Diario di una giovinezza, ventiduesima puntata

Campo di Venusbeerg 1944

Campo di Venusberg 1944

FELICE BACCHIARELLO

Venusberg (Prima parte)

Si arrivò in tale zona, forse la più collinosa della Germania, in ferrovia attraversando un bel tratto di pianura, passando per parecchie città, tra distrutte e intatte, inoltrandosi poi tra le immense pinete della Sassonia, tanto che tra di noi ci si chiedeva dove saremmo andati mai, sempre in quei boschi, in valloni oscuri.
In tale occasione ricordo di essere passato per la bellissima città di Dresda (Dresden), forse una delle pochissime che si intonasse alle nostre più grandi città, che a differenza delle altre metropoli tedesche non dava quel senso di pesantezza, parendo più gaia delle altre. Ricordo che aveva una bellissima stazione, doppia, esterna e sotterranea. Dico aveva perché in seguito, dopo mesi appena, fu rasa al suolo a detta degli evacuati dalla stessa.
Tanti e furibondi furono gli attacchi aerei su questa città che, pur distando dalla località che ci ebbe ad ospitare all’arrivo poco meno di 100 chilometri, tremava la terra sotto i nostri piedi.

Ultima grande città incontrata prima di arrivare ai piedi della zona collinosa fu Chemnitz, con circa mezzo milione di abitanti, dei quali 120.000 morirono in un unico bombardamento che rase al suolo metà della città.
Essendo io a poca distanza, ricordo che per tale evento il fuoco distruggitore nella città durò per parecchi giorni di seguito, elevandosi enormi e dense colonne di fumo, ben visibili anche di giorno.
Meta del nostro viaggio fu Venusberg, paesetto di campagna, posto alla cima di una valle, al quale si arrivava da Chemnitz per mezzo di un trenino su ferrovia a scartamento ridotto. Per sfuggire ai più violenti attacchi aerei dannosi alla industria bellica, la Germania aveva trasportato le sue fabbriche in tali zone, più tranquille, e le aveva nascoste nei boschi, ma non meno furono oggetto delle attenzioni degli angloamericani i quali troppo spesso venivano a disturbare la quiete alpestre.
Arrivati nella nuova località, alle dipendenze di una grande ditta costruttrice di aeroplani, la “Iuncker”, fummo accantonati in un enorme casermone, all’ultimo piano di quella che era stata una fabbrica di tessuti, capace di 200 persone, illuminato e arieggiato da finestre semicircolari, alla sommità, sotto i tetti.
Anche in quella località ottenni di rimanere con mio fratello.
Alla sommità della scala d’accesso il filo spinato ci sbarrava la via d’uscita dalla ritirata dal lavoro sino alla sveglia.
Sotto di noi erano alloggiati lavoratori civili, Francesi, Cecoslovacchi e Russi.

Causa l’ambiente più civile, il trattamento in questo campo fu alquanto migliore, aiutato anche dal fatto che, vivendo con molti civili, specialmente Cechi, i quali, data la vicinanza alle loro case erano forniti sempre di viveri, si svolgeva bene il commercio di scambio pane-sigarette.
Per un po’ di tempo andò così, ma aggravandosi poi la situazione bellica per la Germania, anche qua la vita cominciò diventare difficile, a farsi sentire la fame.
Per un po’ di tempo fui adibito ad un lavoro di conduttura d’acqua, poi fui di botto qualificato “meccanico” per aver varcato il portone dello stabilimento.
Almeno se si ebbe a soffrire pressappoco tutti gli altri precedenti patimenti, qui essendo addetti alle macchine, non si ebbe a patire il freddo. Così fui messo, sin dal primo giorno d’ingresso, al tornio, che in seguito alternativamente ad eventuali lavori di fresa e di trapano, fu sempre la mia occupazione, che del resto non mi sarebbe dispiaciuta affatto, se anziché demoralizzato ed affamato, fossi stato in migliori condizioni.
Dicendo io di avere alquanto migliorato in questo nuovo campo non è poi da intendere che ivi avessi trovato l’America, ma fu per noi tutti già un buon miglioramento il fatto di non sentirci ad ogni istante quell’orco che si aveva in Slesia alle calcagna.
Pur avendo la possibilità di qualcosa di più da mangiare non è poi da credere che la fame fosse tanto meno; credo che se ancor oggi fossi colà, non sarei arrivato a salvarmi certamente.
Era cambiato campo e lavoro, l’ambiente un po’ più civile, essendo ivi meno dileggiati e maltrattati, ma si era pur sempre prigionieri, auslander, traditori, ecc.

