Le molte morti del generale Stengel. Rivisitando la battaglia di Cassanio (21 aprile 1796) – 3

Ricostruzione grafica del movimento delle truppe nel fatto d’armi presso Carassone. Da R. Puletti, «Genova Cavalleria 1683-1983», Padova 1995

Ricostruzione grafica del movimento delle truppe nel fatto d’armi presso Carassone. Da R. Puletti, «Genova Cavalleria 1683-1983», Padova 1995

PAOLO LAMBERTI

Parte terza: le questioni aperte

La missione di Stengel

Il motivo che ha portato Stengel alla cappella di San Pò non è stato chiarito con sufficiente sicurezza.

Napoleone nel Memoriale esclude scopi offensivi, sembra quasi rimproverare a Stengel un’imprudente allontanarsi dal grosso dell’esercito; si può pensare alla dissimulazione di un errore, ma anche Grassi sottolinea gli scopi di ricognizione, allargabili al massimo a «qualche ardito colpo di mano». Krebs segue Napoleone, Astegiano si attiene a Grassi, Amo sembra più incline a questa versione.

Al contrario Martinel parla esplicitamente dell’incarico di tagliare la ritirata ai Piemontesi, e viene seguito da tutti gli altri storici; addirittura Bouvier (e con lui Occelli) ritiene la manovra fondamentale per sbloccare la situazione sul Brichetto, ignorando che lo scontro di Cassanio avviene dopo la sua caduta. Lo stesso Grassi, nel passaggio dalla Relazione alla Narrazione trasforma «la riprovata vittoria, senza della quale avrebbe certamente provata l’armata austro-sarda infiniti gravi disastri nella stessa giornata» in «senza di essi l’armata avrebbe certamente provato molti disastri nella ritirata verso Fossano e verso Cuneo» ed aggiunge «venne l’inaspettato avviso che la cavalleria nemica tentava di prenderla alle spalle e tagliarle la ritirata verso Bene».

Sembra quindi che l’idea dell’accerchiamento fosse diffusa tra i soldati piemontesi, a partire da Colli che nella lettera a Beaulieu esprime il timore di essere aggirato e ricorda di aver lasciato nella pianura due reggimenti di cavalleria proprio per copertura. La presenza degli altri squadroni dei dragoni a Mezzavia, ricordata da Grassi, rivela il bisogno di coprire le vie di ritirata verso Cuneo. Chaffardon stesso carica, secondo l’unanime opinione di Grassi e Martinel, per timore di un aggiramento della fanteria piemontese, la quale a sua volta si prepara all’attacco, con il quadrato delle truppe leggere, e poi esulta per la vittoria dei Dragoni, come per uno scampato pericolo. Dunque ritengo assodato che i Piemontesi temessero di essere aggirati e si siano comportati di conseguenza.

Non è detto però che questa fosse l’intenzione di Stengel. Nell’interpretazione di Bouvier sembra che ci si trovi dinanzi ad una tipica manoeuvre sur les derrières: ma tale ipotesi è negata dal fatto che l’esercito francese era impegnato in un assalto frontale, mentre le forze utilizzabili per un’aggiramento (Massena a Briaglia, La Harpe nelle Langhe) non vennero mosse: una tale operazione non viene mai fatta con la sola cavalleria, ma con forze massicce, superiori a quelle usate per lo scontro frontale, che ha solo lo scopo di fissare il nemico.

Non sembra neppure che ci si trovi di fronte al tipico inseguimento di cavalleria che segue ad una vittoria: il movimento dei cavalleggeri è lento, circa quattro ore da Vicoforte a Cassanio, e gli squadroni sono mossi in formazioni divise, con un’avanguardia (quella di Stengel) ridotta di numero. Il fatto poi che gli squadroni piemontesi di Mezzavia non si trovino di fronte che gruppi isolati di fanti francesi esclude la volontà di un doppio aggiramento.

