E sia

copertina

GRAZIA PROCINO

Non mi ha mai sfiorata
il desiderio di essere come tutti
io papavero ai bordi
di un asfalto al catrame.

Dammi a voce distesa
Dammi a voce distesa canzoni
da riempirmi il vuoto che ho. Non è
certo una brusca pretesa ma una
pacata richiesta che so,
sei in grado di soddisfare. Ora che è
notte e tutto odora di sporco – per l’umidità –
c’è un bisogno. Di voci
che a gola spiegata cantino la vita.
Quella intera, non frazionata in
frammenti di stupidi niente.
Quella che dici: stavo meglio
prima a non vedere, in compenso
ero un mezzo uomo.
Quella che ti dilania
per la verità brutale e tu non sei
più come prima.

*

Coltivazione lenta
Di un amore che muore – così come è nato –
conservo nel mio giardino
l’angolo riparato dalla pioggia
il punto di unione delle menti
le strade convergenti
di pensieri astratti.
Innaffio quando il cielo inaridito
non manda giù la pioggia.
Non aspetto un altro amore
per adesso coltivo ogni istante
curo l’orizzonte da cui giunge tutto.
Lo sguardo aperto arriva
dove gli opposti si confondono
il fiore sbuca dalla neve.

*

La veglia
Tienimi il cuore tra le mani.
Mi guardi fino a fissarmi.
I tuoi occhi mi parlano
nella grammatica silenziosa che noi sappiamo.
Hai bisogno di porre – lo sento –
il tuo capo sul mio grembo
come un bimbo
e lasciarlo riposare lì.
Mentre ti assopisci senza difese
io ti veglio.
Il tuo sonno arreso nel mio abbraccio
mi rende madre del mio amore.

*

E sia
Lo so. Ci si aggrappa a tutto
pur di non sprofondare
anche alla notte.

*

Quello che resta
Mi chiedete, quello che resta.
Davvero, non lo so.
Forse la tana dei vermi
nel terreno grasso e umido.
Le vite dei santi e le stanze dei detenuti.
I giorni mai uguali l’uno all’altro
i minuti di sofferenza sempre uguali.
Le contusioni violacee, e il tempo
dopo le bufere. Tu che mi chiami
e mi dici:
«Come stai?»
Le voci querule di chi simula
stati di malessere. Il dolore
di ognuno infisso nelle pupille.
Tu che ammetti di stare sbagliando
a indovinare la vita.

*

Il cuore sotto le scarpe sporche
Se ho permesso di calpestarmi il cuore
con le scarpe sporche
era di una domenica d’estate slavata
non come questa
grigia ma dai colori cancellati e sepolti.
Seguì un inverno inacidito
dalla tua indifferente distanza
gelo alle mani e al cuore. Volli provare
la disperazione
invocai balli di distratta allegria
fui terra asciutta.
La vita da allora è andata velocemente
verso linee di volti
passi innumerevoli
nomi che il tempo ha impolverato
ha piovuto in abbondanza
poi è comparso il sole con la sua culla.

Grazia Procino, “E sia”, Giuliano Ladolfi Editore 2019.

Dalla Premessa di Giulio Greco

L’esergo iniziale, «io papavero ai bordi / di un asfalto al catrame» presenta un enigma ossimorico: su uno sfondo nero si staglia un’immagine gentile dal colore vivo e palpitante, che però è confinata ai margini. È professione di nobiltà in un mondo “liquido” e opaco oppure confessione di solitudine? Inoltriamoci, pertanto, all’interno della raccolta per captare altri indizi che aiutino a risolvere la questione.
Nelle prime composizioni l’io lirico si addentra nel mondo classico alla ricerca di emblemi capaci di dare senso ai molteplici quesiti della contemporaneità:Itaca, Penelope, Sirene, Ciclopi, Circe, Nausicaa, Odisseo e cioè la patria, la famiglia, le lusinghe del viaggio, un mondo immaginario, il passato, i violenti depredatori, il carattere sentimentale dell’essere umano. Non racconti di vicende pregresse, quindi, ma“strumenti” per indagare il presente: poesia con poesia,armamentario classico e contemporaneità. Qui non c’è spazio per la letterarietà o per la pedanteria saccente e neppure per una semplice riedizione di situazioni letterarie, qui ci si intende immergere nella realtà («Ho pensato durante il rovescio / al disfarsi dell’universo») di un essere che accoglie fino in fondo la sua finitezza («nuovi Odisseo, che / rinunciamo all’immortalità / fieri della propria finitezza effimera») e la sua provvisorietà («Per questo minuto spazio di tempo / che ci è dato in sorte») acuita da un“vuoto” di una vita «frazionata in frammenti di stupidi niente».
[…]
Siamo di fronte a un tentativo di rappresentare una realtà inafferrabile («Ognuno manca di qualcosa»)? Di quella società liquida, teorizzata dal sociologo Zygmunt Bauman? Oppure si tratta di una ricerca vana e frustrante di un trovare un significato esistenziale («Io non so dell’amore che le onde altee Odisseo che ritorna / a un’Itaca piena di sassi»)?
L’immagine del papavero ai bordi dell’asfalto, presentata nell’esergo, si adatta a tutti questi interrogativi. A rendere più interessanti questi enigmi contribuisce anche la varietà di linguaggio che, oltre ai riferimenti mitologici, eloquenti spiragli di senso, si arricchisce di chiarezza di un lessico e di una sintassi sorvegliata e solenne («l’ascolto religioso del vento»)e non disdegna squarci di poesia familiare («I gatti dal pelo fulvo stavano a ricordare il numero esiguo degli abitanti») né inserti brevissimi, ma efficaci, di carattere sapienziale.
Il papavero, posto a margine del nero asfalto, in conclusione, pare essere l’emblema di un cuore innamorato della vita che attende chi lo sappia apprezzare e collocare in un posto conforme alla sua dignità.
E la catarsi della tragedia giunge alla conclusione.

Grazia Procino, docente di Lettere presso il Liceo Classico, ha pubblicato haiku nella raccolta collettiva edita da Fusibilia, la raccolta poetica “Soffi di nuvole”(Scatole parlanti, 2017) – Premio Speciale al Premio nazionale Poetika – e i racconti “Storie di donne e di uomini” (Quaderni edizioni, 2019).“E sia” (Giuliano Ladolfi Editore) è la sua seconda silloge poetica. Una sua poesia è stata selezionata per l’IPoet di gennaio 2019 da Lietocolle; sue poesie sono apparse su riviste specializzate come Poesia Ultracontemporanea e Poesia del nostro tempo. Maurizio Cucchi su La Repubblica di Milano e Vittorino Curci su La Repubblica di Bari hanno selezionato una sua poesia.