“Vite ordinarie” rese straordinarie

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GABRIELLA MONGARDI

Il romanzo Vite ordinarie di Franca Alaimo, uscito nel 2019 per l’editore Ladolfi, si potrebbe intitolare a buon diritto La veglia funebre, se non fosse che quello è già il titolo di una delle Novelle della Pescara di D’Annunzio… La storia-cornice che lo racchiude, infatti, è la veglia della protagonista, Giovanna, accanto alla bara della cugina Nina. Ma a differenza che in D’Annunzio, dove i ricordi non riguardano il morto ma la moglie e il fratello che lo vegliano e che trasformeranno la veglia funebre in un incontro d’amore, qui la sfilata di parenti, amici, vicini di casa a rendere omaggio alla morta offre a Giovanna lo spunto per richiamare alla mente episodi della vita sua e della cugina, ricostruendo in tal modo il percorso esistenziale non solo di loro due, ma anche degli altri personaggi che entrano nella casa della morta e quindi nelle pagine del romanzo. Si tratta di vite ordinarie, certo, ma non per questo meno preziose, proprio perché sono una miniera di storie – o meglio, perché lo sguardo di Giovanna – alter ego dell’autrice – le sa rendere tali. Lo sguardo di Giovanna è quello dell’artista, distaccato ma curioso, attento e affascinato da ogni aspetto della realtà sensibile, capace di cogliere la bellezza che si annida in tutto, nelle cose come nelle persone, riconoscendole nella loro individualità e unicità e raccontandole.

Se è vero che «la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla» (Gabriel Garcia Marquez), ecco allora che il ruolo del narratore è fondamentale, così come è fondamentale che la narrazione si snodi praesente cadavere, perché solo dopo che una vita si è conclusa si può raccontare, cercando di dipanare i vari fili che si sono intrecciati in essa, per “vedere la cicogna”, secondo l’insegnamento di Karen Blixen: in questo modo, si racconta non solo la vita “ordinaria” di Nina, di sua sorella Rosetta e dei loro genitori, ma anche quella di Giovanna, dei suoi genitori naturali e di quelli adottivi, e poi quella degli altri zii e cugini, e quella di Costanza, l’amica dell’adolescenza ritrovata dopo quindici anni di assenza e la storia di Marco, innamorato di Giovanna senza essere ricambiato e invano amato da Nina, e ancora, e ancora…

In ogni capitolo compaiono sulla scena uno o più nuovi visitatori e di tutti viene narrato almeno l’episodio in cui la loro vita ha intersecato quella di Nina e Giovanna: un pranzo, una cerimonia religiosa, una scampagnata o una passeggiata: così la narrazione è contemporaneamente racconto della veglia funebre e racconto dei ricordi di Giovanna, in un continuo slittamento e sovrapposizione di piani temporali e spaziali.

Si dipinge così un quadro della Palermo del secondo Novecento, tra il 1950 e il 1980, ma a mio parere non è questo lo scopo principale a cui tende l’autrice: il suo intento è piuttosto quello di mettere insieme i tasselli, lieti o tristi, che hanno fatto la sua vita, senza dimenticarne nessuno, per quanto doloroso ne possa essere il ricordo, e soprattutto quello di raccontare, proustianamente, la nascita di una vocazione alla scrittura come ciò che dà senso a tutto, riscatta e trasfigura tutta una vita – e tutte le vite che l’hanno incrociata, e che l’incroceranno attraverso la lettura del romanzo: grazie al ricorso all’autobiografia romanzata, infatti, l’autrice riesce a spogliarsi totalmente della sua individualità,  attingendo con grande naturalezza il piano dell’universale, e il lettore inevitabilmente si rispecchia in quei personaggi, entra in qualche modo a far parte di quel mondo.

Dietro il romanzo si coglie lo stesso atteggiamento di “elogio” dell’esistenza che era alla base della precedente silloge poetica, Elogi (Ladolfi, 2018): un elogio che nasce dalla gratitudine per la bellezza dell’esistere in sé, e implica l’accettazione umile e serena della vita in tutti i suoi aspetti e momenti, incluso quello finale. E infatti il romanzo che narra una veglia funebre si chiude con gli ordinari, allegri rumori delle vite ordinarie: «Dalle finestre spalancate si riversavano sulla strada voci alte e spensierate di bambini, brevi scoppi di risa, richiami, canzoni e rumori di piatti», così come si era aperto con l’ “intima gaiezza” di Giovanna intenta a occuparsi delle sue rose: al di là e prima della morte, infatti, c’è il miracolo dello stare al mondo, la sovrana libertà del sogno, la gioia della bellezza e della scrittura.

Una scrittura limpida e allo stesso tempo sontuosa, dal ritmo lento e avvolgente, aperta a continue digressioni, perché la penna dell’Alaimo è attratta da tutto, perché tutto lo spettacolo del mondo è affascinante e va rappresentato prima che cali il sipario – come un’ape sugge il nettare di ogni fiore, per farci dono del suo dolcissimo miele.