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GABRIELLA VERGARI
Ti riconosco subito, mentre sulla strada di fronte alla mia ti colgo un po’ di sbieco osservare quei sandali in vetrina con lo stesso sguardo famelico che, da bambina, ti si accendeva, davanti ad una nuova confezione di colori a spirito o pastelli a cera.
Ne avevi a bizzeffe e le sfoggiavi di continuo, aprendole ogni volta con cura solenne e speciale.
Ti piaceva creare la suspence nel tuo piccolo pubblico, soprattutto se sopraggiungeva qualcuno di nuovo.
Ma più ancora ti piaceva cogliere la lama di desiderio negli occhi delle altre, specialmente le meno abbienti, che mai si sarebbero potute permettere né i 36 variopintissimi esemplari della Giotto, né le fantasmagoriche scatole Caran d’Ache.
E lo sapevamo tutte che era in fondo solo per questo, per il loro lampo di desiderio represso, che le ammettevi nel tuo paradiso cromatico perché, così come glielo stavi aprendo e mostrando tutta sollecita e compiaciuta, gliel’avresti poco dopo richiuso davanti al naso, con la scusa di riporlo al sicuro nella tua cartella di pelle bordeaux.
Non avevi certo intenzione di prestare niente a nessuno: non eri là per condividere, solo per confermare il tuo dominio.
C’erano poi le gommine da cancellare, con gli occhietti di plastica semoventi e le essenze profumate e le sagome degli animali, da quelli domestici ai più rari e selvaggi, che preferivi.
Ti vedevo agitare le manine nervose mentre, al loro passaggio sul foglio, gli occhietti andavano su e giù, lasciando sparire i tuoi errori in una scia di teneri frammenti gommosi, rosa pesca, verde menta o blu oltremare.
Tra tutte, io allora amavo quella a forma di cigno bianco che mi richiamava il tutu spumeggiante dell’etoile russa che avevo da poco avuto modo di ammirare a teatro, mentre danzava Tchaikovsky.
Tu invece prediligevi la pantera viola-notte, un po’ come il colore dei sandali in vetrina, ora che ci faccio caso. Da qui non riesco a notare tutti i loro dettagli, ma conosco il negozio e le sue marche e non stento a credere che avrai scelto il modello più costoso.
Se ti conosco solo un po’, scommetto anzi che tra un attimo entrerai a comprarli, e poco importa se saranno pressappoco uguali a quelli che ti trovi già a casa.
Immagino le tue scarpiere straripanti. Ma che problema possono costituire cento, duecento paia di scarpe, per te, che al tempo delle medie amavi collezionare rossetti e lip-gloss e ti smaltavi le unghie in mille gradazioni diverse, quando ancora non si parlava neppure vagamente di nail-styling e al più si oscillava tra il carminio, l’arancione, il rosa tenue e il trasparente nature?
Lo ammetto, non è carino ma, mentre mi soffermo su questi ricordi, non posso fare a meno di guardarti le mani. Non porti più la fede, mi pare.
Ma allora è vero quello che ho saputo, che hai lasciato anche tuo marito Carmelo.
Poco male, ho sempre pensato che non fosse fatto per te.
Ma già, chi lo può dire chi o cosa faccia per te?
I primi amorazzi ti sono scivolati addosso come niente.
Poi, se ricordo bene, è venuto Luca, per il quale sbavavamo tutte, in comitiva.
Te lo sei preso come il resto, di diritto, e te lo abbiamo lasciato senza quasi dispiacercene, come se fosse la più naturale delle conseguenze.
E con chi altri si sarebbe potuto mettere, lui che era così bello, così capace, così sensibile e intelligente?
Un pezzo raro, che ti sei tenuto stretto per un paio d’anni, sfoggiandolo un po’ come le tue proverbiali gommine.
Poi ti è venuto a noia, troppo perbene hai decretato, e lo hai mollato come un cencio vecchio ormai slavato.
Luca ci ha messo mesi per riprendersi, ma in fondo se l’era voluta: che si sarebbe potuto aspettare da una come te?
Così è venuta l’ora di Federico, che era pure conte e ti veniva a prendere all’Università con il macchinone, aprendoti la portiera.
Risento ancora la scia di profumo che lasciava al suo passaggio e soprattutto l’eco della sua autoradio con gli ultimi hit di successo, eternamente diffusi in stereo.
Un’altra gommina, un po’ più di lusso, di cui hai comunque fatto presto a sbarazzarti, tra un cocktail al club e un torneo di tennis.
E sei passata al bowling e al biliardino, con Marcello che aveva dei bicipiti così e uno dei primi tatuaggi sul petto che si vedessero in giro.
Non era fine, anzi per così dire decisamente ruspante, e le rare volte in cui parlava abbatteva colonne, con il suo impiego creativo di parolacce e congiuntivi assassini, ma riconosco che potesse avere un suo perché.
