L’antidoto di Giacomo

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GABRIELLA VERGARI
Quei momenti.
Ci caschi dentro all’improvviso e finisce che non te li stacchi più di dosso, una carta moschicida nella quale ti divincoli invano.
Oppure ti ci addentri con la solleticante spavalderia dei ragazzini nel tunnel dell’orrore, per accorgerti con sgomento che, giro dopo giro, l’uscita non si trova, perché forse non c’è.
Ecco, quei momenti così, in cui il groviglio dei tuoi pensieri si intrica al punto da assorbire ogni emozione positiva, in modo da lasciare a scorticarti solo quelle più cupe e grevi.
E non sai nemmeno come possa essere accaduto o quando ti ci sia infilato, in questo infernale ginepraio, che appena prima non c’era ma adesso ti tiene in trappola senza scampo.
Giacomo però ha un rimedio.
Chiude casa e si mette in macchina.
On the road, come un personaggio della beat generation.
E prova ad assaporare tutto dal principio.
Il girare della chiave, il rombo rassicurante dell’accensione del motore, l’innesto della prima con lo scalo alla seconda e subito dopo la concentrazione sulla manovra per uscire dal gomito dello stallo in cortile, durante la realizzazione della quale ha tutto l’agio di sacramentare quanto vuole, provando a scaricare fin da subito la tensione con una bella salva di imprecazioni, che gli piace di volta in volta variare.
In questo è rigorosissimo, e si concede poche deroghe.
Non usa ad esempio improperi o esclamazioni che comincino con la stessa lettera e mai quelli più comuni, che trova da dilettanti e un po’ naif.
Peccato che, dello sfoggio di tanta fine creatività, non ci siano in genere testimoni, a meno di non tener conto della vedova Bonetti che, ogni volta, gli fa un cortese cenno di capo dal balconcino in cui si trova ma, sorda com’è, poco o niente riesce ad afferrare di certe coloriture che delizierebbero (o, in base al caso, strabilierebbero) altre orecchie ben più elastiche delle sue.
Non che Giacomo sia un autentico habitué del turpiloquio o ami l’esagitazione.
Non fa sul serio.
È solo un modo per allentare la morsa dei momenti neri, che peraltro non gli si presentano nemmeno tanto di frequente.
Quando però lo prendono, sono potenti e perciò meritano antidoti all’altezza.
Una volta uscito in strada, imbocca l’argentato rettilineo alberato di Via Marconi, infila Viale XXIV Maggio e lo percorre tutto sino all’ampia rotatoria con cui il Comune ha da poco cercato di rendere più fluida la viabilità al crocevia.
Il percorso lo conosce a memoria, ma accende lo stesso il satellitare.
La voce autorevole, che lo guida con ferma cortesia, gli lenisce il malessere, dandogli la sensazione di un conforto parentale.
È uno di quei rari casi in cui non gli dispiace tornare un po’ bambino, e sentirsi in balia della volontà di qualcun altro. Qualcuno, ben inteso, che sappia quel che fa, e non sia dispotico né insopportabilmente autoritario, ma solo più esperto e informato.
Svolta a destra, prendi la seconda a sinistra, tra quattrocento metri supera l’incrocio…
Ah, che meraviglia, la leggerezza della deresponsabilizzazione infantile, il sollievo dell’accudimento temporaneo.
Per il tempo del tragitto, gli va davvero a genio non essere costretto, almeno all’apparenza, ad autodeterminarsi, fingere di sottrarsi al carico delle decisioni, alla valutazione dei rischi, la previsione degli errori.
Non funziona tuttavia a lungo e già, fuori dal centro, il satellitare è spento.
Ma ha giocato il suo ruolo, ed è questo quello che conta.
Giacomo si sente appena un po’ più libero.
C’è ancora molto da fare, per uscire dal buco nero in cui è entrato, ma la strada sta lì, davanti a lui, proprio per questo.
Tic, tac… Aziona uno degli indicatori di direzione e gli piace sentire il suono ovattato del suo ondivago funzionamento, un battito cullante, decisamente ipnotico.
Gli indicatori di direzione, ovvio, perché Le frecce sono quelle degli Indiani.
