Il pozzo e l’ago

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GABRIELLA MONGARDI

Ho letto un libro toccante, soave, bellissimo. Illuminante e penetrante. Arricchente e confortante.
Non è un romanzo né una raccolta di poesie, ma un saggio “intorno al mestiere di scrivere”. Scritto da uno che sa scrivere. E sa farsi leggere. E farsi ascoltare. Uno che insegna anche quando dice di non volerlo fare, anche se non vuole darlo a vedere. Insegna perché è un vero professore, nel senso più alto e nobile del termine. Cioè è innanzitutto un uomo di studio e di cultura, che mette la cultura al servizio della vita. E degli altri. Non ne fa sfoggio, non la fa pesare calandola dall’alto di una lingua ermetica, specialistica, da addetti ai lavori, ma nemmeno la svilisce appiattendola nella banalità della chiacchiera, nell’ossequio alle mode. È un uomo che crede alla Cultura intesa come patrimonio di conoscenze che permette di vivere con più equilibrio e consapevolezza, che arricchisce di umanità, che aiuta a morire più serenamente. Per questo insegna, per condividere la cultura con gli altri, per comunicarla agli altri: perché la persona davvero colta disdegna le torri d’avorio. E osa.
Perché ci vuole del coraggio, oggi, per scrivere un libro come questo, “intorno al mestiere di scrivere”, sperando di avere più dei venticinque lettori di manzoniana memoria…

Eppure, a mio giudizio, questo è un libro per tutti, non solo per scrittori o aspiranti tali – a cui Beccaria dichiara esplicitamente di non voler dare precetti: è un libro destinato soprattutto a lettori desiderosi di capire meglio “com’è fatta” un’opera letteraria, che è essenzialmente “uno spazio per l’irruzione dell’immaginario e dell’invenzione”, lettori che finiranno con l’avere tra le mani una bussola per orientarsi fra le migliaia di titoli sfornati annualmente dall’industria editoriale, ma soprattutto un potente quadro d’insieme della letteratura, occidentale e non solo: una sintesi tratteggiata con la concretezza del linguista e l’acutezza dello storico della lingua e della cultura che attraverso essa si manifesta.

Con uno stile affabile e accattivante, di esemplare chiarezza, Beccaria esamina lo scrittore al lavoro, dedicando ogni capitolo sia alla narrativa che alla poesia, da Omero a oggi, e spaziando anche nella musica e nell’arte figurativa. Nel delineare i cambiamenti prodottisi a partire dall’Ottocento nella comunicazione letteraria, e culminati nella rivoluzione informatica, il suo non è certo l’atteggiamento del laudator temporis acti, ma quello dello scienziato che studia un fenomeno per comprenderlo e descriverlo al meglio – anche se nella premessa dice umilmente di essersi mosso “in modo rapsodico più che sistematico”. Ben vengano le “rapsodie”, se hanno un che di socratico, di maieutico come queste, e coinvolgono il lettore come uno scritto sistematico non saprebbe fare!

In letteratura, per secoli, il rapporto autore-lettore si è sviluppato sotto l’egida di tradizione, memoria, continuità, imitazione, allusione, nella convinzione che “ci fossero più cose dentro i libri che fuori”: oggi, palesemente, non è più così, ma restano alcuni punti fermi per riconoscere le opere di valore distinguendole da quelle che sono soltanto oggetti d’uso, letteratura di consumo.

Il primo di questi criteri è quello che Beccaria, nel cap.VIII, chiama l’ “allontanamento”, ma che enuncia a chiare lettere fin dal terzo capitolo: «Resta a mio parere un segno distintivo del valore letterario di un testo il non restare schiacciati dalla realtà, né riprodurla, rispecchiarla, trascriverla»; «L’infingimento è il sale della letteratura, più vera del vero». Il secondo è la “lavorazione” del testo, il “lavorio” su di esso: non bastano la cosiddetta ispirazione, né i buoni sentimenti, né l’abbondanza di emozioni, né la facilità affabulatoria per fare letteratura. E per “lavorazione” del testo Beccaria intende proprio la capacità e la pazienza dello scrittore di «stringere materialmente alleanze delle parole con le circostanti per armonizzare il mosaico», quindi lo scrivere, correggere, riscrivere, riscrivere ancora… Il terzo punto fermo è quello che Leopardi chiamava l’ardire: il coraggio di evitare la banalità espressiva, le parole troppo scontate, prevedibili, piatte – o l’energia per rivitalizzarle, reinventarle. Leopardi è un vero nume tutelare per Beccaria, che lo definisce “il sommo dei lirici, coi suoi versi leggeri come soffi sonori” e chiude nel suo nome il libro, citando il manoscritto delle Operette Morali come «una delle più commoventi testimonianze della nostra letteratura di “sudate carte”».

In un futuro imminente, anzi già presente, lo scrittore non suderà più sulle carte, ma sui tasti di un computer o di un tablet, e il lettore non sfoglierà più pagine di carta, ma le visualizzerà su uno schermo: rimarranno però immutati il mestiere di scrivere un testo di valore – arduo e improbo come scavare un pozzo con un ago, secondo lo splendido detto turco che dà il titolo al saggio di Beccaria – e il complementare, vivificante mestiere di leggere.