I lavoratori alle dipendenze della ditta erano tedeschi (i quali al mattino incontrandosi tra di loro all’arrivo in fabbrica, si salutavano con il “Heil Hitler”), di tutte le età e di ambo i sessi, tutti guardandosi biecamente tra di loro e con diffidenza.
Un trattato ci sarebbe da scrivere su un simile argomento! Un popolo di serpi velenosi, striscianti a terra o aggressivi, a seconda del caso.
Vi era un buon numero di Belgi Flamen (fiamminghi) specialmente, altro tipo, in nulla differenti dai tedeschi, forse più falsi ancora e spie. Vere immagini dell’inglese, impassibili, erano i pochi olandesi pure qui con noi.
Paragono lo stabilimento ad una vera torre di Babele in quanto le più disparate lingue venivano in esso parlate.
Seguivano i francesi, costituiti da un misto di tipi, caratteri, volontà, menefreghisti, insomma un ambiente pressappoco formato sulla foggia del gruppo degli italiani, lavoratori civili, provenienti dall’Italia, nel quale era un insieme di individui equivoci, per i quali non sarei stato mallevadore a nessun patto; persone insomma dalle quali era meglio vivere il più lontano possibile per non esserne contagiate. Tale era la comunità italiana civile alloggiata nel Lager con noi, completata poi da alcuni esemplari di donne che descrivere sarebbe cosa difficile.
Seguitavano poi solitari e taciturni, come i Buddisti nelle moschee, i Lituani ed i Lettoni, in maggior parte persone che avendo parteggiato per i tedeschi, nella cui vittoria avevano avuto certezza, avvicinandosi i Russi alle loro patrie dovettero per necessità ridursi in Germania come lavoratori. Donne e uomini di alta società, che forse per i loro vili servigi resi al Reich si erano creduti di giungere in Germania accolti come personalità degne d’ammirazione; al contrario, come di solito succede in simili casi, furono messi né più né meno alla nostra stregua.
La schiera più invisa ai tedeschi, unitamente a quella italiana prigioniera (ed anche civile) era costituita dai russi.
Più tardi si aggiunsero 1200 ragazze ebree, metà polacche e metà ungheresi di cui parlerò in seguito.
Ho fatto la enumerazione di cui sopra, al solo scopo di fare presente quanto sia difficile la vita in comune con migliaia di persone di diversi concetti e mentalità, di differenti idiomi, e quanto bisogni in simili casi camminare ed agire guardinghi, dovendo vivere in una continua diffidenza, dubitando di ogni compagno di lavoro e di sventura, fosse pur esso assai più leale e giusto di noi.

Come ognuno sa, da prigionieri fummo dichiarati lavoratori civili. Unica variante dalla precedente situazione e condizione fu il fatto che con loro grande rammarico, se ne andarono i soldati di guardia e passammo sotto il controllo della polizia civile, zotica e ottusa.
Sempre dodici ore di lavoro alternativamente una settimana di giorno ed una di notte.
Stringendosi sempre più il cerchio attorno al Reich, la vita divenne ognor più difficile, sia per mancanza di viveri sia per il pericolo bellico, essendo quasi ogni giorno tutto il territorio in stato di allarme.
Lavorando di notte, il tempo che di giorno avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, si impegnava invece la maggior parte a vagare per i paesi vicini in cerca di commestibile.
Avveniva talvolta di andare distante circa otto chilometri per mangiare in una bettola una zuppa di patate; talvolta non la si trovava nemmeno.

