De Chirico e il volto della metafisica

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GABRIELLA MONGARDI
Nel 2019 cade un centenario anche per Giorgio de Chirico, il centenario di quello che è stato chiamato le volte-face, ossia la sua decisione del 1919 di ritornare a stili e tecniche ispirati al Classicismo e ai grandi maestri del passato, distaccandosi dalla precedente fase “metafisica” degli anni 1910-1918.
Scrive de Chirico stesso alla fine del 1918: «Come i frutti autunnali –– siamo ormai maturi per la nuova metafisica […]. Siamo esploratori pronti per altre partenze».

In linea con la posizione da lui sempre sostenuta, la mostra in corso a Palazzo Ducale a Genova, Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica, curata da Victoria Noel-Johnson, evidenzia non un distacco, ma un’evoluzione sempre più sofisticata della sua arte, per cui si dovrebbe parlare di metafisica continua, come vuole lo studioso Maurizio Calvesi: l’intero corpus dechirichiano, nonostante le variazioni di stile, tecnica, soggetto, composizione e tonalità di colore, è da considerarsi “metafisico”, nell’accezione che il pittore stesso precisava nell’articolo Noi metafisici apparso in “Cronache d’attualità” il 15 febbraio 1919: «Ora io nella parola “metafisica” non ci vedo nulla di tenebroso; è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare “metafisica” e tanto più metafisici mi appaiono quegli oggetti che per chiarezza di colore ed esattezza di misure sono agli antipodi di ogni confusione e di ogni nebulosità»

Il percorso della mostra non segue l’ordine cronologico, ma una scansione tematica: si inizia con gli esterni metafisici, poi gli interni, i protagonisti, la natura metafisica, l’incontro con la tradizione, per arrivare all’ultima sezione, “il viaggio senza fine”. Si legge sul sito di Palazzo Ducale: «Le opere di de Chirico, influenzate dalla filosofia del tardo Ottocento e in particolare da Nietzsche, esplorano il capovolgimento del tempo e dello spazio, con prospettive ed ombre illogiche, utilizzando spesso il dépaysement, giustapposizioni senza senso di oggetti comuni in ambienti inaspettati».
Vale senz’altro per de Chirico quello che lui scrisse nel 1920 per Arnold Böcklin, in cui coglieva quella “rivelazione d’un che d’ inspiegabile che dà all’artista creatore quella gioia divina, forse la gioia più profonda e più pura che sia concessa a noi mortali”: «Ogni sua opera dà quel senso di sorpresa e di turbamento come quando ci troviamo davanti ad una persona sconosciuta ma che ci pare aver già vista un’altra volta senza poter ricordare il tempo e il luogo, o come quando entrando la prima volta in una città troviamo una piazza, una strada, una casa ove ci sembra di essere già stati».

Tra le circa 100 opere esposte, realizzate dal Pictor Optimus nell’arco della sua intera carriera e provenienti da prestigiosi musei come la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico di Roma, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, il MART di Rovereto, la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti di Firenze, nonché da importanti collezioni private, ne selezionerò quattro, per me particolarmente emblematiche di una pittura “araldica”, costruita sugli emblemi.

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In Piazza d’Italia con piedistallo vuoto, del 1955, lo sguardo del pittore-filosofo, che trasforma la quotidianità e la banalità delle cose in rivelazione, offre all’osservatore un mondo perfettamente geometrico, dai contorni nettissimi, di pure forme riempite con colori intensi e accesi. Vengono in mente le “Città Ideali” rinascimentali, ma qui manca la perfetta simmetria, c’è qualcosa di sghembo, il centro del dipinto non è occupato da niente, il piedistallo è vuoto, e sullo sfondo si intravede un trenino che sembra un giocattolo e viaggia nella stessa direzione del vento che fa garrire le bandierine sull’edificio di sfondo.

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Ancora più straniante l’Interno metafisico con testa di Mercurio, del 1969, che opera contemporaneamente sul piano dell’autocitazione (autoparodia?) e della mise en abîme: sulla parete destra dell’interno si apre infatti una “finestra” attraverso cui si scorge… una “piazza d’Italia con piedistallo”, questa volta non vuoto, ma occupato da una statua. Quello che più interessa al pittore sembra essere sempre la geometria “in alta definizione”: la nitidezza delle linee, i colori pieni, in una ricerca di razionalizzazione della realtà, di ordine e di armonia che viene evocata solo per essere immediatamente negata, e coesiste con il suo contrario, con l’accumulo di particolari incongrui, di prospettive distorte, di cortocircuiti percettivi.

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Anche se esposto nella sezione “Protagonisti metafisci”, il quadro Le  muse inquietanti potrebbe rientrare tra gli “Esterni metafisici”, per via di quel Castello rosso sullo sfondo (il Palazzo Ducale di Ferrara, dove de Chirico fu costretto a trasferirsi per assolvere gli obblighi militari) e le due ciminiere di un’improbabile fabbrica, a dimostrazione che il passato e il presente coesistono sullo stesso piano: è de Chirico stesso a citare, in una lettera ad Apollinaire, il filosofo greco Eraclito e il suo insegnamento che “il tempo non esiste e sulla grande curva dell’eternità il passato è uguale all’avvenire”. Ma su quello che sembra il tavolato di un palcoscenico il primo piano è occupato da due figure senza volto, drappeggiate di abiti marmorei che paiono colonne doriche, e nell’ombra in secondo piano se ne scorge una terza, che ha braccia di donna in movimento ma poggia su un piedistallo come una statua: e sempre quella linea tagliente fra luce e ombra, e l’affollarsi di enigmatici, coloratissimi oggetti.

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Un altro “interno metafisico” è invece Il segreto della sposa (1971), esposto nell’ultima sezione, “Il viaggio senza fine”. Il quadro è la rielaborazione di un’opera del primo periodo metafisico intitolata appunto Il viaggio senza fine (1914). Si direbbe che qui De Chirico ritragga il suo atelier, “ricapitolando” i principali elementi/emblemi della sua arte: sulla destra le squadre colorate che avevamo visto nell’Interno metafisico con testa di Mercurio, a terra in primo piano la testa di una statua classica, sul cavalletto una grande tela raffigurante un manichino-sposa, sullo sfondo un quadro con un paesaggio claustrofobico: questa volta, non c’è profondità di campo, tutto è schiacciato in uno spazio piatto – forse perché il pittore è ormai anziano, e anche il suo tempo tende ad appiattirsi sul presente. Ma non ha importanza, perché tutto ritorna: e questo continuo riprendere opere precedenti da parte di de Chirico simboleggia appunto l’eterno presente della nostra memoria. Forse è questo, il segreto della sposa: aver fatto pace con il tempo…

INFO:
La mostra è visitabile da martedì a domenica, ore 10 – 19.30
La biglietteria chiude un’ora prima

www.mostradechiricogenova.com