Liturgie

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GABRIELLA VERGARI

Solido e compatto nel suo bel formato quadrato, l’album sembrava prossimo a svelare i suoi segreti, benché al momento si trovasse chiuso sul tavolino davanti al divano.
Matilde l’aveva tirato a posta fuori dal robusto scaffale della libreria in quercia, dove stava normalmente riposto, un po’prima del preannunciato arrivo del giornalista, così da non dover perder più tempo del dovuto con l’intervista e i suoi passaggi obbligati.
Non era la prima volta e anzi si considerava una vera e propria veterana di quel tipo di liturgia.
E sapeva già per esperienza come sarebbero potute andare le cose, quando aveva confermato Alle 17,00 in punto, rimarcando l’in punto più per abitudine, che per autentica necessità.
Non sarebbe in fondo cambiato granché se, per quel pomeriggio, avesse posticipato di una decina di minuti l’ora del suo tè, tuttavia non vedeva la ragione di mutare una consuetudine che l’aveva accompagnata dalla giovinezza.
Il tè è saggezza liquida recitava, non a caso, una delle calamite poste sul  grande frigorifero a doppia porta, così che la carezza di quell’aforisma, potente e delicato a un tempo, la potesse raggiungere ad ogni suo ingresso in cucina.
Il tè permetteva inoltre di rendere meno distaccati i momenti iniziali e di entrare più direttamente in argomento senza la penosa sequenza degli approcci d’avvio che, nel corso degli anni, le erano venuti francamente a noia.
L’amore e l’amicizia non si chiedono come l’acqua, ma si offrono come il tè, l’aveva anche abituata a pensare sua nonna Carolina, che era di lontane ascendenze austroungariche ma aveva il vezzo del British style of life .
E certo i presupposti di quell’incontro non avrebbero avuto nulla a che spartire con i ricevimenti curatissimi che sua nonna amava una volta allestire alle amiche, né c’era motivo di ritenere che si potessero distaccare dalla mera cortese formalità.
Matilde restava comunque convinta che conoscere i gusti e le inclinazioni di chi le stesse davanti fosse pur sempre una via d’incontro a metà strada.
Nel suo genere, un’attenzione scelta, una cura per l’altro.
Latte o limone? Avrebbe quindi chiesto con garbo e la risposta dell’interlocutore l’avrebbe anche aiutata ad inquadrarlo un po’, come se stessero entrando in una specie di confidenza.
Così, quel giovane dalla voce simpatica, che le aveva chiesto di poterla incontrare per l’inserto domenicale della rivista per cui lavorava come free lance, non poteva di sicuro sospettare che, quello di offrirgli una tazza di tè, sarebbe anche stato un suo particolarissimo escamotage per ricavare più informazioni sul suo conto di quel che lui si immaginasse.
Lei, il tè, lo preferiva senza zucchero né aggiunte d’ogni tipo.
Era una bevanda nata all’origine per curare e tanto più amara e forte nel gusto restava, tanto più efficace si mostrava nel rilasciare il suo benefico dono.
Benché non ignoto ai cinesi stessi, l’uso di aggiungervi del latte nasceva invece da tutt’altro ambiente e tutt’altro mondo, grazie a madame Marguerite de la Sablière, che l’aveva introdotto  nei salotti  mondani del suo tempo e da lì ne aveva avviato la diffusione in Europa.
Non era certo il massimo come cartina di tornasole, e anzi Matilde sarebbe stata perfino disposta a riconoscere che potesse apparire quanto meno bizzarra, ma aveva già stranamente funzionato in molteplici e svariate occasioni, perciò non aveva motivo di non affidarvisi: se il giovanotto in questione avesse inclinato per il latte, lei sarebbe stata giocoforza indotta a ritenerlo mosso da un interesse tutto sommato superficiale e passeggero per ciò che avrebbe avuto da raccontargli, così come da una sostanziale frivolezza modaiola era scaturita l’abitudine di aggiungere del latte fresco al tè bollente, nei salotti francesi.
In quel caso non valeva la pena di prenderlo troppo sul serio, perciò sarebbe stata laconica e piuttosto sbrigativa e avrebbe lasciato l’album chiuso lì dov’era.
Se invece il giovane avesse rifiutato ogni aggiunta, o al limite preferito il limone, l’avrebbe preso più sul serio e, dopo un altro paio di test che aveva escogitato e messo in pratica nel tempo, avrebbe infine deciso di fargli vedere l’album.
Lo sfiorò con lo sguardo.
Ne conosceva il contenuto pagina per pagina, come se lo stesse sfogliando in quel momento stesso.
Erano invece passati sei anni da quando aveva incollato le ultime foto.
Si apriva con il volto di Gustave, suo marito, ancora imberbe e fresco, emozionato e baldanzoso, mentre stringeva il mazzolino di gigli e camelie che le avrebbe consegnato non appena lei lo avesse raggiunto all’altare.
Nessuno avrebbe potuto allora immaginare che, da lì ad una ventina d’anni, quel volto, un po’ meno giovane e fresco, si sarebbe trovato, per settimane, sui notiziari di mezzo mondo, in seguito alla scoperta di un nuovo farmaco contro l’artrite reumatoide.
