4. Damnatio memoriae

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DINA TORTOROLI

La divinità, invocata nel poemetto La Résignation, concesse a Carlo Imbonati anni plus sereins, ma il 15 marzo 1805, «inopinatamente» egli morì. Aveva cinquantadue anni e dal 1796 viveva a Parigi, con Giulia Beccaria Manzoni.
Giulia sembrava impazzita per il dolore, pertanto Sophie de Condorcet le fu d’aiuto, consigliandole di fare imbalsamare la venerata salma, per poi ricoverarla in una cappella, all’interno del parco della sua  Maisonnette, a Meulan.
Tre mesi dopo, in una lettera a Francesco Melzi d’Eril, Cancelliere del Regno Italico, Giulia domanda la grazia di «portare le spoglie del venerabile amico […] nella sua terra natia dove almeno sarà circondato dalla benedizione delle persone alle quali fu sempre un padre e un padrone benefico»: a Brusù, «luogo sacro» per lei ( Romano Amerio, Brusuglio / Guida alla visita di Villa Manzoni, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, s. d., p. 37).
Si tratta di Brusuglio, «un vico a nord di Milano sulla via Comasinella […] poche casipole di contadini tutte contigue e allineate lungo il decumano (oggi via Alessandro Manzoni) e due grandi case appartenenti l’una ai conti Imbonati e l’altra ai conti Trotti, proprietari appunto delle terre che quei contadini lavoravano» (R. Amerio, cit., p. 21).
La traslazione della salma avvenne nel maggio 1806.
Ebbe sistemazione provvisoria in una delle stanze della casa (fino al  settembre del 1807), poiché era ancora in corso la costruzione del tempietto che Giulia – grazie al Melzi d’Eril – aveva ottenuto di erigere nel giardino della villa.
Era opera dall’architetto Gottardo Speroni e ne abbiamo la descrizione:
Il tempietto ha una cripta, una cella sopraelevata per l’altare, un portico e una gradinata d’accesso. Dalla cella dell’oratorio si scende alla cripta per una scala interna. Nel settembre 1807 l’edificio ebbe gli ornamenti pittorici di un Cambiasi, i triglifi al cornicione e i capitelli in stucco da Paolo Toletti (erano quattro arcate e otto colonne) […] Nella cripta furono deposte le spoglie dell’Imbonati, non nel mezzo di essa, ma da un lato, al lato opposto essendo previsto il luogo per donna Giulia. Al sarcofago ipogeo corrispondeva un monumento nella cappella soprastante, come usa tuttora nei nostri monumentali. Tanto il sarcofago quanto il monumento avevano una lapide con questa epigrafe ricostruita da Sioli- Legnani: D. O. M. / ET MANIBUS CO. KAROLI IOANNIS IMBONATI MED. / PII OPTIMI / HOC CHARITATIS SUAE TEMPLUM ER. / IULIA BECCARIA CAESARIS F. ET SORORES MOESTISS. / MDCCCVI.
Cioè: A Dio Ottimo Massimo / e all’anima del milanese conte Carlo Giovanni Imbonati / pio e ottimo / eressero questo tempio del loro affetto / Giulia Beccaria figlia di Cesare e le sorelle in gran pianto. 1806.
I frammenti dell’una e dell’altra lapide, trovati durante i lavori del 1955 nello spazio antistante alla villa, sono adesso murati nel portico di levante della corte (R. Amerio, cit., pp. 43-44).
L’immagine di quei frammenti mi tormenta ormai da cinquant’anni e ancor più mi inquieta sapere che essi testimoniano la cosiddetta damnatio memoriae dell’Imbonati.
Per quanto io mi impegni a farlo, non riesco a capire perché si sia voluto utilizzare questa formula latina (senza nemmeno corredarla di un aggettivo che ne segnali immediatamente l’illegalità), per definire l’offensivo, inaccettabile destino ultimo dell’Imbonati.
È un’espressione fuorviante.
Pare persino superfluo ricordare che la damnatio memoriae, nel diritto romano, era un procedimento di condanna che prevedeva la cancellazione di tutti quegli elementi (iscrizioni, immagini, ritratti) in grado di ricordare un personaggio resosi responsabile di atti gravissimi, imperdonabili.