È dunque molto probabile che abbia ragione Grassi nella Relazione, che Stengel fosse impegnato in una cauta ricognizione, con soldati e cavalli stanchi, al più con la possibilità, più che con l’ordine, di qualche colpo di mano su truppe sbandate; i timori piemontesi di essere aggirati non paiono corrispondere alla volontà di Buonaparte.

Le forze in campo

La ricostruzione dello scontro diffusasi in seguito alle notizie di fonte napoleonica sicuramente amplifica a dismisura i partecipanti e l’importanza del combattimento. Probabile origine di tale opinione è il ricordo di Buonaparte di aver inviato Stengel in missione con un migliaio di cavalieri, totale che verosimilmente corrisponde a quello di tutte le truppe presenti nel movimento da Vicoforte a Briaglia, la maggior parte delle quali rimase al di qua dell’Ellero: nel Memoriale di Sant’Elena a tale ricordo fa riscontro l’invenzione di un numero doppio di cavalieri piemontesi, spiegazione autogiustificativa ed insieme testimonianza di quella fiducia nella sua cavalleria, sviluppata negli anni successivi al 1796, che gli offre come unica spiegazione della sconfitta il numero soverchiante dei nemici.

Pertanto è necessario guardare alla testimonianza di Grassi e ai documenti coevi. Per quanto riguarda i Piemontesi, sia Grassi che i ruolini del reggimento ci confermano che al comando del colonnello Chaffardon stavano il primo e il terzo squadrone dei Dragoni del Re, reparto fondato nel 1683 e ancora oggi vivo come Genova Cavalleria. Il numero complessivo di cavalleggeri che partecipò alla carica è di 125 uomini.

Meno chiaro è il quadro delle truppe francesi. Grassi nella Relazione parla di circa 300 uomini, nella Narrazione di 200, intorno a tali numeri si pongono gli storici più recenti. Tale numero probabilmente comprendeva alcuni tirailleurs, e soldati di due reggimenti di dragoni, il 5° e il 20°; non pare invece che vi fossero ussari. Il grosso degli uomini era probabilmente del 5° reggimento, che subì le perdite maggiori, mentre sulla presenza e sul ruolo di uno (o due) squadroni del 20° si tornerà più avanti.

Quanto al ruolo delle fanterie, e in particolare della Legione delle Truppe Leggere (l’antenata della Guardia di Finanza), esso pare del tutto marginale: infatti Grassi testimonia dell’allarme suscitato dall’apparizione dei francesi, che spinse il brigadiere Civallero, ufficiale sardo di più alto grado in zona, a dare l’allarme a tutti i reparti di fanteria e a schierare due battaglioni della Legione in quadrato, per fermare una possibile carica; ma tale testimonianza ricorda anche che da tali quadrati vennero distaccati alcuni volontari guidati da un ufficiale con il fine di molestare i cavalieri francesi, e probabilmente di fronteggiare i tirailleurs, anch’essi truppe leggere destinate ad azioni di disturbo. Poi però i resoconti non dicono nulla del ruolo di questi soldati, da ambo le parti, per cui devono essere rimasti ai margini dello scontro.

Il combattimento

Lo svolgimento dello scontro appare abbastanza chiaro, tranne che in un unico punto. Dati costanti nelle varie narrazioni sono l’arrestarsi di Stengel, che attende la carica (o non se l’aspetta), la divisione in due gruppi dei suoi cavalieri, imitata dai piemontesi, la ricognizione di Chaffardon che si avvicina al punto tale da poter scambiare colpi di pistola con i francesi; parimenti chiara è l’iniziativa della carica, che spetta ai piemontesi, che, pur inferiori di numero, riescono a schierarsi su un fronte più ampio, avvolgendo i dragoni repubblicani e forzandoli alla fuga anche grazie ad una netta superiorità di cavalcature, più robuste e riposate, ulteriore segno della precarietà in cui versava la cavalleria dell’Armée d’Italie. Alla fuga francese corrisponde un breve, frenetico inseguimento che frammischierà le due parti al punto che quattro piemontesi verranno catturati tra i francesi; nel momento in cui i francesi ripassano l’Ellero, Chaffardon, per timore di un agguato, ritira le sue truppe: lo scontro è durato pochi minuti.

