Diario di una giovinezza, venticinquesima e ultima puntata

ritratto

FELICE BACCHIARELLO

In Italia

Si varcò il passo del Brennero, ripercorrendo la via che già quasi due anni prima, tristi e sfiduciati, avevamo percorso nell’andata, e poco dopo mezzogiorno si arrivò a Bolzano. Più oltre le ferrovie non funzionavano. Stanchi dal viaggio, assonnati, ancora bagnati, attraversammo Bolzano, guidati dall’organizzazione pontificia, che ci ospitò in un campo di smistamento, dove ci fu distribuito un rancio caldo. L’organizzazione era come poteva essere immediatamente a fine di una guerra, in una nazione vinta, percorsa per ogni verso da truppe che tutto avevano asportato e distrutto.
Gli appartenenti alle varie regioni dovevano attendere l’arrivo del camion regionali, incaricati e appositamente organizzati per il trasporto dei reduci.
Verso sera, con mio fratello, riuscii ad essere caricato su di un camion della Fiat di Torino. Si era oltre 100, sulla macchina e sul rimorchio. Si avrebbe avuto bisogno di riposo ma nessuno volle attendere l’indomani per partire, così si aggiunse alle precedenti un’altra notte insonne e faticosa. Si era impazienti sempre più di avvicinarsi alle nostre case da non intendere ragione alcuna. Seduti alla meglio nel cassone, sugli zaini e qualche specie di panche, alcuni, come toccò a me, con le gambe penzoloni fuori dalle sponde, si partì stavolta diretti per Torino.
La stanchezza era dimenticata dal morale rialzatosi una volta constatato che non era un sogno, ma che veramente si era proprio in Italia, in terre conosciute ed ora diretti ognuno a località più familiari ed intime ancora.
Seguendo la valle, si percorse la strada che costeggia l’Adige spumeggiante e, sul far della notte si giunse a Trento. Ad un posto di ristoro ci fu distribuito, come prima della partenza da Bolzano, un pacco-cestino per il viaggio. Per le prime ore della notte la luna ci fu compagna; così ci tenemmo desti cantando ed ammirando il panorama, discretamente visibile sotto i raggi lunari. Nonostante si fosse d’estate, tra l’aria causata dalla velocità e la brezza notturna, si era mezzo intirizziti. Arrivammo ancora a vedere, illuminato dai raggi della luna, il bellissimo lago di Garda, che costeggiammo tutto da un’estremità all’altra. Non sono capace di descrivere la bellezza della visione notturna che presentava la costa di tutto il lago, ma si immagini come possa essere bello ed attraente il riflesso di tutta la miriade di lampade elettriche lungo la costa, cosparsa di ville, parchi e lussuosi alberghi e di ogni altra cosa attraente che ci si possa immaginare, in una così bella ed amena località.
La visione si protrasse per un bel pezzo, essendo il lago assai lungo, e non avrebbe mai stancato.

Un buon numero di paesi e città già avevamo lasciato alle nostre spalle, quando sul far del giorno arrivammo a Brescia; si passò per Crema e si fece una breve fermata di mezz’ora o poco più a Milano, che dovemmo attraversare tutta, da un’estremità all’altra, per portarci all’imbocco dell’autostrada Milano-Torino.
Ci si lasciò alle spalle Milano, poi Vercelli ed altre località minori e si giunse, dopo mezzogiorno, a Torino. Fummo portati nel castello reale di Moncalieri, adibito per l’occasione a centro di raccolta, ove ci volevano trattenere per la disinfestazione e che so io d’altro. Un urlo di protesta generale accolse tale proposta, non affatto confacente ai nostri desideri, non avendo sacrificata una notte di viaggio per restare a dormire la seguente in Moncalieri, fosse pure anche in un grande Castello. Per noi non ci sarebbe stato altro che la paglia, forse nelle scuderie, per riposarci le membra ormai temprate a tutto.
Dopo alcune e brevi formalità si scese dal castello alla stazione e con il primo treno di passaggio ci si avviò, ultima tappa, verso casa ove si giunse con quale e quanta gioia non sto a dire, perché credo superfluo.
Finalmente dopo tanto vagare, dopo tante peripezie per varie nazioni e nelle più tristi condizioni, si giungeva a casa.

Patria, casa e famiglia che per molti anni per me altro non erano stati che un sogno, un desiderio mai appagato, una meta mai raggiunta, finalmente questa volta divennero realtà. Molti, come me, a varie riprese partirono, obbedienti alla chiamata della patria, ma non rivedranno mai più il cielo d’Italia, il loro paese, la casa loro e la famiglia, mai più, né l’alloro verdeggerà mai sulla nuda terra che ricopre le loro spoglie.
Il mare, le terre di Francia, Jugoslavia, Albania, Grecia, Russia, Polonia e Germania racchiudono in sé il cuore di centinaia di migliaia di mamme, nella persona dei figli diletti, che in esse giacciono sconosciuti, insalutati, senza che mai una mano pietosa posi sulla terra che li ricopre un fiore. Crescono invece su quelle tombe le più svariate quantità di sterpaglie e vi pascolano liberamente le greggi.