E, se qualcuno gliel’avesse predetto, proprio Gustave sarebbe stato il primo in quel momento a stupirsene. Mentre stava così  in attesa che lei divenisse sua moglie non aveva pensiero, Matilde lo sapeva bene, che per la nuova vita che stavano per condurre insieme, dopo tutte le tribolazioni e gli affanni del loro lungo fidanzamento.
Nell’eventualità in cui avesse chiesto del limone, meglio ancora se non avesse chiesto niente, il giovane intervistatore avrebbe pure avuto il privilegio di vederla, più o meno dopo la quinta pagina dell’album, la foto della loro prima casetta, messa su come avevano potuto, ma piena di cura e grondante d’amore: un babà immerso nel rum dicevano agli amici.
Un appartamento al secondo piano di uno stabile signorile, con le pareti intonacate avorio e il pavimento a scagliette di marmo.
E non aveva nemmeno bisogno di socchiudere gli occhi, Matilde, per risentire in un attimo il profumo della torta di mele la domenica o dei biscotti di pasta frolla e cioccolato per cui Gustava andava pazzo, o il bacio sul collo con cui spesso la ricompensava, abbracciandola da dietro, le molliche a segnare il suo passaggio come i sassolini di Pollicino.
Ben presto, alle loro, si sarebbero una dopo l’altra aggiunte anche le vocette di Giulia, Roberto e Francesca, a riempire le stanze di nuova freschezza e risate.
Il giovanotto li avrebbe trovati colti nel momento della nascita e poi del battesimo e della Prima Comunione più o meno a partire dalla decima pagina e, scorrendo la sezione centrale, avrebbe anche  potuto vederli crescere in fretta, insieme ai tutù variopinti di Giulia, le coppe dei tornei di calcio di Roberto, il pianoforte di Francesca, le gite con i compagni, i tornei di tennis finché…
Già, finché non era giunto il successo e Gustave era stato sempre più preso, sempre più infervorato.
Le sue valigie perennemente pronte e perennemente all’ingresso, i week-end familiari all’improvviso interrotti, le vacanze annullate, le trasferte dell’ultima ora, il silenzio sempre più denso della loro camera da letto, forse qualche  collaboratrice fin troppo solerte.
Non era stato facile stargli vicino ed essere allo stesso tempo così lontana.
C’erano stati addirittura dei momenti in cui lei si era sentita come costretta all’inseguimento.
Non un cacciatore con la sua preda, assurdo anche solo pensarlo, ma un corridore teso ad una meta sempre più irraggiungibile, quasi che qualcuno gliela spostasse in avanti senza sosta.
Solo che in palio non c’era un trofeo di metallo ma tutto quello per cui, fino ad allora, aveva così duramente lottato, ovvero la sua armonia familiare e soprattutto il suo rapporto con Gustave.
Il televisore acceso di continuo, il telefono come vitale surrogato di una presenza desiderata che era giusto, o forse solo inevitabile, accettare  non ci fosse, o  parlasse, quasi sempre di fretta, da un aeroporto o una stazione, una camera d’albergo o una sala congressi.
Né facile era stato far fronte al progressivo svuotamento della casa, o apparecchiare con un piatto solo il grande tavolo in noce di quella che era adesso la loro nuova casa, con l’ampia e confortevole sala da pranzo, pensata per ospitare intere frotte d’amici e parenti.
Verso la fine dell’album, il giovanotto bevitore ortodosso di tè avrebbe infatti, come naturale, trovato le foto più recenti, quelle dei  matrimoni dei loro tre magnifici ragazzi ormai decisamente cresciuti, e perfino quella con Gustave junior appena nato, tra fasce e merletti in braccio all’ormai celeberrimo nonno.
Un ultimo momento di pienezza che lei aveva scelto a sigillo dell’album come della sua vita matrimoniale stessa, stroncata in un fiat dal male che in meno di un mese se l’era impietosamente portato via, quel marito così illustre, che tanto strenuamente aveva dovuto dividere e contendere al mondo.
Per l’ennesima volta Matilde scacciò via recisa la malinconia che sempre più spesso di quei tempi l’assaliva e si alzò per il rituale a cui amava attendere di persona, ovvero preparare il vassoio con le tazze di porcellana, di cui aveva intere collezioni: una piccola mania che aveva contribuito ad alleggerirle non poche giornate, soprattutto in quell’ultimo periodo della sua vita.
Mentre tentennava indecisa se scegliere quelle con i paesaggi bavaresi o quelle rosa con i pavoni blu cobalto, cinque fondi ma musicali rintocchi della sua vecchia pendola, un amato retaggio della famiglia paterna, si intrecciarono al dlin dlon della porta.
Puntuale il giovanotto, constatò compiaciuta. Era già un piccolo punto a suo favore.
Ora non restava che farlo accomodare e al momento opportuno porgli, da insospettabile Turandot novella, il suo piccolo quesito.
Quale fu però la sua sorpresa quando il giovanotto rispose: «La ringrazio moltissimo, ma il tè mi procura dei tremendi mal di capo. Se possibile, gradirei invece moltissimo un bicchier d’acqua…»

(da AA. VV, Tracce di desiderio, Algra, Ct, 2019)

illustrazione di Franco Blandino