Meno sicura è la condotta di Stengel: secondo Grassi, seguito da quasi tutti gli storici piemontesi ma anche da Martinel e da Krebs, egli è in prima linea e viene travolto dalla carica piemontese, finendo con l’essere abbattuto dal brigadiere Berteu (si legga la salgariana ricostruzione del duello fatta da Biancotti). Tuttavia dal rapporto di Napoleone e dal suo Memoriale, echeggiato in Scott, Pinelli ed Amo, ma soprattutto in Bouvier, sembra che Stengel abbia contrattaccato alla testa di uno squadrone del 20° dragoni, venendo colpito in questa occasione. Secondo questa ricostruzione Stengel si aspettava di ottenere rinforzi, per questo motivo si era fermato, o, a detta del Memoriale, si stava addirittura ritirando; in tal caso si potrebbe immaginare che i 200 uomini fossero del 5° reggimento, che subisce le maggiori perdite, e viene sorpreso dalla carica piemontese, mentre la cifra di 300 data nella Relazione del Grassi comprenda l’arrivo di uomini del 20°, condotti al contrattacco, fallito, da Stengel, ma capaci comunque di assicurare la ritirata, o addirittura, secondo Krebs, di impadronirsi nuovamente del campo di battaglia. In appoggio a tale ipotesi stanno le più lievi perdite del 20° e l’elogio esplicito che ne fece Napoleone nella lettera al Direttorio, come se volesse distinguere un’unità non sconfitta da un’altra più duramente colpita, nonché forse l’illustrazione di Bagetti, preparata dal lavoro di Martinel, che mostra gruppi di cavalieri in cariche contrapposte (sulle illustrazioni dello scontro si veda Reviglio della Veneria).

Le perdite piemontesi furono di quattro prigionieri, due morti e dieci feriti; secondo il generale Beaumont, in una lettera del 22 aprile 1796, quelle del 5° reggimento ammontarono a 36 uomini e 26 cavalli, quelle del 20° a cinque o sei uomini e altrettanti cavalli: tali perdite comprendono circa venti prigionieri, testimoniati dalle fonti piemontesi.

Il ruolo di Murat

Argomento controverso è quello del ruolo di Murat, che, a partire dalle testimonianze napoleoniche è stato gratificato di un ruolo centrale, come l’uomo che respinse i piemontesi, o addirittura vinse l’intera battaglia (si veda Spinosa). Tuttavia né Grassi nella Relazione (ma lo fa nella Narrazione, forse influenzato dalla versione napoleonica) né Martinel lo citano, mentre molti storici, desiderosi di mediare tra le fonti, gli attribuiscono il merito di aver fermato e riordinato i cavalieri francesi in fuga, dopo aver ripassato l’Ellero. Tuttavia questo ruolo è stato attribuito da Krebs al generale Beaumont, che aveva il comando diretto del 20° dragoni, mentre Murat, in quanto aiutante di campo di Buonaparte, godeva di un’autorità meno diretta. Rimane pertanto il dubbio se egli effettivamente abbia avuto una parte così centrale, mentre la sua presenza nel movimento da Vicoforte a Briaglia è confermabile, visto che Napoleone non avrebbe potuto citarlo pubblicamente se non avesse svolto un qualche ruolo; certamente è più facile che Buonaparte fosse informato da lui piuttosto che da Beaumont, e che quindi, come spesso succede, gli onori siano toccati a chi è più vicino al potere, piuttosto che a chi sta in prima linea.

