consumava. Non avevo pace, né riposo. Onore e ragion di stato erano parole che rimbalzavano contro il mio cuore senza scalfirlo. Bruciavo e ancora non sapevo che dolce mi sarebbe sembrato quel pesante tormento.
Feci approntare la caccia fastosa e mi abbigliai da quel che ero: regina in cerca di preda. Sapevo di essere preda io stessa e aspettavo, ardente, di essere cacciata. Venne il temporale che ci fece rifugiare nella stessa grotta, soli.
Quel giorno fu il primo passo verso la morte.

Io ho voluto che tutto si svolgesse in quel modo. Ho avuto il coraggio di desiderare un uomo, ho avuto l’ardire di chiamarlo mio sposo e di pensare che fosse per sempre. Che amore meschino è quello che non crede alle nozze e all’eternità.
L’ho amato, e ho desiderato quel che non potevo avere.

Ho sempre combattuto il destino e tante volte ho dimostrato coraggio e astuzia. Quando il mio fratello infame Pigmalione uccise Sicheo marito adorato, non mi arresi ad una morte disonorevole o ad un futuro di schiava nel mio stesso paese. Partii guidando i miei uomini come fossi uomo io stessa ed arrivai in terra d’Africa. Il capo Iarba, con il quale dovetti trattare, pensò che sarebbe stato facile ingannare una donna e farne una sposa-serva: fui io ad ingannarlo.
Cartagine è creatura della mia lotta.

Non voglio pensare a Cartagine, non voglio ritornare vicina alla vita. All’incanto dell’amore voglio pensare, alla durezza dell’amore impossibile, alla solitudine. Alla certezza che continuare a vivere non mi è dato.

È partito. Enea è partito.
Quel che temevo è accaduto, e pure me lo aspettavo. È arrivato il tempo della fine. Ma voglio ricordare ancora, perché tutto sia ben presente al momento del distacco estremo. Ricordare la felicità persa per sempre aiuta a staccarsi da questo dolore che ha ancora un vago sapore di vita.
Ho desiderato che Enea diventasse mio sposo, in un angolo della mia mente ancora ero regina: ho visto le nostre genti avere un futuro comune. Mai un inverno fu così felice per la donna ch’ero diventata. Senza pudore sciolsi il voto di fedeltà a Sicheo, che pure amai e piansi, ma che fu morto da allora. Diventai grumo di vita tra le braccia di Enea. Il tempo passò schermato dalla tenda della camera da letto, che tenemmo sempre accostata.
Chi ha provato almeno una volta la gioia di un abbraccio d’amore corrisposto non darà ascolto alle voci che infangano Didone e non chiamerà colpa il tradimento di un morto, l’oblio dei doveri, l’audacia del desiderio.

Ogni incanto ha breve durata. Ma l’incanto tra persone che sanno l’impossibilità del loro amore è sempre più lungo, perché ogni giorno è strappato al destino.
Ho desiderato di combattere la sorte, ma l’ho fatto da sola. Enea sapeva che sarebbe partito, aveva un segno negli occhi e i suoi occhi erano per me un presagio che spesso ho voluto ignorare. Ma non ho potuto più ingannarmi quando giunse voce che le navi troiane si preparavano a salpare. Allora fui sopraffatta dall’ira, ed ero ancora viva.
Sapevo che Enea non stava tramando alle mie spalle, che prima o poi avrebbe dovuto decidere la partenza, che se solo avesse potuto, o saputo, sfuggire al suo destino sarebbe rimasto con Didone.
Amore, mi chiamava… amore, baciandomi la fronte… amore, e le sue mani carezzavano il mio viso senza stancarsi…
Mai più, ormai mai più. 1
Lo sapevo, ma ho voluto accanirmi contro di lui per ingannarmi ancora.

Le parole di una donna che si crede ferita sono lame roventi che devastano.
Recitai la mia parte: Spergiuro. Empio. Mi uccidi. Ti prego. In nome dell’amore. Non lasciarmi in balia della sorte.
Enea recitò la sua: L’immagine di Anchise mi sconvolge. Ascanio merita il regno d’Esperia. Non torturarmi col tuo pianto. Sono costretto a cercare l’Italia.
Ci lasciammo come due nemici, negandoci l’ultima complicità. E ancora tante parole restavano non dette, le più sincere.

