I corpi nascosti dei giapponesi

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CLAUDIO ZANINI

Ammirando le eleganti attrici del Nō, le hostess degli ostelli riokan, oppure le commesse seriali dei grandi magazzini, mi vagava per la mente il pensiero di quanto i loro corpi, avvolti da raffinati kimono o abbigliati in impeccabili divise, possano suscitare l’impressione di involucri che proteggano dall’esterno; mentre, dell’interno non lascino filtrare che esigui segnali codificati (come l’ideogramma, una scrittura non personale, oggettiva).
Estrapolando, immagino dei corpi nudi, indifesi nonostante il machismo di certi atteggiamenti virili. Corpi glabri e quasi diafani, rivestiti dall’ombra pudica di cui scrive Tanizaki; il quale, tra l’altro, parla del corpo d’una donna tradizionale come una gruccia che sostiene l’abito, lo scheletro sottile della marionetta del teatro bunraku. Oggi la realtà è senz’altro diversa ma, al fondo rimane, nel viaggiatore tale sensazione.
Notavo, più sopra, come la spoglia esterna rivesta grande importanza, citando la sontuosa confezione dei pacchetti dono o la forma dello haiku. Infatti, il costume, il trucco, l’atteggiamento formalizzato – in cui sono trattenuti impulsi e sentimenti -, esprimono, con cortesia ed estremo ritegno: la forma, l’ideogramma comune a tutti. Meglio una condivisione collettiva e condivisa, poiché l’intimità dev’essere custodita inviolata. Un’intimità fragile da proteggere. Essa è come il vuoto dei templi; nello spazio centrale del “sacro” racchiuso nella penombra di pareti sottili, ma invalicabili. Uno spazio vibrante nella costante attesa (e mai esaudita) d’essere riempito.
Torniamo, come per chiudere un cerchio, ai templi. Rivedo, nella memoria, i gesti minimi all’interno d’essi. Quasi i due vuoti (quello centrale dell’edificio e quello intimo del fedele) avessero una corrispondenza effimera e misteriosa. Risento, nella recita corale dei sutra, come il significato si vada via via dileguando nella ripetizione, per far posto a un vuoto colmo di segrete e inesprimibili risonanze. Quel vuoto mentale che si raggiunge nell’assorta meditazione, in cui è sospesa ogni attività dei sensi. Stato in cui si può conseguire l’esperienza dell’essere all’unisono col mondo, oppure un assoluto (assurdo e inumano, direi) annullamento del sé. Annullamento, si badi bene, non in senso figurato, poiché, con raccapriccio, ho saputo che sono esistiti in Giappone dei monaci asceti che si facevano seppellire vivi, in postura meditativa, entro una sorta di bara ricoperta di terra da cui affiorava una canna di bambù che assicurava una minima areazione. Fino al sopraggiungere della morte. Si attendevano mille giorni, quindi si riesumava il corpo e, se questo si fosse mummificato, lo si esibiva alla pubblica devozione. Tale pratica fu definitivamente vietata dal governo Meiji nel 1879.
Questo concetto di vuoto, o meglio, quest’esperienza, dunque, che costantemente si ripresenta nel mondo giapponese, mi richiama alla memoria il nostro atteggiamento nei confronti del sacro e del rapporto del corpo con esso. Noi, rispetto ai giapponesi, abbiamo con il trascendente un coinvolgimento corporeo diretto, spesso passionale, in cui dolore e gioia, si esprimono nei riti e nelle pratiche sostanziate da tali sentimenti. La ritualità in Giappone è astratta, come depurata dal sentimentalismo che spesso rende grottesche certe nostre manifestazioni. Il corpo, i gesti, la maschera, il costume hanno un preciso significato nel codice, sono segni (tuttavia, non dimentichiamo che il segno rivela spesso ciò che vuole dissimulare, malgrado l’astrazione); come accade nella cerimonia del tè, esplicito esempio di formalizzazione.
Il corpo ha un peso ineludibile nella nostra esperienza religiosa, nonostante (oppure grazie a esso) il dualismo nei confronti dell’anima, lascito della tradizione. Basta pensare ai tormenti – spesso sadicamente descritti – dei santi martiri di cui la “bestia” corporale è vittima. Oppure alla continua lotta che il cattolicesimo ha ingaggiato nei confronti del corpo, mortificandolo, arginando i suoi impulsi, censurando i suoi desideri, negandolo ma avendolo sempre e ineludibilmente presente. Il corpo è opaco involucro che contiene il pieno dell’anima; carne impura ma anche altare e ricettacolo dello spirito; materia corrotta e contingente ma vivificata da un principio d’eterno. La carne negletta trionferà alla fine dei tempi.
In Giappone non c’è la fine dei tempi. La vita, le cose, la natura sono fugaci come l’effimero fiorire dei ciliegi in aprile, celebrato con una grande festa. Tutto trascorre. Oltre c’è il vuoto della cui presenza si ha cognizione e stupefatta attesa, ma di cui tutto si ignora. L’anima si ritrae in tale constatazione, naufraga nell’infinito respiro dell’universo.
Osservando la pittura della tradizione giapponese (in particolare nei dipinti del pittore Kitagawa Utamaro e nelle stampe Shunga) notavo come i corpi soprattutto femminili siano pallidi, esangui; privi di plasticità e volume (la pesantezza) che l’ombra conferisce alla pittura occidentale (strano che l’ombra, cui Tanizaki dedica il titolo d’un libro, non figuri nell’iconografia giapponese della figura umana). Dicevo che i corpi appaiono come schiacciati sul supporto di carta in cui sono raffigurati. L’abbigliamento sontuoso che li riveste li rende simili a splendidi fiori la cui voluttuosa bellezza dissimula il richiamo sessuale. È qui che si gioca la dimensione erotica, spostandola all’involucro.
Il corpo è anemico, pare non vi scorra il sangue. La sua epidermide depurata d’ogni impurità mostra forme semplificate che si intravedono tra le pieghe della stoffa (si allude forse al vuoto?). Nei dipinti esplicitamente erotici di Kitagawa Utamaro, ciò che l’abbigliamento svela, come oltre un sipario aperto, è invece l’esibizione degli organi sessuali (soprattutto quelli maschili) ritratti con enfasi eccessiva. Su di essi, infatti si deve focalizzare lo sguardo. Loro è l’imperio della scena. Cerco di spiegarmi. I visi – tanto stilizzati quanto i sessi sono minuziosamente particolareggiati -, sono privi d’espressione alcuna. Non lasciano trasparire passione né gioia. L’introspezione psicologica è inconcepibile. Gli occhi sono fessure, le bocche s’avvicinano quasi timorose, a labbra chiuse tra cui fa capolino una linguetta rossa ma timida. I sentimenti, dal rapporto amoroso – o meglio dalla sua dimensione sessuale -, sono accuratamente espunti. La rappresentazione mostra con dovizia l’apparato scenografico lussuoso, ricco di colore, in cui avviene la brutale (tale, sovente pare, a mio avviso) meccanica dell’atto. Dunque, i moti dell’anima e del cuore non si devono esprimere – sono vaghi e personali, temono un’invasiva messa a nudo -, mentre gli impulsi primari (collettivi) e l’implicito dominio maschile, impongono la cruda messa in scena.