Ferite e prigionia di Stengel

La biografia di Stengel mostra qualche discrepanza tra i biografi ottocenteschi, che lo vogliono nato intorno al 1750, forse alsaziano, e il suo stato di servizio, riportato in Reviglio, che lo vede come suddito del Palatinato. Sembra che sia nato a Neustadt an der Weinstraße, l’11 maggio 1744. Comunque la sua carriera, dopo un inizio nell’esercito del Palatinato si svolge interamente nell’esercito francese, nella cavalleria leggera (ussari e dragoni), e lo porta ad alti gradi già sotto la monarchia, periodo in cui combatte nella Guerra dei Sette Anni. La sua ascesa si accelera sotto la rivoluzione, ma esemplifica i rischi che accompagnano le carriere lampo di quegli anni: infatti Stengel entra in due statistiche quanto mai significative riportate da Chandler, che ricorda come tra 1792 e 1799 su 1378 generali ben 994 furono sottoposti a misure disciplinari, di solito per ragioni politiche, mentre su 2248 generali che prestarono servizio tra 1792 e 1815 ben 1235 furono feriti o uccisi (230 morti sul campo). Appunto Stengel, nobile, straniero e legato a Dumouriez, il generale che tradì la Rivoluzione, viene sospeso e imprigionato due volte tra 1792 e 1794, sfuggendo per poco alla ghigliottina del Terrore (al pari di Berthier e Sérurier), e termina la sua vita in battaglia.

Le modalità delle ferite che l’uccisero sono narrate in modo sostanzialmente coerente dalle fonti, che attribuiscono al brigadiere Berteu (che per ironia della sorte fu impiccato a Torino nel 1797 come giacobino) il ruolo di antagonista di Stengel in un breve duello in cui il primo fu ferito al volto, ma riuscì a scavalcare e a colpire con tre fendenti il francese. Questi fu anche colpito da una pistolettata al braccio sinistro: Krebs l’attribuisce a Chaffardon, probabilmente confondendo tale fatto con la precedente ricognizione del colonnello piemontese; rimane comunque possibile che tale colpo sia stato esploso da un altro soldato, visto che non è agevole manovrare insieme spada e pistola mentre si carica; a meno che Berteu non abbia voluto finire Stengel dopo averlo atterrato, infliggendogli il colpo che quasi sicuramente sarà fatale al generale.

Meno chiaro appare dalle fonti il successivo destino di Stengel, che gli storici francesi vogliono che sia stato recuperato dai suoi sul campo; ma tale versione completa l’idea, falsa, di un finale contrattacco francese. Invece le fonti primarie, Grassi e Martinel, concordano sul fatto che Stengel fu soccorso dai piemontesi, che viste le sue condizioni non lo portarono in prigionia ma lo evacuarono a Carassone, dove fu trovato dai commilitoni; a conferma di tale fatto sta il destino della sciabola di Stengel, una lama di Damasco con un’iscrizione riportante un versetto del Corano, che rimase in mano ad un ufficiale piemontese, Carlo Vittorio Cacherano della Rocca, che partecipò allo scontro; oggi essa è conservata nell’Armeria Reale di Torino.

Ultime parole e morte di Stengel

In questo frangente Grassi ricorda la prima delle due frasi che ci sono giunte da Stengel: egli avrebbe detto: «Le Roi, le Roi de Sardaigne me connois» (così la Narrazione, in italiano nella Relazione). Grassi, da buon teologo, fa un paragone (abbastanza incongruo) con San Paolo atterrato sulla strada di Damasco, e conclude soddisfatto che con queste parole Stengel avrebbe riconosciuto la sovranità legittima del Re di Sardegna; di qui nasce il tentativo (così Occelli e Reviglio) di spiegare la frase, in maniera meno teologica, come testimonianza di un precedente servizio di Stengel presso l’esercito sardo, servizio di cui non vi è peraltro traccia. È invece molto più probabile che Stengel abbia tentato di farsi riconoscere come ufficiale superiore, evitando di essere abbandonato (o peggio finito) e rivendicando il suo status, che non poteva certo essere sconosciuto ai piemontesi: l’appello al re appare quindi un richiamo all’autorità del nome, più che a una conoscenza diretta o addirittura al bisogno di una palingenesi politica.