Gli abbiamo dato sei mesi e ci abbiamo in parte azzeccato.
Con l’anticipo di tre settimane, già a fine agosto, era storia morta.
Il tempo di regalarti, per la laurea, il collanone da galeotto, tutto in argento dorato, con il ciondolo a forma di cuore in acciaio, come allora si portava, e offrirti il week-end alle Eolie, che già all’orizzonte si stava profilando Tommaso, il collega yuppie con le camicie di lino cucite a mano e siglate, la cintura di autentico coccodrillo e il rolex sul polsino, come usava l’Avvocato.
Un impatto disastroso, inevitabilmente deflagrato come una bomba atomica, tanto che i pezzi li abbiamo dovuti pazientemente raccogliere noi amici della prima ora.
Un’esperienza forte ma direi ora a posteriori benefica, dato che ti sei finalmente fermata chiedendoti se ci fosse qualcosa di sbagliato in te.
Ricordi?
Ḕ stato proprio allora che ti ho parlato del monumento a Napoleone, quello che tanto mi aveva colpito quando ero stata in vacanza ad Ajaccio.
L’avevo raggiunto con il trenino a Place d’Austerlitz e mi aveva impressionato per la sua assoluta verticalità: una monumentale parete di granito bianco sormontata dalla statua solitaria e drammatica dell’Imperatore, mentre ai piedi gli si stende la ripida scalinata dei suoi trionfi.
Esclusivamente le vittorie, una dietro l’altra, come una sorta di tributo all’ascesa, senza poter mai davvero immaginare alcun tempo né alcun luogo per la sconfitta.
Mancano infatti Trafalgar e soprattutto Waterloo, solo che te ne accorgi dopo.
Eppure, nell’istante stesso in cui lo realizzi, finisci per leggere il monumento in ben altro modo, come se tutte le tappe di quell’inarrestabile salita non fossero state che fasi preparatorie all’unica, radicale, esiziale discesa.
Mi hai guardato perplessa e sei rimasta in silenzio, inanellandoti il solito ricciolo attorno all’indice destro, come quando dovevi risolvere alla lavagna una disequazione complicata.
Il tuo volto ha mutato mille espressioni.
«È l’inquietudine», hai detto alla fine. «Sembri insaziabile e insoddisfatta, ma in realtà c’è qualcosa che ti scava dentro e non ti fa fermare mai. Sai che c’è sempre dell’altro e alzi l’asticella, ancora, ancora, ancora. Tutto qui…» mi hai rivelato a sorpresa e quasi mi hai sconvolto, perché era la prima volta che mi parlavi con tale sincerità, aprendomi il tuo cuore. E credo in realtà che fosse la prima volta in assoluto anche con te stessa. Si vede che dovevi stare proprio da cani, tant’è che non c’è mai più stato un seguito.
Questo angolino di sipario sollevato, mi ha tuttavia aiutato a comprendere che in fondo ti mancava una causa, un’autentica causa cui donarti anima e corpo.
L’hai cercata nel volontariato e sei partita per l’India, con sacco a pelo e zaino in spalle.
Un anno sabbatico inteso a trasformarti, se non avessi dovuto interromperlo sul più bello, rimpatriata di corsa, per gli effetti della gastro-enterite che ti stava annientando.
Trasportata d’urgenza con un aereo della Croce Rossa, sei rimasta ricoverata non so quanto in quel reparto specializzato, dove hai proseguito la tua fase ascetica a completamento di quanto avevi provato ad avviare, tra guru e maestri spirituali.
Astinenza è stato allora il tuo motto: niente carne, niente alcolici, niente lussi o abitudini dispendiose e soprattutto niente sesso, finché non hai recuperato le forze e hai intrecciato due relazioni contemporaneamente, una con l’infermiere che ti aveva prestato i primi soccorsi, l’altra, con il cardiologo che del tuo cuore aveva cominciato a conoscere così bene i battiti da volerne anche alcuni per sé.
Occhi neri e sopracciglia ardenti, Giampiero, sguardo azzurro-ghiaccio e profilo tagliente, Fausto.
Insieme, a teatro, sarebbero stati un duo niente male, complementari come da protocollo si mostravano. Uno giovanissimo, tutto slancio e passione, l’altro di mezza età, tutto indolenza e disincanto. Libero e bello, il primo, ammogliato già due volte e con tre figli, l’altro. Invece che andare in scena con eleganza e strappare il sorriso degli spettatori, hanno ad un certo punto finito con il prendersi a pugni nel bel mezzo di un ricovero d’urgenza, trasformandosi in una macchietta di forse scarso successo artistico ma certa lunga eco mondana, tant’è che a volte si racconta ancora di loro in qualche attempato salotto cittadino.