Ma l’Imbonati non aveva commesso alcun reato, e Alessandro Manzoni si guardò bene dall’imputargliene.
Ciò nonostante (pochi anni dopo la cosiddetta conversione di donna Giulia e di Alessandro, e l’abiura del Calvinismo di sua moglie Enrichetta Blondel), l’atteggiamento del Manzoni nei confronti del benefico «padre aggiuntivo» (Vigorelli), subisce un rovesciamento:
Si incominciò col distruggere ogni cosa di lui, a cominciare dalle lettere da lui scritte e a lui indirizzate, comprese quelle in cui egli aveva invitato Alessandro a raggiungere la madre a Parigi e la risposta di Alessandro; si distrussero molte sue carte, eccetto alcune tra le quali, secondo un’azzardata ma suggestiva ipotesi cui accenneremo, ci sarebbe stato un romanzo in francese che sarebbe divenuto il brogliaccio del manzoniano Fermo e Lucia; si continuò con la distruzione degli oggetti; persino il ritratto fatto a Parigi venne rimosso, forse distrutto. Anche il Carme subì la stessa sorte: farlo sparire fu impossibile, visto che era stato pubblicato; nel 1823 però il Manzoni ne proibì tassativamente la ristampa. L’eredità Imbonati, con la quale Giulia era divenuta proprietaria di immobili e beni di notevole valore economico, fu invece conservata (Erminio Gennaro, Carlo Imbonati / Mito e tormento in Casa Manzoni, in: Atti dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, Vol. LXXII, Anno Accademico 2008-2009,  sestante edizioni, 2010, p. 103).                                                                                                                                                                                                                                                   Poi venne il giorno in cui il tempietto dell’Imbonati fu ridotto in macerie e sostituito – pare – da una ghiacciaia.
Vogliamo immaginarle quelle colonne abbattute e quel cumulo di mattoni e di calce, che dovette essere strascinato via dal parco – con grande scandalo della famiglia del fattore, che da allora considerò quell’area infestata dallo spirito sdegnato dell’Imbonati – e cercare di scoprire un movente credibile?
Non meno enigmatico appare l’occultamento o la distruzione dell’intero archivio familiare degli Imbonati, quindi dell’archivio dell’Accademia dei Trasformati: documenti che il conte Giuseppe Maria Imbonati, come Conservatore Perpetuo dell’Accademia, aveva avuto in custodia, non in proprietà.
Almeno quest’attentato all’utilizzabilità di opere dei più accreditati pensatori lombardi dovrebbe indurre a un attento esame di quell’operazione di cancellazione – vasta, complessa, protratta nel tempo – che non può davvero essere assimilata alla modalità di cui ci si serviva a Roma, per sanzionare la memoria dei defunti più invisi, come avveniva nel caso dei  mali Principes.
Come si può non vedere la gravità di gesti-spia anche o soprattutto di una intollerabile sofferenza? E allora perché non interrogarsi sulle cause di tanta angoscia?
Non certo nell’intento di emettere animose sentenze di condanna.
Al contrario, faccio mia l’affermazione di Marguerite Yourcenar: «ogni essere che ha vissuto l’avventura umana sono io».
Proprio per questo, però, non trovo giusto fingere di non vedere, cioè rinunciare a capire.
Andiamo dunque a fondo: che cosa esasperava Alessandro? Che cosa rendeva necessari quei gesti odiosi che neppure Giulia osava impedire?
Quali e quanti tragici conflitti interiori separano il giorno in cui Alessandro dedicava alla madre i Versi in morte di Carlo Imbonati da quello in cui ripudiò il Carme, dicendo che avrebbe voluto non solo non averlo mai scritto, ma neppure «pensato»?
Quella sua spietata azione demolitrice era un tentativo di esistere senza Imbonati? Osare esistere  senza di lui?
Una risposta in grado di appagare me, fino a diventare un radicato convincimento io l’ho raggiunta, negli anni, a mano a mano che in archivi di Stato o in biblioteche recuperavo nuovi elementi, fino al rinvenimento della commedia La Bastiglia, che si conserva nella Biblioteca Palatina di Parma, ma sarebbe fuori luogo cercare di fornire un resoconto ora, così, alla sfuggita.