Giunti a febbraio, si ebbe pressoché ogni giorno uno, se non due, allarmi aerei. Ora, oltre gli Angloamericani, arrivavano anche i Russi. Indescrivibile il panico allorquando le sirene dello stabilimento annunciavano l’allarme. Una massa di persone correva affannata giù per le scale dal quinto piano fino al terreno, ingrossata da quella dei piani sottostanti, tutti spingendo, urtando, fino in aperta campagna. Ogni volta che arrivavano gli apparecchi non si faceva mai in tempo a raggiungere il rifugio, piuttosto lontano. Era tale la paura che alcuni, anziché recarsi all’accantonamento a dormire, andavano invece nel rifugio, sotterraneo, umido, colante acqua da tutte le pareti rocciose, profondo in certi punti oltre 100 metri. Era una cava di calce esaurita.
Nel frattempo, avendo i Tedeschi evacuata la Polonia, portarono a lavorare nel nostro stesso stabilimento 600 ragazze ebree di nazionalità ungherese, colpevoli unicamente di essere ebree, la razza che secondo la mentalità di Hitler e di ogni tedesco doveva essere assolutamente eliminata.
Nella sola Polonia furono trucidati circa 3 milioni di ebrei.
Arrivarono di già smunte, sfinite dalla fame e dal lavoro, scalze o con una ciabatta normale e l’altra lunga 5 cm più del necessario. Indossavano una unica veste in pieno inverno sulla quale a segno di spregio era tracciata sul davanti e sul di dietro una grande X.
I capelli disciolti ed arruffati o addirittura rapati a zero; non era loro consentito tenere pettini e nessun altro oggetto di pulizia.
Si leggeva nei loro volti tutta l’angoscia e lo smarrimento umanamente possibili, tali da muovere qualunque cuore a compassione, ma non quello tedesco.
Le nostre sofferenze, raffrontate alla miseria alla quale erano costrette quelle povere sventurate, ci parvero lievi.
Furono alloggiate in baracche a lato del nostro accantonamento, recinte da doppi reticolati e sottoposte ad una disciplina senza pari, con viveri di gran unga inferiori ai nostri e più cattivi ancora.
Ve n’erano da dodici anni di età al massimo di trenta.
Erano sorvegliate e martoriate da quella aborrita categoria di ausiliarie delle S.S. che raccoglieva le più degeneri donne della malavita tedesca, capaci di tutto.
A questa prima schiera se ne aggiunse ben presto un’altra, composta di tutte polacche, queste ancora in piena salute all’arrivo, ma che ben presto furono ridotte al punto delle prime arrivate.
Così erano 1200 a soffrire con noi e più di noi.
Furono messe a lavorare con noi, anch’esse per dodici ore. Forse per stancarle maggiormente (come era faticosa tutta la notte, in piedi dinanzi ad una macchina, al rischio di farsi stritolare) o forse per la vergogna di farle vedere in giro di giorno, così malconce, le facevano quasi sempre lavorare di notte, mentre di giorno, anziché lasciarle riposare, le tenevano per ore ed ore adunate.
Racconto questo in quanto sento che non solo la fame, il lavoro, i maltrattamenti subiti, tutti i sacrifici fisici, ma anche le impressioni sullo spirito sono sofferenze talvolta più dolorose e più deprimenti che non quelle materiali.
Sorvolando su altri particolari riguardanti le predette sventurate, mi è nitidamente impressa nella mente quella colonna che dal campo camminava verso lo stabilimento, costituita da 1200 ragazze della migliore società polacca, dimagrite, fantasmi vestiti di grigio, una enorme schiera di croci a moltiplicato, a capo chino, zoppicanti e trascinantisi a stento, sospinte a urtoni le ritardatarie e trascinate per i capelli dalle megere che di donna non avevano più nemmeno il vestito e di umano nemmeno il minimo sentimento.
In tempo delle incursioni aeree, mentre noi si era obbligati ad uscire dallo stabilimento stesso o dal campo, a seconda di dove ci si trovava, quelle al contrario venivano chiuse ed abbandonate in un reparto dello stabilimento stesso o nelle baracche, mentre le guardie andavano a rifugiarsi.
Una notte, durante un bombardamento in cui saltarono in aria le tubature dell’acqua, l’impianto elettrico e tutti i vetri dello stabilimento, per le bombe cadute tutto intorno allo stesso, le poverette si trovavano colà rinchiuse ed ognuno può immaginare in quali condizioni di terrore.
La stessa notte, come loro mi trovai anch’io sotto le bombe pioventi da ogni lato, ma in aperta campagna e non rinchiuso in un enorme fabbricato barcollante e rimbombante in ogni scoppio.
Durante un altro bombardamento, rinchiuse nell’accampamento sole, fu tanta la forza della disperazione e della paura in loro, che riuscirono a divellere la porta spinosa di entrata, per darsi alla fuga per la campagna; altre si lanciarono fuori dai reticolati alti parecchi metri, rimanendovi appese tutto il tempo del bombardamento, fino al rientro delle compagne.
È ovvio dire che per una violazione simile vennero severamente punite.
L’esaurimento e l’abbandono di ogni speranza di miglioramento si faceva strada in quelle ormai gracili membra e la morte cominciò a mietere in gran numero.
Ogni giorno parecchie mancavano al lavoro perché ricoverate in infermeria (cioè anticamera della morte, poiché nessuna di quelle che vi era ricoverata ne usciva più sana e viva).
Quando l’infermeria (chiamiamola così) era troppo piena dei loro corpi trasparenti (ben poche credo superassero i 30 kg di peso quando venivano ricoverate), ardenti di febbre, le portavano al bagno, sito nel nostro accantonamento, così il calore del bagno le faceva svenire, talvolta per non ridestarsi mai più o, se mai, per poco.
Come si trascina una carogna di un cane, così venivano trascinate fuori in un corridoio, al freddo, e la morte era certa.
Anche per loro, in tali condizioni, era migliore la morte.
In media ne venivano seppellite dieci al giorno. Su di una barella, portata da due compagne, le quali certo pensavano che a poca distanza l’avrebbero seguita, avvolta in una specie di termo sacco, ogni vittima veniva portata in una fossa comune, alla stregua di un coniglio morto che si prende e si butta via in un campo.
Venivano accatastate le une sulle altre sino al numero di venti, indi ricoperte da uno strato di mezzo metro di terra.
Più nessuno dei loro cari le piangeva, perché di ogni famiglia erano quasi tutte le uniche superstiti.
All’aprile del 1945 si erano ridotte al numero di 300 viventi.
Le vidi passare incolonnate davanti al nostro accantonamento, quando venne l’ordine di evacuare il campo; forse Dio solo sa, come successe in molti altri casi, non avendole potute far morire di morte naturale, furono portate in una boscaglia e colà finite dalle S.S. a raffiche di mitragliatrice.

