L’intellettuale da asporto

(disegno di Milius)

(disegno di Milius)

CANIO MANCUSO

Nitidezza                       (Per Domenico e Incoronata)

La foto dove splende
di più la dimenticanza
non conserva il volto
o il rossore o la piega
indenne dell’acconciatura
solo le frasi nell’intercapedine:
“Sono, sono stato”
e il dettaglio: gli zigomi
che bruciano, le scintille
dei tacchi sulla pista da ballo
(chi sbagliava le note?
chi ha buttato le scarpe?)
e i nomi che si spezzano
e quelli che resistono
avvolti in un gomitolo,
disegnano il tuo volto
raschiato dall’immagine
tu disperso nel click
scivolato dal bordo
dei nomi ancora in luce.

***

Il riciclo secondo lo spazzino

I testi sono chiari:
nello stesso inventario
l’anima e il congegno
l’organismo e il meccanismo
che si arresta le labbra
e il boccaglio il mantice
e il soffio tra i denti
tutti oggetti in disuso
allineati in un addio allegro.
Sei tu che parti loro si allontanano
dalla tua ombra che unisce le sagome:
confondi il sangue con l’olio
dell’ingranaggio il cuore fermo
sui minuti con l’orologio
l’odore delle calze e i piedi che le svuotano.
Hanno occhi gli oggetti che ti dimenticano
sono oggetti i volti che si rapprendono
in una luce sabbiosa nei ritratti -
vizi di forma smessi con i vestiti
le inadempienze scordate nella ressa
degli strumenti alla fine del gioco
allineati per salutare un altro
con lo stessa sciatteria delle persone
e con l’aria smarrita delle cose.

***

Tu, lo spettatore

Affondare gli occhi in ciò che guardi
gli occhi come dita nella polpa
dei volti e delle camicie di chi passa
e non guarda. È questo il tuo talento:
guardi, smorzi il battito sotto le coperte
perché la stanza non veda
e il paesaggio non sospetti
che tu esisti chiuso tra le palpebre.
Lo senti il sangue non circola
le vene si aggrovigliano
eppure guardi ancora
nel poco d’aria che sfreghi con il corpo
guardi nella fessura indovini il varco.
Il mondo si stringe nelle tue pupille:
la linea del pianerottolo confina
con lo strapiombo, tre vasi di fiori
finti (è questa l’Amazzonia?)
i pesci nuotano nell’ascensore -
il paesaggio pressato in una scatola -
il varco che si apre il battito
che si ferma, tu non gli credi:
riconosci il mondo
che guarda e scompare prima di te.

***

Chaperon

La madre e il figlio conoscono
il silenzio della strada che non
ricordano, la casa lontana
e più lontana la musica.
La madre vestita da ragazza
cammina davanti al figlio
Orfeo grigio ammutolito
con una canzone accartocciata
in tasca (il refrain continua a sfuggirgli).
Lei guarda il profilo del figlio
la stempiatura che si fa strada
sulla fronte e non incontra un’idea.
Lui invecchia lei impara a morire
lei ha fresco sotto la vestaglia
lui suda nel cappotto
al riparo nella sua nebbia,
il figlio accovacciato su una sillaba
la madre che trova da sola
la casa la musica e la canzone.

***

Il piccolo maestro si giustifica

Se non ho gridato con voi lo sluagh-ghairm
è stato solo per la timidezza
della mia voce incastrata nella gola.
Eppure il sole ci scaldava le vertebre
il nemico non ci odiava abbastanza:
le sue fionde di polvere i suoi sputi
non ci avrebbero fatto male.
Sarebbe bastato un soffio leggero
nell’orecchio di uno di voi
ma io stritolavo le parole in bocca.
In testa alla fila ho avuto paura;
sono tornato a passo di gambero
fino alla coda per somigliarvi:
perché mi avete riconosciuto?
Ho finto di avere convinzioni
più resistenti delle vostre:
erano vostre e non lo sapevate.
Rattoppo due frasi su amore e politica
(siete così stanchi di ascoltarle).
La mia vita si specchia nella vostra:
ha la stessa calvizie le parole
vive come cani impagliati.
Le mie idee ladre le ho rubate a voi
e voi mi chiedete cosa penso dell’arte
di stare al mondo e fargli la guerra:
penso tutto ciò che pensate voi
ma non ho il diritto di confessarlo.

***

Addestramento sul lago

Ripetiamo i gesti delle anatre
volate via da anni, il nostro sonno
scivola sull’acqua spruzza le ortensie
fino al nodo dei canneti -
la luce acquosa che ci rassicura
mentre affiniamo la voce il verso
zitelle svizzere ci gettano molliche.

Dove si nascondono i cacciatori?
Restate qui non andate via
ci dicono – prendete voi
il posto delle anatre.

I cartelli bisbigliano Attenti
ma i cani scodinzolano nasando
dai cancelli: mastini incrociati
con orchidee rottweiler morbidi
come camerieri invitano i ladri
in giardino ma i ladri fanno
la vita delle anatre.

Ah già le anatre – continuano a dirci.
Dove sono i cacciatori? chiediamo.

La nostra è l’ignoranza
che non conosce il tempo
lungo dei cacciatori
i loro sbadigli curvi
nell’attesa la noia
di chi ricorda quando
era così bello uccidere.
I vecchi cacciatori
ci pregano di non muoverci
toccano la nostra carne
di anatre apprendiste
sentono con le dita
le nostre piume il becco
noi anatre noi uomini
immaginiamo ancora
che spareranno ai cinghiali.

***

Disordine dell’oncologa

La vostra fede mi disturba scompiglia
i passi di questo mio barcollare
sui trampoli guardarmi i piedi per non
guardare voi mentre tocco il soffitto
mi incollo al muro e vi lancio biglietti:
Guarirete non potete morire la domenica
c’è la festa del Santo curandero.
Ve lo dico ogni volta e cado a terra
se inciampo nel filo teso di un’occhiata
quando vi scorro accanto in corridoio
perciò scusatemi ho fretta sentite il morso
dell’orologio qui sul mio avambraccio
l’odore stanco rappreso nel camice.
A infastidirmi sono le vostre attese
che con le dita mi lisciano la manica
mentre cerco la porta e le domande
che ignoro e le risposte che conosco
eccole in cambio dei vostri regali
(cento bottiglie e io non bevo il vino)
le vostre attese gonfie obbedienti
che maledico dal buio di un sorriso.
Aspetto anch’io voi il vostro corpo
raccolto nell’impronta della schiena
voi che credete ancora al purgatorio
e alle stazioni intermedie non
disprezzate la mia fede solitaria
io qui lavoro e prego insieme a voi
dentro il silenzio in nome dei medici
che come me non ricordano i nomi.
Non preoccupatevi se cado di nuovo
davanti alla porta nel ritaglio dell’ombra
dove voi abitate e io mi nascondo.