Però vorrei attirare l’attenzione altrui su una scena dell’Adelchi, nella versione primigenia: la Scena Prima dell’Atto Terzo, in cui Adelchi dà sfogo all’angoscia che l’opprime:
Siam soli alfin, diletto Anfrido, io posso / Questo superbo intolerabil giogo / Di finta gioja e di dolor compresso / Da me cacciarlo alcun momento, e teco / essere Adelchi […] innanzi a te soltanto / L’anima mia torna sul volto, e tutto / Il suo dolor vi porta, onde tu il veggia / E lo consoli, o lo compianga almeno./ […] La gloria, Anfrido! Il mio / Destino è d’agognarla, e di morire / Senza gustarla. Il nome mio del tutto / Non perirà, pur troppo: questo il tristo / Privilegio […] Oh mi parea, / Pur mi parea che ad altro io fossi nato / Che ad esser capo di ladron, che il cielo / Su questa terra altro da far mi desse / Che senza rischio e senza onor guastarla./ Oh quante volte invidiai codesto / Carlo che aborro […] egli a difesa / Del debole e del santo almen venia./  Il mio cor m’ange, Anfrido, ei mi comanda / Alte e nobili cose, e guardo, e nulla / Veggio che al voto del mio cor sia pari, / E alla mia possa a un tempo: e strascinato / Vo per la via ch’io non mi scelsi, oscura / Senza scopo; e il mio cor s’inaridisce / Siccome il germe in rio terren che il vento / Balza di loco in loco» (Tutte le opere di A. Manzoni, a c. di A. Chiari e F. Ghisalberti, Vol. Primo, Poesie e Tragedie, Verona, 1957, pp. 714-718).
In quel sussurro o in quel grido: «e teco essere Adelchi» io sento la voce di Alessandro che vorrebbe essere se stesso e far  conoscere la propria anima, con «tutto il suo dolor», affinché «lo [si] consoli, o lo [si]compianga almeno».
Però, insieme con la sua voce, mi pare giusto risuoni ora quella che si è tentato di far tacere per sempre: la voce di un amabile chrétien éclairé.
Nel 1795, prima di allontanarsi dalla patria, insieme con Giulia Beccaria, Carlo Imbonati volle stendere personalmente il proprio «Testamento nuncupativo implicito» e affidarlo al notaio.
È un testo che merita uno studio approfondito.
Qui pare opportuno trascrivere almeno il brano in cui l’Imbonati esprime la propria riconoscenza  alla justice della divinità che gli ha consentito  di  sentir la douceur di jours heureux:
In tutti poi gli altri miei Beni mobili, ed immobili, crediti, ragioni, azioni ed ogn’altra cosa, che al tempo della mia morte si troverà dalla mia Eredità, ho instituito, ed instituisco per mio Erede universale Giulia Beccaria Manzoni Figlia di Cesare Beccaria Bonesana, e di Teresa de Blasco conjugi defunti, e questa mia libera, ed irrevocabile disposizione è per un’attestato che desidero sia reso pubblico, e solenne di que’ sentimenti puri, e giusti, che debbo, e sento per detto mio Erede per la costante, e virtuosa amicizia a me professata, dalla quale riporto non solo una compita sodisfazione degli anni con lei passati, ma un’intima persuasione di dovere alla di Lei virtù, e vero disinteressato attaccamento quella tranquillità d’animo, e felicità, che mi accompagnerà fin’al sepolcro; per le quali cose non potendo io mai arrivare a sodisfare il mio cuore nella pienezza de’ suoi sentimenti per detto mio Erede prego il Sommo Iddio nostro comune Padre, e Creatore a ricevere, come umilmente gli porgo, li voti miei con tutta l’effusione del mio cuore per il miglior bene di detto mio Erede, e perché ci conceda di benedirlo, ed adorarlo eternamente insieme (Archivio di Stato di Milano, Fondo Notarile, notaio Franzini Francesco, cart. 49441).

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