Quante crudeltà, quanto dolore, quanta miseria regnano continuamente nel mondo per volontà degli uomini! Quante cose, purtroppo, molti non immaginano nemmeno, eppure sarebbe bello sapessero, non dico per esperienza propria personale, perché tale cosa non augurerei nemmeno al più rognoso animale, ma almeno potessero averne la nitida visione dinanzi agli occhi. Allora anche le idee storte si raddrizzerebbero in teste esaltate, con occhi e cervello intenti solo a vedere e comprendere ciò che ad essi fa comodo!

Erano con noi oltre 50 bambini ucraini, i più grandicelli di 14 anni ed i piccoli sino ad otto anni di età.
Anche costoro, poveri bimbi, degni della più grande comprensione e commiserazione, erano obbligati al lavoro per otto ore giornaliere.
Non è possibile dire quale sia stato lo strazio delle loro rispettive mamme nel vederseli brutalmente strappare alle loro cure in così tenera età e deportati in terra nemica e piena di pericoli, senza mai più sapere se vivi o morti.
Si consideri che questi poveri bimbi, che avrebbero avuto bisogno della balia, erano costretti come noi ad indaffararsi per mangiare, per lavarsi la specie di biancheria (finite le maglie e le calze specialmente, si provvedeva alla loro sostituzione adattando all’uopo stracci di coperte ruvide; tanti avevano scambiato tutti gli effetti di biancheria in pane), per procurarsi tutte quelle cose, insomma, di prima necessità.
Nello stanzone dormitorio si era in duecento circa, sistemati in quei famosi “castelli” a più posti, costruiti in legno. Il pavimento era pure in legno, i giacigli di paglia.

Tutto assommato aveva prodotto una tale generazione di cimici mai vista né immaginata in precedenza, al punto da dover passare notti insonni dando loro la caccia. Ci si svegliava dal più profondo del sonno per le loro insistenti morsicature ed il corpo era cosparso di pustole arrossate in modo orribile. Facevano la fila lungo le gambe del castello, come fanno le formiche quando prendono d’assalto una pianta.
Così per giunta, causa le cimici e gli aerei, nemmeno ci era possibile dormire un po’. Piuttosto che un tal tormento si preferiva stare in piedi e si attendeva l’ora della sveglia, come la liberatrice da un enorme sacrificio e tormento. Non appena ci fu possibile, si prese l’abitudine di andare a dormire in un bosco retrostante al Lager.

(Continua)

La foto è tratta da: https://www.gedenkstaette-flossenbuerg.de/geschichte/aussenlager/aussenlager/venusberg/

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