Enea: migrante o colonialista?

Enea da Storia dell'Italia antica Vannucci

Enea da Storia dell’Italia antica Vannucci

PAOLO LAMBERTI

All’interno del dibattito sull’immigrazione, sterile e di basso livello, alcuni classicisti hanno cercato di evocare la figura di Enea come modello di migrante, per dare un più ampio respiro alle riflessioni quotidiane. Così Maurizio Bettini, Eva Cantarella, e sul Domenicale del Sole del 23 giugno Nicola Gardini. Pessima idea.
Una volta liberatici dal fascino dei versi virgiliani, e dagli infiocchettamenti ideologici (il destino di Roma, la pietas e così via), rimangono i Realien, i nudi fatti della storia. Per niente rassicuranti.

Troia cade, dopo aver scatenato, tramite Paride, una guerra di rapina: i guerrieri troiani resistono sino all’ultimo uomo, mentre, come nel 1945, alcuni gerarchi se la filano. Per volontà degli dei (così ci viene detto), Enea non solo si salva, ma porta con sé padre, figlio, parenti, amici, armi, tesori, navi.
Ma non la moglie, Creusa: che un sogno provvidenziale (e raccontato da Enea) ci dice essere rimasta indietro, morta. Morta o abbandonata, l’episodio ci conferma un orizzonte maschile della migrazione, in cui le donne si lasciano per trovarne di nuove: da Creusa a Lavinia via Didone; non a caso le donne troiane comunque imbarcate (è proprio solo Creusa ad essere lasciata indietro), stanche di tanti viaggi, si ribelleranno e verranno lasciate in Sicilia; i Troiani non sembrano migranti ansiosi di ricongiungimento.

L’episodio si accorda in modo singolarmente efficace con i risultati della paleogenetica. Grazie alle tecniche attuali si è recuperato molto DNA antico, che ci permette di riscrivere, o di scrivere ex novo, molti capitoli di storia. Definitivamente archiviato non solo il concetto di razza (figuriamoci pura) ma anche indebolito quello di specie, viste le tracce Neanderthal e Denisova che ci portiamo dietro; anche il “diffusionismo” caro agli anni Settanta, per cui si diffondono le idee e le invenzioni e non le popolazioni, appare un fenomeno meno importante delle continue migrazioni. Uno degli aspetti più frequenti di questi movimenti è il fenomeno che definirei Creusa/Lavinia: il DNA mitocondriale (trasmesso per via femminile) è in modo maggioritario derivato dalle donne della popolazione che accoglie, ovvero Creusa sparisce e Lavinia subentra. Invece il DNA del cromosoma Y (discendenza maschile) è in buona parte derivato dai maschi dei migranti (neanche tanti, segno che i migranti hanno una struttura gerarchica che limita soprattutto ai capi l’accesso alle nuove donne). Dove finiscono i maschi della popolazione ospitante? Magari dove finisce Turno: vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

Ma torniamo ad Enea, che viaggia in quel Mediterraneo di cui si ama parlare come di un’unità culturale. In realtà la guerra di Troia, guerra che doveva finire tutte le guerre (già sentito?) ha lasciato dietro di sé il caos: seguendo il mito, i nòstoi, i ritorni degli eroi, sono un accumularsi di naufragi, omicidi, guerre civili, esili, sanguinose fondazioni di nuove città. Sembra di cogliere l’eco di quel XII secolo a.C. che ha visto il Mediterraneo sconvolto dai Popoli del Mare, una serie di migrazioni forse legate a cambiamenti climatici che hanno visto la sparizione di Micenei ed Hittiti, l’invasione dell’Egitto e molti altri disastri: spesso ad unificare il Mediterraneo sono state le guerre, non solo la cultura.
In questo quadro il migrante Enea non lo vuole nessuno: naviga da Est ad Ovest, da Nord a Sud, ma dei e uomini continuano a spingerlo altrove. Fino a Cartagine: qui c’è il sogno dell’accoglienza, ben oltre le speranze delle ONG e pontificie. I troiani sono accolti, viene offerta la cittadinanza, la partecipazione alla costruzione di una nuova città; ad Enea Didone offre letto e trono. Ma Enea se ne va (sempre gli dei e il Fato), Didone si uccide, i Cartaginesi rimangono con mezza città e la minaccia di invasione dei locali (anche loro erano migranti. O colonialisti), e maturano un odio inestinguibile verso una città che deve ancora nascere. I discendenti di Enea torneranno a finire il lavoro, spazzando Cartagine dalla faccia della terra e seminando sale sulle rovine.
Enea sbarca in Italia, dalle parti di Anzio (corsi e ricorsi della storia). L’Italia è in pace e in equilibrio, Latini, Rutuli, Volsci, Arcadi ed Etruschi intrecciano matrimoni e cacciano i pochi tiranni come Mezenzio: i Saturnia regna. Arriva Enea e tutto va a catafascio: inizia una guerra feroce, i popoli si dividono, e come nella Prima Guerra Mondiale a morire sono i giovani migliori, Lauso, Eurialo, Pallante, Camilla.
Mentre Enea, dopo una piacevole passeggiata nell’aldilà, si dedica all’archeologia del futuro sui colli romani, i suoi sono fatti a pezzi. Al suo ritorno, a morire sono gli avversari: è pur sempre un eroe, con Venere che gli dà una mano quando le cose vanno male. Gli dei e il Fato hanno già deciso tutto, e l’ultimo colloquio tra Giove e Giunone ci offre un modello di accoglienza che seppellisce il “multiculturalismo”: i Troiani vincono, ma non fonderanno una nuova Troia, perderanno la lingua, si assimileranno ai Latini e saranno Romani, mai più Troiani. Così funzionava veramente l’Impero Romano.
Alla fine Enea sconfigge Turno, ammazzandolo dopo averlo sconfitto: neanche la poesia di Virgilio riesce a dare un senso a questa uccisione a freddo. Mission accomplished? Se si continua a seguire le tracce di Enea nel mito, si apprende di nuove guerre contro gli indigeni, che lo porteranno ad essere ucciso sul fiume Numicio, in cui sparirà (o verrà innalzato al cielo: decidete voi la versione più logica).

Che tutto questo offra un modello rassicurante per le migrazioni, non direi: anche se indubbiamente di spunti di riflessione ne offre.