Quanto alla frase attribuita a Stengel nelle memorie dell’aiutante generale Landrieux, «quel miserabile piccolo Corso mi ha voluto far morire: c’è riuscito», Bouvier vi vede un duro giudizio su Napoleone: però, al di là dell’attendibilità della fonte, non altrimenti verificata, è possibile vedervi sia lo sfogo di un ferito che il rude scherzo di un veterano; non mi pare invece che possa costituire un’accusa a Buonaparte, che dalla ricostruzione degli avvenimenti non sembra aver imposto a Stengel né lo scontro, né tantomeno una “missione suicida”.

La vicenda di Stengel dopo il ferimento non è più testimoniata da altro se non dal certificato di morte, redatto nel Liber mortuorum della parrocchia di Carassone; in quei sette giorni è comunque possibile immaginare il calvario che attendeva i feriti in quell’epoca (e non a caso Napoleone costituirà per la Grande Armata un servizio medico avanzatissimo, sotto la guida del celebre medico Laennec): dolorose medicazioni e l’amputazione senza anestesia del braccio sinistro, che probabilmente costituisce, per le condizioni igieniche dell’epoca, il colpo di grazia ad un fisico già indebolito dalle sciabolate, e deve aver provocato setticemia o cancrena, vista la durata dell’agonia.

Parte quarta: una ricostruzione dello scontro

A questo punto si può tentare una ricostruzione del combattimento di Cassanio, sulla scia dell’esame delle narrazioni precedenti.

Colli, nel divampare della battaglia di Mondovì, colpito dai numerosi punti di attacco dei francesi, temeva di essere aggirato, e prese una serie di provvedimenti per assicurarsi la ritirata sia verso Cuneo che verso Fossano, tra cui l’ordine alla fortezza di resistere ad oltranza e lo schieramento di due reggimenti di cavalleria per proteggere le due strade di ripiegamento, alle spalle della città.

Tale timore si estese agli ufficiali, che appunto erano mentalmente preparati a vedere nel movimento di cavalleria di Stengel il manifestarsi del paventato aggiramento: si spiega così l’allarme dato da Civallero alle truppe, lo schierarsi in quadrato delle Truppe Leggere, la stessa decisione di Chaffardon di caricare pure se in inferiorità numerica.

Dal canto suo Napoleone era interessato soprattutto a prendere Mondovì per forzare l’accesso alla pianura, per rifornirsi e per riprendere l’inseguimento dell’esercito austriaco, il suo obiettivo strategico: in questa logica l’esercito piemontese, ormai duramente colpito e diviso da quello austriaco, costituiva un obiettivo minore, la cui distruzione appariva superflua; un giudizio confermato dall’armistizio di Cherasco.  Pertanto Buonaparte non tenta un aggiramento strategico, ma si limita a logorare i sardi con la forza del numero nella battaglia del Brichetto, mentre manda la cavalleria sul fianco per una ricognizione, forse volta anche ad assicurarsi che non giungessero forze austriache dalle Langhe: infatti il timore dei francesi era quello di un ricongiungimento degli austro-sardi, e per questo una divisione, quella di La Harpe, rimaneva nelle Langhe, mentre la linea dei rifornimenti era stata spostata da Savona all’asse Imperia-Val Tanaro-Ceva per allontanarla da tali minacce.

Stengel, con un migliaio di cavalieri, accompagnato anche dal generale Beaumont e da Murat, che come aiutante di Napoleone probabilmente ha il compito di riferire sui risultati, si muove da Vicoforte ed impiega circa quattro ore per giungere alla piana dell’Ellero dopo Carassone, attraverso le colline di Briaglia; non è certo un movimento offensivo, vista la circospezione e la lentezza della marcia.

Avvistate forze piemontesi, Stengel lascia il grosso dei soldati sulle colline e guada l’Ellero con forze ridotte, fermandosi ad osservare gli affrettati preparativi dei sardi, con truppe riunite, con la formazione di quadrati, con la comparsa di un gruppo di dragoni: è possibile che valutasse l’opportunità di qualche colpo di mano, o che aspettasse qualche rinforzo, è altresì probabile che non si aspettasse di essere attaccato. Dispone i suoi uomini, tutti o quasi del 5° dragoni, in due gruppi, che difficilmente sono schierati in linea di fila, come si fa per caricare, visto che un numero inferiore di piemontesi sarà in grado di estendersi più dei francesi e di avvolgerli.

