Il ricordo di J.F. Kennedy a cinquant’anni dal suo assassinio.

STEFANO CASARINO.

In questo nostro povero tempo in cui la politica deprime e disgusta e il futuro preoccupa e sgomenta, ricordare la figura e l’opera del Presidente John F. Kennedy (29 maggio 1917 – 22 novembre 1963) a cinquant’anni esatti dal suo assassinio a Dallas è un po’ come uscire all’aperto e respirare una boccata d’aria fresca dopo esser stati troppo a lungo in un locale chiuso con sentore di muffa.

Voluta con  competente tenacia ed ottimamente organizzata da Stefano Tarolli, con la collaborazione del Comitato del Partito Democratico di Mondovì, la commemorazione ha attirato, nonostante il tempo brutto e freddo, un numerosissimo pubblico che ha gremito sino all’inverosimile la Sala Comunale delle Conferenze. E’ con legittima soddisfazione, con orgoglio, persino, che possiamo rimarcare che Mondovì ha ricordato così John Kennedy, in un modo certamente più ricco ed articolato di quanto abbiano (o non abbiano) fatto città ben più grandi.

Più di due ore sono state dedicate al Presidente (ma anche – né poteva essere diversamente – al fratello Robert e a Martin Luther King): dapprima con la proiezione di una serie di immagini che ritraevano un uomo giovane, piacente, dal largo sorriso, che sembrava sprizzare salute da tutti i pori (in realtà  era affetto dal morbo di Addsion e, come testimonia Frederick Vreeland, ex membro del Consiglio di Sicurezza nazionale di Kennedy in un articolo apparso su La Stampa di sabato 23.11.2013, soffrì sempre di seri problemi di salute […] ebbe una serie infinita di malattie mortali […] venne ricoverato dozzine di volte […] per tre volte nella vita ricette l’estrema unzione della Chiesa cattolica), e una famiglia “normale”, con bambini ancora piccoli, che per la prima volta nella storia dell’informazione diedero un’immagine fotograficamente e televisivamente accattivante della Casa Bianca.

Poi con l’intervista a Gianni Bisiach, forse il massimo “kennedologo” italiano, che ha sostenuto con interessanti argomentazioni la tesi che l’assassinio di Kennedy non sia stato opera di un solo uomo (Lee Harvey Oswald, a sua volta assassinato dopo soli due giorni da Jack Ruby), ma avvenne su commissione della mafia ad opera di più killers.

Infine, vero piatto forte della serata, il lungo ed appassionato discorso dell’ospite d’onore, Furio Colombo.

Impossibile qui ripercorrere, sia pure a grandi linee, l’entusiastica esposizione, efficace e completa. Mi preme, semmai, rimarcare alcuni aspetti.

Anzitutto: non si è trattato di una pacata e problematica rievocazione, ma di una commemorazione. Nessun uomo politico, e il Presidente Kennedy certo non fa eccezione, ha solo luci e nessuna ombra.

Critiche sono avanzate da più parti, mi limito a ricordare quella recentissima di un intellettuale del valore di Noam Chomsky che nella sua ultima opera “Sistemi di potere” sostiene: Kennedy autorizzò l’uso del napalm per distruggere campi e raccolti.[…]Nonostante il mito di Kennedy, egli fu fino alla fine uno di falchi dell’amministrazione.

Ma non era quello né il momento né la sede per avviare una discussione storica. Sia Bisiach che, ancor più, Colombo – che ha conosciuto e parlato personalmente sia col Presidente John che col Senatore Robert, ricordando alcuni simpatici aneddoti – sono rimasti soggiogati dal loro innegabile fascino e lo hanno trasmesso, intatto, al pubblico in sala.

Di John Kennedy è stato proposto un ritratto fulgido: un uomo con una ricchissima e coltissima famiglia di radicate tradizioni politiche alle spalle, con una solida formazione culturale e una spiccata sensibilità sociale, tale da indurlo a “cedere la scena” al grande Martin Luther King: è confortante constatare che talvolta nella storia può avvenire l’incontro e la cooperazione di due straordinarie personalità come costoro, che indubbiamente hanno trasformato in meglio e in modo irreversibile la società statunitense.

