L’Occitania è viva nella musica dei “Lou Dalfin”

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GABRIELLA MONGARDI
Quello tenuto dai Lou Dalfin lo scorso 7 febbraio al teatro Baretti di Mondovì poteva sembrare un concerto occitano o un concerto rock o ancora, come suggeriva il titolo, una “Vijà”, una veglia come quelle che si facevano una volta attorno al camino o nel tepore delle stalle, riempiendo di racconti il buio della notte, ma in realtà era contemporaneamente queste tre cose e anche altro: era una performance poetica/teatrale e un’operazione altamente culturale, di rivitalizzazione di una tradizione languente nell’unico modo possibile, ricreandola, perché “una tradizione è veramente morta se la si difende invece di inventarla” (Paul Veyne). È quello che ha fatto con la musica occitana Sergio Berardo, fondatore e anima dei Lou Dalfin da oltre quarant’anni, inventandosi il genere del “ballo-canzone”, canzoni da ballare, balli da ascoltare – quelli che sono stati proposti, nel concerto al Baretti, da Sergio Berardo (voce, ghironda, flauti, cornamusa); Dino Tron (organetto, fisarmonica, cornamusa); Mario Poletti (buzuki, mandolino); Riccardo Serra (batteria); Carlo Revello (basso); Enrico Gosmar (chitarra elettrica).

Prima di eseguire un brano, Berardo traduceva il testo occitano della canzone, quasi sempre composto da lui stesso, ispirandosi a episodi della storia e della vita dell’Occitania, sulla musica delle danze popolari – farandola e rigodone, bourrée e contraddanza, courenta e balèt, mazurca e valzer, scottish e chapelloise: stava allo spettatore scegliere se seguire semplicemente il ritmo delle danze tradizionali, da ballare solo “nella testa”, oppure farsi travolgere dal “sound” rock della band o ancora lasciarsi coinvolgere dalle storie drammatiche o ironiche raccontate nelle canzoni, dalla poesia ormai universalmente riconosciuta di Berardo, vero “delfino” del regno poetico della Provenza medievale, degno erede degli antichi trovatori.

Dal ricordo della mitica Reina Jano (Giovanna I d’Angiò), a quello degli abitanti di Tolosa annegati nella Garonna dai Crociati (al tempo della crociata contro gli Albigesi); dalle vicende dei valligiani emigrati in Argentina, in Francia, a New York ai soldati di Languedoc che all’inizio dell’Ottocento partono per la campagna di Russia di Napoleone, a quelli che ai primi del Noveceno rifiutano di sparare sui vignaioli, per arrivare all’oggi, al concerto del ribelle Manu Chao del 2012 a Cuneo o ai villeggianti di città che si rifugiano in montagna, snaturandola: ogni “canzone a ballo” è la tessera di un mosaico in cui passato presente e futuro si mescolano grazie alla tecnica, insieme antica e postmoderna, della contaminazione, che dissolve ipso facto tutte le antitesi di cui i Lou Dalfin potevano restare prigionieri – fra locale e globale, tradizione e modernità, Heimat e cosmopolitismo. Questa “contaminazione” è evidente già nella formazione del gruppo, che affianca agli strumenti acustici della tradizione occitana gli inserti moderni di batteria e chitarre elettriche, e nella combinazione degli stilemi “duri” del rock con i ritmi allegri e vivaci delle danze occitane.

Quella dei Lou Dalfin è una musica che ha la sua profonda ragion d’essere nel legame con una terra, una storia, una cultura, una lingua, ma trova la sua più vera libertà nel fatto di essere “marginale”, perché – come ha ricordato Berardo citando il poeta occitano Joan Bodon: «Sul bordo del campo è la libertà».

Prima dell’inizio del concerto Sergio Berardo mi ha permesso di rubargli qualche minuto per fargli due domande sullo spettacolo a cui stavo per assistere. Le sue risposte sono state per me abbastanza sorprendenti, spiazzanti.

1) Che effetto fa suonare in teatro?

Ovviamente è completamente diverso dal suonare in piazza o in strada, ma con l’Ecclesiaste sono convinto che “c’è un tempo per ogni cosa”: un tempo per suonare per le danze e un tempo per il teatro, un tempo per suonare forte e un tempo per suonare piano, un tempo per suonare veloce e un tempo per suonare lento… Il teatro è una chiave di lettura importante: combatte l’idea distorta che la musica occitana sia soltanto musica da ballare. Lo è sì, ma non esclusivamente: bisogna saper dare di tutto al pubblico, tutto ha un senso.

2) Perché il concerto si intitola “Vijé, racconti in una notte di veglia”?

Perché io parlo molto, racconto presentando i pezzi e racconto cantandoli. Non c’è un programma scritto; si suona per dare emozioni, per l’ascolto, per dare risposte a tante domande…

Al termine del concerto, devo ammettere che ho avuto risposte a domande che non avrei mai pensato di pormi.