Talvolta, quando mi succede di soffermare la mia mente e spingere il mio pensiero nelle vicende, disastrose degli anni addietro, una confusa visione di macabre scene, fatiche, avvenimenti, tutto passa come un turbine, come una piaga dolorosa, dinanzi ai miei occhi. Quale triste visione! Rivedo e rivivo in un baleno tutte le peripezie del fronte occidentale, sui monti, le marce faticose, il crepitio di armi automatiche, il tuono assordante dei cannoni, il freddo e la pioggia. Rivedo navi in mezzo al mare dirette verso l’Albania; i monti nevosi e rocciosi del confine greco e slavo; feriti, congelati e morti ovunque; ombre nere manovrate nelle notti piovose attorno al Tomori, trincee, combattimenti, uomini in fila indiana arrancati a stento nel fango corrente; ovunque miseria, sacrifici e morte.
Più triste ancora si profila all’orizzonte del mio ricordo la campagna russa. La mia mente allora corre lontano assai di qui, nello spazio e nel tempo, a rievocare lo spettacolo di quei giorni che non sa e non può dimenticare. Allora più null’altro vedo intorno a me se non la distesa infinita di ghiaccio, il bagliore degli incendi, il crepitio delle armi più strane, il rombo degli scoppi, le grida di incitamento di chi è capace di resistere ancora; c’è la visione di chi non vuol staccarsi dalla vita e la visione di chi, schiantato dalla fatica; attende dalla morte la pace ed il riposo. Risento il morso della mia carne martoriata e dolorante; tornano alla mia mente il freddo, la fame, il sonno, la sete inestinguibile.
Non posso, non ho potuto rievocare tutte insieme le cose che ho viste e che ho vissuto, perché l’animo mio non è abbastanza grande per raccoglierle.
Rivedo poi lunghi viaggi in treno, attraverso la tetra Germania; gli immensi campi di concentramento, cinti di velenoso filo spinato, nei quali mentalmente, in un attimo, rivivo la vita vissuta per lunghi mesi in contesa con la morte, in una lotta strenuamente combattuta giorno per giorno, ora per ora.
Mi vedo tutto intorno gli innumerevoli “Lager arbeit”, campi di lavoro nei quali curvi sotto un lavoro superiore alle forze, a milioni, ci si dibatteva ogni giorno sorretti non dai viveri ma dalla speranza, dalla volontà di vivere.
Risento nel cuore il rompo spaventoso delle innumerevoli formazioni aeree seminatrici dal cielo di terrore e di morte. Quanta, quanta miseria e quanto dolore!
Ma a lungo non posso, non devo durare in tali rievocazioni ed allora la triste visione si spegne per rimettermi nella realtà con l’ultimo ricordo, quello luminoso della salvezza e del ritorno, il quale cancella dalla mia mente tutti gli altri.
Così è per me, ma non per tutti purtroppo, non per coloro che non hanno avuto la ventura di avere neppure una bara, le cui ossa toccano la nuda terra.

Dopo simili rievocazioni non posso a meno di fremere di sdegno, contro chi proprio non saprei, per me e per tutti coloro che come me hanno vissuto e sofferto, per tutti coloro che partiti giovani, sani, forti e pieni di speranze, sono tornati con le membra mozze, deformi, inabili, inutili a sé ed agli altri, molti costretti a mendicare sulla porta di una chiesa od all’ingresso di altro locale pubblico, per campare la vita.
Come può, una madre, non maledire i responsabili di tanti orrori, dopo anni ed anni di amorose cure, di notti insonni e dopo tutti i sacrifici che comporta alla vita di una madre fare crescere un figlio, perdendolo, a vent’anni, rapito alla vita, senza sapere dove, come e perché?
Quale avvilimento pure per quel povero ragazzo ancora giovane, che non solo è inabile a guadagnarsi il proprio sostentamento, ma vede, capisce, conosce, seppure si cerchi di nasconderglielo, che molte volte è un peso, è un sacrificio per la sua famiglia.
A quale rispetto sono fatti segno simili infelici, ai quali la patria ha chiesto il sacrificio, non solo della loro gioventù ma addirittura di una parte del loro corpo, lasciandoli menomati per tutta la vita?
Quale compenso ha allora dato loro la patria?
Spesso nega la più misera delle pensioni, ovvero concede una pensione di magari 1880 lire mensili a chi è ritornato in seno alla propria famiglia tubercoloso.
No, è troppo triste constatare tutte le conseguenze che si riportano dalla guerra. I meno disgraziati poi, coloro che più fortunati dei mutilati, sono ritornati almeno in apparenza, in buona salute, quale avvenire si trovano dischiuso innanzi? Quale compenso hanno? Nulla.
Come ci si trova dopo sette, otto o dieci anni di militare se non più disorientati che a vent’anni, dopo avere sprecati gli anni migliori, che sarebbero stati apportatori di un benessere, di una sistemazione proficua per tutta la vita?
Non è tanto la vita di sacrificio e di umiliazioni che avvilisca, che faccia rodere l’anima in un amaro rammarico che rende sfiduciati, quanto è più il fatto di trovarsi a trent’anni molto peggio sotto ogni aspetto che non lo si fosse a 19, a 20 anni. Questa è sofferenza morale da aggiungere a quella fisica passata, ma certo, a quella assai superiore.
Se anche volessi aggiungere altro non sarei capace, perché pensandoci su troppa sarebbe l’esasperazione ed il dolore che proverei.
Tutto da costruire da capo!
Che fare se non mettere un macigno sul passato, fingere che nulla sia stato e con buona lena rimettersi all’opera a riedificare l’edificio crollato?
Nessuno è felice. Tutti abbiamo la nostra croce da portare: se più leggera il cammino è più agevole, se più pesante si fa come si può per portarla.
Ma ora che tutta la sequela di sacrifici, imposti dall’altrui volontà, è passata, ora che ogni sacrificio è più lieve perché confortato, guidato ad uno scopo ben chiaro, nonostante tutte le avversità che quotidianamente si incontrano, la vita non è più quell’incubo che era negli anni decorsi; anni che hanno lasciato scritto pagine tanto dolorose ed indelebili nella mia vita, ma bensì qualcosa di più elevato, in cui spero bene, con tanta fiducia, ispirata e sorretta dalla volontà di ricostruire.
Spero l’aiuto non mi mancherà

(Fine)

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