Il ragioniere Trifiletti dell’omonima, spettabile scuola-guida sotto casa gliel’ha ribadito di continuo, con il piglio d’un aio d’altri tempi e alzando addirittura l’indice destro come ad impartire un monito memorabile.
E in realtà memorabile è stato se, dopo venti e passa anni da che ha preso la patente, Giacomo ha ancora il vezzo di rifarsi a questa dicitura tecnica.
Un ennesimo motivo di discussione con Federica.
Certo non uno dei più eclatanti, ma ad ogni modo uno.
Federica ha proprio la capacità di fargli salire il sangue alla testa.
E pure in altre parti del corpo, ad essere onesti.
Gli fa sangue, ecco, in tutti i sensi e forse è per questo che non si sono ancora scaricati a vicenda.
Non che non ci abbiamo provato.
Almeno tre volte.
L’ultima, hanno quasi mandato in tilt il terapeuta di coppia che, a dispetto di tutte le sue dannatissime buone maniere da copione, li ha invitati a cercare un collega più adatto al loro caso.
Con l’abituale voce bassa e pacata, ha alzato le mani in segno di resa e ha proprio detto di non aver mai visto due cervelli rettilici in lotta per il potere come i loro.
Lui e Federica si sono guardati in faccia stupefatti, quasi sentendosi orgogliosi del primato.
Poi non ce l’hanno fatta e gli sono scoppiati a ridere in faccia.
Quindi se ne sono usciti dallo studio abbracciati e con un’energia tutta nuova.
Avere una diagnosi è importante, ti spiega un sacco di cose che nemmeno immaginavi e soprattutto non ti fa sentire un caso raro né unico al mondo.
La cosa di cui Giacomo è tuttavia sicuro è che, senza Federica, la vita non sarebbe la stessa, e forse si tratta di una forma d’amore.
Non l’ha ancora capito, né intende farlo adesso, che sta lasciando andare la macchina dove lo porta.
In questo momento gli va bene stare solo, anzi forse è proprio un bene che sia solo.
Si mette un po’ più comodo e si assesta la cintura così che non lo opprima come i suoi pensieri.
La nube sta comunque per dissiparsi. Si intravede qualche sprazzo d’azzurro.
Ed è naturale, si trova ormai in tangenziale e l’asfalto gli segna la via, dritta e aperta, come la promessa di un futuro che gli si spiani davanti.
Alla prossima uscita, dovrà comunque decidere: destra o sinistra, mare o collina?
Sceglie il mare o forse è il mare a scegliere lui.
In realtà si è limitato a rallentare un attimo per lasciarsi superare da un tir mastodontico e, a sorpasso ultimato, si è accorto che è ormai troppo tardi per svoltare a sinistra e raggiungere la collina.
Poco male, bisogna far fare anche un po’ al caso, soprattutto se coincide con i tuoi desideri, dato che, inutile negarlo, il mare gli piace di più.
Ed ecco che presto gli appare dai muretti di contenimento della litoranea, in tutta l’ampia distesa del suo golfo. Guidando, lo può cogliere soltanto di scorcio, ma non così poco da non accorgersi che oggi sembra imbronciato, e rigonfio di spume grigiastre.
Bello che sia così empatico con i suoi stati d’animo.
Ed è forse questo il punto.
Comunque si mettano le cose della sua vita, il mare riesce sempre a parlargli.
A dirla tutta, è da quando i suoi lo portavano, piccolissimo, in vacanza sulle coste dello Ionio che si intendono a meraviglia, né il feeling tra loro si è mai volto in delusione.
Ecco perché, al bivio successivo, Giacomo decide di scendere a passo d’uomo verso la pineta e già abbassa il finestrino per lasciarsi pervadere dall’inconfondibile profumo di resina.
Altro che l’arbre magique che gli dondola davanti, appeso allo specchietto, pronto a saltellare ad ogni contraccolpo della strada.
Lui lo sta attendendo laggiù, mentre fa capolino tra la filigrana degli aghi.
Giacomo si avvia allora verso il parcheggio, posteggia e scende dalla macchina.
Meglio muoversi a piedi, se non vuole perdersi il non comune privilegio di passeggiare sul tappeto vegetale, che il verde cupo degli aghi caduti ha formato fondendosi a macchia di leopardo con il bruno del terriccio.