Se oggi ne è Presidente Barak Obama, lo si deve anche e soprattutto a loro.

Kennedy comprese, secondo Colombo, che l’America doveva rivolgere tutta la sua straordinaria energia non all’esterno, contro i nemici russi, ma all’interno, per realizzare davvero le promesse di uguaglianza sostanziale di tutti gli Americani già formulate dai Padri Fondatori.

In poco più di mille giorni è avvenuta un’incredibile concentrazione di fatti e i molti giovani presenti in sala li hanno sentiti elencare:  lo sbarco nella Baia dei Porci, operazione voluta dalla CIA e non da Kennedy, secondo Colombo; la crisi dei missili di Cuba e il blocco navale dell’isola, indubbiamente il momento di massima crisi della Guerra Fredda; l’inizio di un disarmo bilaterale.

Kennedy ha saputo governarli, trovare un’intesa, con fermezza e senza trionfalismi, col Presidente sovietico Kruscev, scongiurare il rischio esiziale di un conflitto nucleare: tutta l’umanità gli deve gratitudine, indubbiamente.

KennedyAutentico leader, ha proposto agli americani la nuova frontiera del futuro, ha cercato di responsabilizzarli, di potenziare il loro senso civico, interrogandoli su cosa ciascuno di loro poteva fare per il suo Paese.

Resta aperto il problema del Vietnam: l’invio di più di cinquemila consiglieri militari non è equiparabile all’invio di truppe regolari, ma non è comunque una strategia di pace.

Resta aperto il problema della continuità o della discontinuità della Presidenza Johnson rispetto a quella Kennedy, sia nella politica interna che estera. Problemi storicamente ancora irrisolti, che non si potevano né si dovevano proporre in questa circostanza.

Quello che invece andava rimarcato, come ha fatto benissimo Furio Colombo, è la capacità di Kennedy di creare consenso, e soprattutto di avvalersi della cultura per ciò, di circondarsi di collaboratori insostituibili come Arthur Schlesinger e Ted Sorensen: non era un uomo solo al comando, tutt’altro.

Noi, avvezzi a scissioni e a leaders (o sedicenti tali) divisivi, non possiamo non chinare il cappello di fronte ad un Presidente che incarica un poeta, Robert Frost, di inaugurare con la lettura di una sua poesia il proprio mandato presidenziale.

Lo ricordò nel 1997 Enzo Siciliano: durante la cerimonia dell’ insediamento alla Casa Bianca di J. F. Kennedy un vecchio poeta con i capelli bianchi – era una gelida mattina d’ inverno – venne pregato di leggere alcuni versi scritti per l’ occasione. La lettura doveva rappresentare il segno tangibile della novità culturale della presidenza Kennedy. Il vento era forte, il sole accecante. Il vecchio poeta, appunto Robert Frost, non riuscì a mettere a segno il compito ricevuto: i foglietti che aveva tra le mani gli sfuggirono; decise allora di dire altri suoi versi che conosceva a memoria, “Il dono totale”, una poesia che comincia “The land was ours before we were the land’ s”, “La terra era già nostra prima che noi fossimo della terra. / (…) Tali come eravamo ad essa ci donammo, / alla patria, che verso est si andava disegnando, / ma ancora senza storia, senz’ arte, senza ricchezze, / proprio come essa era, al contrario di come sarebbe diventata”.

Paese senza storia o, meglio, con una storia così recente a confronto delle plurisecolari tradizioni degli Stati europei, gli USA hanno quasi visivamente metamorfizzato la loro giovinezza nel sorridente volto del giovane Presidente, divenuto un’icona del sec. XX.

Secondo Colombo, con un po’ di comprensibile partigianeria, John Fitzgerald Kennedy è un esempio di quella buona politica di cui oggi (ed ormai da tempo) lamentiamo l’assenza.

Certo è l’immagine, ancora vitale, di un Presidente amato, di un uomo che ha creduto e fatto credere in ideali nobilissimi, che ha lasciato un segno netto nel tempo a venire: di quanti uomini politici del mondo di oggi si può e si potrà dire lo stesso?