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Il palcoscenico di tale rappresentazione richiede un breve sguardo sullo spazio nella pittura giapponese. In Occidente, dal Rinascimento in poi, la scoperta e la teorizzazione della prospettiva centrale (in particolare) pone al centro del mondo l’uomo. Suo è l’occhio che osserva e sua la capacità di misurare (quindi possedere) l’intero spazio che guarda. La struttura spaziale della pittura tradizionale giapponese (e orientale) è assonometrica. Vale a dire che le linee di costruzione di cose e oggetti nello spazio sono parallele; non tendono, quindi, verso un punto di fuga che unifica lo spazio e corrisponde all’occhio dell’osservatore. Bensì gli scorrono al fianco situandolo fuori scena. La realtà dell’accadere gli passa accanto senza coinvolgerlo, senza che egli possa misurarla, quindi possederla, sia emotivamente sia fattualmente. La scena dipinta rivela la propria essenza nel gioco astratto e combinatorio delle infinite forme. Nulla d’individuale e psicologico; tutto nella progressiva identificazione dell’universo, nella sua enumerazione, al fine d’aderire all’istante prima che dilegui. Qui, l’uomo è immerso nella natura. Effimera, quest’ultima è pervasa dal vuoto di brume, orizzonti sfumati, luci soffuse in cui l’io si perde e naufraga. Minima particella coinvolta nel divenire del suo vasto respiro, il sé s’annulla; senza poterla modificare. La può, tuttavia, mimare. Ecco, dunque, la ricostruzione di perfetti giardini, l’ossessione fotografica delle comitive turistiche giapponesi nei confronti del reale (in occidente, tutto fotografavano). E, oggi infine, la ricerca frenetica della robotica antropomorfa.
D’accordo, il vuoto è dominante. Puro e silente. Tuttavia, un fascino segreto traspare dai volti degli attori del teatro Kabuki. Dipinti di bianco, respingono la luce; impenetrabili a essa e agli sguardi dello spettatore, trattengono ogni espressività. Sono come dei fogli bianchi in attesa della scrittura (Barthes). Gli occhi bui, piccoli e allungati e le labbra scarlatte (un tempo erano blu) rilevano tale candore gessoso. Le pupille evocano segni quasi impercettibili, il gesto è quello elegante delle mani, delle dita che ruotano ventagli. Irrompe un mimo dall’incarnato naturale, che si muove frenetico come nei film muti d’una volta. Giocando con il suo ombrello, suscita ilarità. Mima la vita, come una buffa figurina d’una stampa di Hokusai.

Vorrei ribadire che questo breve scritto nasce da impressioni e immagini del tutto soggettive suscitate da un viaggio in Giappone (si veda Impressioni giapponesi). Un breve scritto che non pretende l’esaustività. Il Giappone è un paese infinitamente più ricco e complesso di quanto ha colpito la mia sensibilità e ha sollecitato codeste riflessioni che, tuttavia rimaste nella memoria, mi hanno svelato rilevanti aspetti della sua realtà.

(Foto di Maria Novella Brenelli)

Questo articolo è stato anche pubblicato sulle riviste in rete ODISSEA e La Tigre di Carta