La carica dei Dragoni del Re, schierati con efficacia, forse inattesi, certo più freschi e meglio montati, travolge i soldati francesi: Stengel cade ora, o forse tenta un contrattacco con uno squadrone del 20° dragoni, alla cui testa è abbattuto. Comunque a colpirlo con la sciabola è il brigadiere Berteu, meno sicuro è da dove sia partita la pistolettata che gli spezza il braccio sinistro, ferita che verosimilmente lo porterà alla morte.

Mentre la carica piemontese si esaurisce, i francesi ripassano l’Ellero, e vengono riordinati probabilmente da Beaumont, con l’aiuto di Murat; solo dopo un certo lasso di tempo riprenderanno possesso del campo di battaglia, nel frattempo abbandonato dai piemontesi. Precedentemente questi avevano evacuato i prigionieri francesi, mentre Stengel, fattosi riconoscere, viene prima soccorso sul campo, ai piedi di un noce, poi, viste le gravi condizioni che lo rendono inadatto alla prigionia, viene trasportato a Carassone, dove verrà ritrovato dai suoi commilitoni.

Gli resta una settimana di sofferenze, cui si deve ascrivere la frase ricordata da Landrieux, comunque vada interpretata. Il 28 di aprile Stengel incontra la sua morte, una, come per tutti.

Opere citate

La cappella di San Paolo a Mondovì Carassone, a cura di G. Galante Garrone e di G. Reviglio della Veneria, Collana Edizioni Valeo, Torino 1986.

Emilio Amo, Da Montenotte a Cherasco. L’invasione francese del 1796, Fossano 1988.

Lorenzo Astegiano, Il combattimento di Cassanio…narrato da scrittore contemporaneo, Mondovì 1908.

Angiolo Biancotti, Cosseria e le campagne di guerra dal 1793 al 1796, Torino 1939.

Fèlix Bouvier, Bonaparte en Italie, Paris 1899.

Giovanni Carboneri, La battaglia di Napoleone I a Mondovì da ms. contemporaneo, Mondovì 1938.

David G. Chandler, Le campagne di Napoleone, Rizzoli, Milano 1968.

David G. Chandler (a cura di), I marescialli di Napoleone, Rizzoli, Milano 1988.

Stanislao Cordero di Pamparato, I Dragoni del Re, in La rivoluzione piemontese del 1821, Torino 1924.

Giuseppe Corte, Battaglie di San Michele e del Mondovì combattute nell’aprile 1796 fra le truppe francesi e l’esercito piemontese, Torino 1846.

Ettore Fili, La battaglia di Mondovì del 19-21 aprile 1796 in Mondovì nel periodo napoleonico Atti convegno di studi storici a cura di A. Mazzucchi, G. Griseri, Mondovì 1994.

Giovanni Griseri, Il combattimento di Cassanio presso Mondovì (21 aprile 1796). La relazione autografa di Gioachino Grassi di S. Cristina, Studi Monregalesi, 1, dicembre 1996, pp.51-64.

Léonce Krebs, Henri Moris, Campagne dans les Alpes pendant la Révolution, d’aprés les Archives d’Etats-majors français et austro-sarde, Paris 1895.

Attilio Lerda, “Con il generale Stengel sulla Piana di Cassanio il 21 aprile 1796”, BSSAAA Cuneo, 82 ( 1980), pp.125-131.

Melania G. Mazzucco, La camera di Baltus, Baldini e Castoldi, Milano 1998.

Domenico Occelli, Il Monregalese nel periodo storico napoleonico 1792-1815 con particolare riguardo alla Storia del Piemonte e d’Italia, 2a ed., Tipografia Monregalese, Mondovì 1950.

Ferdinando Pinelli, Storia militare del Piemonte, 3 voll., Torino 1854-55.

Walter Scott, Vita di Napoleone Buonaparte…, tom. 5, Torino 1830.

Antonio Spinosa, Murat, Milano 1984.

3 – FINE