Quella prima separazione aveva già odore di morte, ma la disperazione di allora nascondeva ancora consolazione. Lui era poco lontano, le sue navi ancorate saldamente alle spiagge di Cartagine.
“La stagione non è propizia, aspetteranno a partire. Se ho potuto prevederlo, questo dolore, saprò anche sopportarlo”, dissi ad Anna, “ho soltanto bisogno di tempo. Vai sorella, vai da Enea, pregalo di concedermi un ultimo dono e di aspettare a salpare, perché Didone si ammaestri nel soffrire”.
L’orgoglio diventa supplica, la supplica, speranza.
La speranza si nutre di inganni all’intelligenza.
La sorella andò alle navi e pregò Enea di aspettare. Enea pensò, e si sbagliava: prima parto, prima Didone inizierà a dimenticare. La supplica, quindi, non fu ascoltata.
Stamattina ho visto le navi allontanarsi, la speranza s’è frantumata e sta in cocci sul pavimento. Non posso più ingannarmi. È partito.

Sono rinata quando l’ho amato. Donna nuova, finalmente donna. Ho combattuto col desiderio contro una separazione già scritta, ma ho perso. Ho perso così la nuova esistenza, trascinata via dalla sua nave. La collera è stata l’ultimo singhiozzo di vita, poi s’è spenta anch’essa.
Sono rimasta sola, cosa in rovina e abbandonata. 2
Infine ho strappato l’ultimo velo, tutto è diventato chiaro davanti ai miei occhi: sono morta, perché ero fatta di lui, e se l’amore non mi ha ingannata, anch’egli morirà. Ma un eroe ha cento vite, se morirà all’amore, rinascerà alla gloria, vedrà nuovi luoghi e nuova gente, dimenticherà Didone e la mia morte si compirà perfetta.

Anna, sorella, amica, ti ho lasciato credere che vivrò. “Ho trovato la strada”, ti dissi, “preparami un rogo, che possa distruggere il ricordo dell’uomo che mi ha abbandonata e i segni del suo passaggio: le vesti, le armi, il letto sul quale fummo sventuratamente felici. La spada, la sua spada gettiamo sul rogo”.
La pira è pronta, la spada di Enea mi aspetta. Ancora un attimo, sorella, gioisci della volontà della regina.

Il giorno in cui le navi arrivarono a Cartagine, dodici cigni scamparono agli uccelli da preda nascondendosi nella città. Enea mi raccontò che per lui fu un augurio fortunato: i Troiani, come i bianchi volatili, avrebbero trovato rifugio nella terra di Didone. I cigni volarono in cerchio e atterrarono entro le mura, già dimentichi del pericolo appena passato.
Credevo sarebbero rimasti, sono partiti invece stamattina verso la terra del fato.

Anna, pensi che dimenticherò. Ma quale amore tanto grande può sparire nell’oblio? Tutto è caduco, dici, tutto viene dimenticato, e credi che io accetti tale legge divina.
Ho avuto la ventura di un cuore grande che mi dà la forza ancora di oppormi alla sorte. Mi uccido perché sono padrona della mia vita, perché la mia vita e il mio amore restino grandi come ora, per sempre. Mi uccido per non dimenticare.

Ancora un attimo, Enea. La tua spada sarà dolce come la tua mano quando mi carezzava il seno. Coraggio a te che resti col peso del tuo destino d’eroe. Didone non si arrende ad un destino cieco. Didone decide per sé.
Ecco, adesso.


1 Il corsivo è tratto da Ungaretti, opera citata nella bibliografia.
2 Idem.
(Foto di Lorenzo Avico)
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Monologhi estremi è una raccolta di monologhi autopubblicata.
Dalla prefazione di Giuliana Bagnasco: «Silvia Pio dà voce e volto a figure femminili della Storia e della Letteratura, lasciando emergere “la diversità” della condizione femminile in un intreccio di relazioni che coagulano nello spazio dell’autentico, della genuinità. Dalla posizione storica di ciascuna si illumina con chiarezza, anche solo un sottofondo, una cornice, che, grazie al coraggio dello sguardo, trova un suo luogo privilegiato nella parola che la esprime, attenta ai movimenti dell’anima e del corpo. Solo la sensibilità femminile riesce a riferirsi ad altre donne con la capacità di guardare nell’interiorità più profonda. La parola di una donna appartiene ad un ascolto interiore che rifiuta ogni schermo simbolico. Nei monologhi Silvia Pio parla infatti all’intimità delle donne prescelte alle quali presta il verbo senza cadere nell’intimismo, svela potenzialità emotive, risonanze psicologiche acute in una parola ad alta frequenza evocativa. Le tappe della vita di ciascuna delle sue figure sono ripercorse come confessione, anamnesi, pur rifuggendo da ogni compiacenza psicologica. Si offre dunque una ricognizione per epifanie, deliri, nenie, liriche, disvelamenti, apparizioni in cui irrompe l’arcano delle creature.»