Lo scandalo non ti ha toccato più di tanto, anche perché, una volta dimessa, hai provato a riprendere la tua vita normale, cominciando a frequentare Luigi e, un paio di mesi dopo averlo lasciato, mio cugino Giacomo.
Credo sia stato questo a farmi allontanare da te.
Giacomo non avresti dovuto toccarlo. Eravamo cresciuti come fratelli e proprio non mi andava di lasciartelo maciullare. Ti ho affrontato a muso duro, cavando fuori da un sacco, che non credevo così pieno, tutto ciò che si era accumulato negli anni e, ammetto, anche qualcosina di più.
Mi hai fulminato come non dimenticherò mai e ho seriamente pensato che, se avessi tu stretto in quel momento un’arma, mi avresti steso senza il minimo ripensamento.
Invece mi hai girato le spalle, senza una parola e mi hai cancellato dal tuo mondo. Ma Giacomo te lo sei tenuto, scavando tra noi una frattura che solo da recente siamo riusciti in qualche modo a ricomporre, grazie al richiamo del sangue o forse, chissà, ad un affetto che alla lunga ha avuto la meglio su tutto. Non ho mai capito se ti attraesse davvero o se fossi solo desiderosa di vendetta o di afferrare anche ciò che mi appartenesse di più. Ammetto che ti avevo ritenuto appena più leale, ma mi son dovuta ricredere, a mie spese.
Non si può stare vicino ad un rapace, se non lo si è a propria volta. Prima o poi ne finisci preda, e così è stato.
Da quando vi siete lasciati, o meglio, da quando lo hai lasciato andare, Giacomo si è trasferito in Irlanda e ormai sembra davvero sereno, con Elisabetta e le loro due gemelle, Alice e Benedetta.
Mi è giunta voce che anche tu abbia avuto due figlie, da Carmelo, ma non voglio nemmeno sapere che tipo di madre tu sia né, se per questo, che tipo di andamento coniugale sia stato il vostro. Presumo tu abbia debitamente onorato il capo di tuo marito con un bel palco di corna come un cervo, ma magari mi sbaglio.
Noto comunque che sei rimasta sull’uscio e che ci stai mettendo più tempo del previsto ad entrare nel negozio e completare il tuo acquisto.
Che ti succede? L’esitazione non è nelle tue tinte. Forse le scarpe non ti piacciono, ma ho riconosciuto benissimo lo sguardo che poco fa ti si è acceso negli occhi, e sarebbe la prima volta che non fosse diretto preludio all’azione.
Ti allontani invece dalla vetrina e ti accosti alla macchina posteggiata vicino.
Ti muovi verso il bagagliaio e con un paio di mosse esperte tiri fuori… una sedie a rotelle?
Ohibò, e questo cos’è?
La assesti in modo che resti ben sicura sulle ruote, e la fermi vicino la portiera del passeggero, aprendola con cura. La testa che si sporge da lì è quella di un uomo ricciuto, appena imbiancato. Fa forza sulle braccia mentre lo aiuti a sistemarsi sulla sedia.
Poi ti chini a sollevargli le gambe immobili, per sistemarle con cura sui poggiapiedi estraibili, prima di ricoprirgli gentilmente le ginocchia anchilosate e smagrite con un leggero plaid di tartan scozzese, verde e rosso.
Sei davvero un’infermiera magnifica, né ti avrei fatto così piena di premure per nessun altro essere umano al di fuori di te.
Ma che succede, stai forse svolgendo un tirocinio da badante?
Non mi stupirebbe, dato che ti reputo capace di tutto.
E lui quindi chi è, un tuo assistito?
Ha un sorriso dolce, velato appena di tristezza, povero lui.
E i tratti chiari e delicati di chi venga dal freddo.
Che fine gli farai fare, mi chiedo, mentre ti vedo accarezzarlo teneramente sul viso, quasi a volerlo ricompensare della fatica che ha appena affrontato per venir fuori dall’auto.
E poi lo abbracci e ti chini a baciarlo.
Ma non mi dire, state… insieme?
Stento a crederci, ma il gesto è così esplicito e spontaneo da non lasciar molti dubbi sulla natura del vostro legame. Ed è anche a suo modo poetico, tant’è immediato.
Quindi giri svelta di dietro e cominci a far avanzare la carrozzella con una sollecitudine addirittura commovente. Sosti appena un attimo ancora davanti alla vetrina con i sandali per mostrarli al tuo compagno, e passi oltre, diretta chissà dove.
Quanto a me, devo avere un’aria sconvolta, se poco dopo una signora mi avvicina preoccupata per chiedermi: «Che fa, si sente male? Sembra quasi che abbia visto un alieno», senza lontanamente immaginare quanto possa averci azzeccato…

(Il racconto è stato ispirato all’autrice dal quadro di Franco Blandino “La schiava”, olio su tela)