Si addentra tra gli alberi in uno scalpiccìo odoroso e morbido che ad ogni passo gli dirada sempre più l’angoscia.
Ormai il peggio sta passando e non solo per le endorfine dovute al moto.
È piuttosto che la natura lo incanta e ogni volta vi si immerge con fiducia.
Accompagnato dal fondo ronfìo della risacca, in dieci minuti è sulla spiaggia.
Chissà che gli è successo, al mare, per essere di questo umore così poco socievole.
Chissà che correnti lo stanno agitando, insondabili come il flusso delle sue emozioni.
Pare però che anche il mare stia ora cercando di rimettersi.
Le onde diventano a poco a poco più basse e rade.
Il grigio vira pian piano verso un azzurro non troppo deciso, eppure percepibile in qualche striscia più marcata al largo.
Giacomo procede tra sassolini e conchiglie fino allo sperone di roccia, dove si trova il suo televisore preferito.
Non è l’unico e lo sa bene.
Anzi, lo sperone è una delle attrattive turistiche più famose della zona.
Vengono da tutte le parti per ammirare lo spettacolo che si apre da quella finestra di pietra, giusto al centro del grande faraglione che si protende dritto e diruto dalla riva.
Una riquadratura perfetta, rettangolare quanto basta per incorniciare l’orizzonte, come il più esperto degli artigiani non saprebbe forse fare, ma non così ampia da dilatarlo come in un cinemascope.
Non vuole parlare di grandiosità hollywoodiane, ma ribadire, con elegante e maschio vigore, tutta la poeticità del frammento, della presenza gratuita, e perciò stesso sublime, di ciò che potrebbe non esserci ma invece c’è e dà un senso nuovo a quanto lo circonda.
In questo momento per fortuna, non c’è folla.
Forse l’orario, forse l’avanzata stagione dell’anno o forse la giornata feriale.
Non ci sono più di tre o quattro passanti e una coppietta.
Insieme, quei due, non faranno quarant’anni, eppure la ragazza sembra attraversata da una pensosità adulta e matura.
Non gli interessano i loro discorsi, ma nel passare loro accanto non può fare a meno di sentire che parlano di Leopardi.
È il duecentenario de “L’infinito” sta dicendo lei a lui, che continua a mangiare il suo gelato, senza dare l’impressione di essere toccato più di tanto dalla solennità dell’evento.
Non ti pare che questa finestra di pietra possa funzionare come la siepe delle poesia? Ci vuole sempre un limite per spingere lo sguardo a vagare in «interminati spazi», non trovi anche tu?
Il ragazzo annuisce ripetutamente, ma pare più attento a non sporcarsi la camicia griffata con la colatura del cono che a seguire le divagazioni letterario-esistenziali della sua compagna.
Giacomo lo trova francamente indigesto così come prova un moto d’istintiva simpatia per la ragazza. Come hanno ragione, sia lei che il Poeta.
Che gli avrebbe mai ispirato la visione di questa spettacolare porzione di spazio e cielo?
Malgrado si chiami Giacomo come il Recanatese, lui non sa comporre versi né ci sa fare tanto con le parole. Però quello che vede lo lascia comunque senza fiato.
Il sole sta calando lentamente in mare con i suo ultimi segni di fuoco, tingendo tutt’intorno di ocra e porpora l’orizzonte in lontananza.
Non gli sovvien l’eterno né le morte stagioni ma si sente vivo e immerso nel presente come non mai.
Si lascia perciò avvolgere dalla sensazione di pace e benessere che man mano gli penetra dentro e l’assorbe con tutto se stesso, finché dura e l’acqua non finisce per inghiottire il sole con tutte le sue tinte sfolgoranti.
Dall’altra parte del mondo sta sorgendo l’alba. Qui invece si sta facendo buio.
È giunta l’ora di tornare.
Giacomo riprende la macchina e si avvia verso casa.
Federica lo starà aspettando e, strano a dirsi, la prospettiva non gli appare malvagia, tant’è che tutt’a un tratto si sorprende a canticchiare un allegro motivetto che non ricordava da secoli.
Alla luce dei fari, la strada gli si srotola man mano dinnanzi, come un lungo nastro scuro di raso.

(Tratto da: AA. VV.,Quanto dura un tramonto, Catania, 2019)